Jules Romain Barni
I martiri del libero pensiero
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I MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO

NONA LEZIONE Gian Giacomo Rousseau

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NONA LEZIONE

Gian Giacomo Rousseau

Signore e Signori,

Il XVI secolo si chiude sul rogo di Giordano Bruno, arso in Roma nel 1600, e il XVII vede ancora il supplizio del Vanini, arso in Tolosa il 9 febbraio 1619. Anche in appresso, nel 1632, settantanove anni dopo il rogo di Michele Servet, seguì in Ginevra un altro auto-da-fè men noto di quello del Vanini, ma non men deplorabile, quello cioè, di Niccola Antoine, dapprima reggente nel collegio di Ginevra, poscia pastore a Divonne, condannato al fuoco, a malgrado del manifesto suo stato di follia, per aver rinnegato e bestemmiato Gesù Cristo. Ecco come la discorrevano i ministri che diedero il voto per la morte di quell'infelice:

«È manifesto essere la pazzia di questo uomo una punizione di Dio; essa cominciò il 6 febbraio scorso; ma da vari anni, quando egli studiava tra noi e viaggiava in Italia, era sanissimo di mente ed ammetteva la propria eresia. Ora, se gli fate grazia perchè è demente, dovete assolvere gli adulteri che cedono alla forza della loro inclinazione, lasciar in libertà gli omicidi che sono trascinati dalla collera, risparmiare i ladri, pei quali i beni altrui hanno irresistibile attrattiva. Per queste ragioni, e considerando le bestemmie di Niccola Antoine, che sono mille volte peggiori di quelle d'Ario e del Servet, bisogna metterlo a morte, e noi siamo certi d'aver l'approvazione di tutta la Cristianità, ed anche dei Gesuiti, ad eccezione degli anabattisti e dei libertini114

È bene il soggiungere che, mettendo da parte gli anabattisti e i libertini, nel seno stesso della Compagnia alcuni pastori si dichiararono e protestarono contro lo stupido parere dei loro colleghi; ma erano i meno, e lo sventurato Antoine fu dato alle fiamme, dopo essere stato strozzato: la sentenza aveva così mitigato in suo favore il supplizio del fuoco. Fu questo del rimanente l'ultimo supplizio capitale che in Ginevra accadesse per causa d'eresia; da quella turpe esecuzione in poi si lasciò dormire, senza però abrogarlo formalmente, l'orribil Codice giustinianeo. Parve abbastanza l'abbruciare i libri e l'incarcerarne o l'esiliarne gli autori.

In Francia, dopo il supplizio del Vanini, non videsi più, per verità, alcun libero pensatore condannato a perire sul patibolo; ma la persecuzione non cessò d'inferocire contro i filosofi, e la fine del secolo e del regno del gran re fu terribile ai Protestanti.

Arrestiamoci un momento, prima di passare al XVIII secolo, sopra questi due gran fatti della storia del pensiero filosofico e religioso nel XVII.

Il più grande nome della filosofia nel XVII secolo, innanzi del Leibnitz, è il Descartes. Non senza ragione ei fu detto il padre della filosofia moderna; almeno l'affrancò definitivamente dal giogo dell'autorità, e le indicò il metodo, dandole nel tempo stesso l'esempio d'una vita tutta intenta alla ricerca della verità. «Infine (egli dice nella terza parte del suo Discorso del metodo, dopo aver riferite le regole della morale che si aveva formata, come dire, temporaneamente), infine, per conclusione di questa morale, io pensai di fare una rassegna delle diverse occupazioni che hanno gli uomini in questa vita, per istudiarmi di sceglier la migliore; e senza che io voglia dir nulla di quelle degli altri, giudicai non poter far di meglio che continuare in quella stessa in cui mi trovava, cioè dedicar tutta la vita a coltivare la mia ragione, e avanzarmi quanto più potessi nella conoscenza della verità, secondo il metodo che io mi era prescritto.» Ma, se il Descartes dedicò in tal modo tutta la vita alla ricerca della verità, e se fu in questo senso un vero filosofo, volle anche prendere tutte le cautele per non accrescer l'elenco dei martiri, e per vivere, cioè per filosofare tranquillamente. Onde egli stimò bene di lasciar la Francia per dimorare in Olanda, il paese d'Europa a que' giorni dov'era più libero il pensiero; ed anche in quel ritiro riputò cosa prudente tener per il frutto delle sue ricerche sul sistema del mondo, allorchè intese la condanna di Galileo. «Tanto io ne son rimasto stupefatto, scrisse egli al padre Mersenne il 28 novembre 1633, che mi sono quasi risoluto ad abbruciar tutte le mie carte, o almeno a non lasciarle vedere a chicchessiaPoscia, nel 1637, quando egli si determinò a pubblicare i suoi pensieri, usò tutti i possibili riguardi e stratagemmi per istornar le burrasche dal suo capo, e, diciamolo anche ad onore di quel sommo intelletto, per assicurar meglio il buon successo delle proprie idee. Così appunto, mettendo da un lato tutte le quistioni riguardanti la teologia e la politica, egli ristrinse il suo libero esame nei limiti della pura metafisica, della geometria e della fisica; così ancora egli dedicò le sue Meditazioni (ampliamento del Discorso del metodo) ai signori decani e dottori della sacra Facoltà di teologia di Parigi. Or bene, con tutti questi riguardi, stratagemmi e cautele, che sembravano eccessive persino al Bossuet (ben è vero che questi ne parlava a suo bell'agio), con tutto ciò il Descartes non potè sfuggire intieramente alla persecuzione, anche in Olanda. Poco tempo dopo la pubblicazione del Discorso del metodo (edito nel 1637 a Leida), egli vide scoppiar contro di , nel seno dell'Università di Utrecht, una violenta burrasca, suscitata da Gisberto Voët, allora professore di teologia, indi a poco rettore. Questi non tenevasi dall'accusar d'ateismo l'autore del Discorso del metodo e delle Meditazioni; lo paragonava al Vanini e nel tempo stesso ad Ignazio da Loyola. Il Descartes si difese, ma un editto dei magistrati, circonvenuti dal fanatico Voët, ordinò che egli fosse citato a suon di campana, acciocchè rispondesse dell'accusa d'ateismo e di quella di calunnia. Egli risicava almeno d'essere condannato ad una grossa multa e di vedere i suoi libri abbruciati per mano del carnefice. È fama che il suo avversario, credendosi certo del successo, avesse già fatto un accordo col carnefice, affinchè questi non risparmiasse legne nel rogo, e si vedesse la fiamma ben da lontano. Fortunatamente il Descartes riuscì a far cassare quella procedura iniqua, per la protezione dell'ambasciatore di Francia e del principe d'Orange, e potè continuare a vivere tranquillamente in seno dell'Olanda. Ma la filosofia del Descartes ed i suoi seguaci restarono lunga pezza segno alla persecuzione; e quando nel 1667 il corpo di quel grand'uomo, mancato di vita nel 1650 a Stocolma, dove lo aveva chiamato la regina Cristina, fu riportato a Parigi per essere collocato in gran pompa in un sepolcro della chiesa di Santa Genovieffa, mentre il padre Lallemand stava per salire in pulpito a dirne l'orazione funebre, sopraggiunse un ordine della Corte che vietava ogni discorso in onore del Descartes.

Ma tutte queste persecuzioni furono un nulla in paragone di quelle che scatenò contro i Protestanti la revoca dell'editto di Nantes, «quella trama orribile, dice il Saint-Simon115 (nessuno colpì d'infamia così abbominevole atto con parole più energiche), quella trama orribile che cagionò i tormenti ed i supplizi, nei quali i dragoni fecero morire tanti innocenti a migliaia; che rovinò un popolonumeroso; che straziò un'infinità di famiglie; che armò i congiunti contro i congiunti per avere i loro beni e lasciarli morir di fame...; che diede lo spettacolo d'un sì numeroso popolo proscritto, nudo, fuggiasco, errante senza delitto, cercante un asilo lunge dalla sua patria; che mise nobili, doviziosi, vecchi, persone per lo più reputatissime per la pietà, il sapere, la virtù loro, persone agiate, deboli, di delicata complessione, al remo e sotto il nerbo rigidissimo del còmito, per unica causa di religione...» Quivi bisogna cercare i martiri, alla fine di quel secololetterato e sì polito che si chiamò il gran secolo, sotto il regno di colui che fu nomato il Gran Re; ve ne furono a migliaia. Imperocchè, se molti sacrificarono la coscienza alla propria vita, alla propria libertà ed alla propria fortuna, quanti altri non sacrificarono la fortuna, la libertà e la vita stessa alla propria coscienza! Quanti soffersero i più crudeli supplizi, o si lasciarono spogliare di tutto e trarre in galera piuttostochè abiurare la propria fede! Ma non entra nel mio subbietto lo spiegarvi dinanzi questo nuovo martirologio, oltrechè vi bisognerebbe un corso intiero; solamente io volli segnarne il luogo e mostrare che non lo dimenticava.

Del resto siffatte orribili persecuzioni non finirono colla morte del Gran Re, il quale credeva espiare con ciò i propri peccati; in pieno secolo XVIII, sotto il regno del re cristianissimo Luigi XV (che aveva anch'egli, è vero, molti peccati da espiare), nel 1745 due ordinanze imponevano di mandare alla galera, senza forma di processo, tutti coloro che avessero assistito alle assemblee dei religionari; i bambini erano sottratti ai loro genitori; le donne rase, battute con verghe, rinchiuse per tutta la vita; i pastori giustiziati.

Nel tempo stesso, poichè tutte le tirannie si dan la mano, a tenore di un'ordinanza del 1757 era vietato, sotto pena di morte, pubblicare alcun'opera tendente a commuovere gli intelletti. Vero è che la pena non fu mai applicata in Francia nel XVIII secolo per un delitto di quella specie; l'opinione pubblica non lo consentiva più; ma la prigionia, il bando o la fuga, le più belle o le migliori opere date al fuoco per mano del carnefice, ecco la sorte che minacciava di continuo o che di fatti colpiva gli scrittori, i quali osavano pensare liberamente, combattere i pregiudizi, la superstizione, il fanatismo, predicare la tolleranza e l'umanità. E qui io giungo all'obbietto speciale di questa lezione, alla filosofia del XVIII secolo ed a Gian Giacomo Rousseau, nel quale voglio far vedere il martire della filosofia stessa.

Ma, innanzi di mostrare nel grande scrittore il filosofo perseguitato, bisogna ricordare qual fosse in generale la parte sostenuta dalla filosofia del XVIII secolo, e quale, in ispecie, quella rappresentata dal Rousseau in detta filosofia.

Vorrei dissipare prima di tutto un equivoco, di cui si fa singolare abuso. Molti ostentano d'immedesimare affatto la filosofia del secolo XVIII con quella dell'Elvezio e del D'Holbach, come se i più grandi scrittori di quel tempo, primi il Voltaire ed il Rousseau, non avessero altamente ripudiato e confutato eloquentemente il materialismo di quei filosofi. No, la filosofia del XVIII secolo non istà solamente nell'Elvezio e nel D'Holbach, e neanche nel Diderot e nel d'Alembert; non istà solamente nel Voltaire, in colui che fu nomato Il re Voltaire; ma anche in Gian Giacomo Rousseau, sì differente dal Voltaire, ed eziandio nel Montesquieu, sì differente da ambidue, ed ancora in Emanuele Kant, il filosofo di Könisberga.

Se ora noi consideriamo la filosofia del XVIII secolo in generale, prescindendo da uno od altro sistema, in cui potè fuorviare, quai che ne fossero i difetti e gli eccessi, essa mostra due grandi lineamenti che epilogano la parte da lei rappresentata, ed i quali sono a lei tanto inerenti che si trovano fin nelle più tristi dottrine ch'essa partorì:

Proclamando l'autorità assoluta della ragione, rivendicando il diritto di libero esame in tutta la sua ampiezza, applicando la critica a tutte le questioni, essa definitivamente emancipò lo spirito umano, e quindi compiè l'opera incominciata dal Risorgimento e dalla Riforma;

Essa distrigò, svolse e diffuse nel mondo l'idea, rimasta fino a quel tempo sotterrata od oscura, della giustizia universale e dell'umanità, e in tal modo compì o preparò la riforma dei costumi e delle istituzioni sociali.

Tal fu in generale la parte sostenuta dalla filosofia del XVIII secolo, e tali ne sono i titoli alla nostra gratitudine.

Il Rousseau ebbe non piccola parte in questa opera collettiva, ma in maniera tutta originale, che gli un luogo separato in mezzo alla filosofia del tempo:

Nell'ordine delle idee morali e religiose egli rappresenta il sentimento opposto all'abuso dell'analisi e del raziocinio; l'istinto sublime della coscienza, negato da molti filosofi che riducevano le leggi morali a convenzioni, e il dovere all'interesse personale; l'istinto religioso, difeso a un tempo contro la superstizione ed il fanatismo che sì odiosamente lo sfiguravano, e contro la filosofia che, per effetto di una reazione troppo naturale, l'oppugnava con tanta violenza; quel Cristianesimo ragionevole insomma che il Locke aveva tentato prima di lui, e che il Kant doveva dopo di lui tentare di nuovo, e il cui spirito evangelico insieme e filosofico era opposto dal Rousseau al cieco fanatismo degli uni e al frivolo scetticismo od agli assalti inconsiderati degli altri;

Nell'ordine delle idee politiche egli rappresenta il principio della eguaglianza repubblicana e della sovranità del popolo.

Ecco, non ostante gli errori o le esagerazioni e contraddizioni del troppo paradossale e poco coerente autore, le grandi parti di Gian Giacomo Rousseau, per tacere della magìa del suo stile che fa di lui il più eloquente scrittore del XVIII secolo. Per quelle parti l'ingegno di Gian Giacomo ritraeva della sua cuna, la città protestante e repubblicana dov'era nato, dove aveva passato i primi anni della vita e ricevuto le impressioni che non si cancellano mai.

Nell'Emilio e nel Contratto sociale principalmente, il Rousseau adempie il doppio ufficio da me sopra indicato; le quali due opere furono appunto quelle che incominciarono per esso il periodo delle persecuzioni, in cui stiamo per seguirlo. So bene che il Rousseau fu troppo spesso, per effetto del suo naturale, il carnefice di se medesimo; la sua immaginazione malata lo rese uno degli uomini più infelici del mondo; ma egli fu anche vittima di odiose persecuzioni, che aggiunsero mali troppo veri agl'immaginari, sicchè pagò col suo riposo e colla poca felicità, di cui potesse ancora godere, i benefizi fatti da lui al genere umano. E ciò voglio ora dimostrare.

In campagna, nel suo ritiro del Romitorio e in quello di Montmorency, egli meditò e compose le due grandi opere che gli dovevano tirare addosso tante persecuzioni. In mezzo al parco di Montmorency dettò specialmente il quinto libro dell'Emilio, Sofia o La Donna, che colla Professione di fede del vicario savoiardo è la parte più bella e più solida di quel monumento. «In questa profonda e deliziosa solitudine (egli dice nelle sue Confessioni), in mezzo ai boschi ed alle acque, ai concerti degli augelli di tutte le specie, all'olezzo dei fiori d'arancio, composi in continua estasi il quinto libro dell'Emilio, il cui colorito piuttosto fresco io debbo in gran parte alla viva impressione del luogo nel quale scrivevo

Per mala ventura la solitudine, mentre esaltava le sue potenze intellettuali e letterarie, pur aveva sopra di lui una triste azione; essa aveva accresciuto il male, a cui era anche troppo inclinato. Il Contratto sociale, frammento della grande opera che aveva ideata sulle Istituzioni politiche, e che poi aveva messa da parte, e l'Emilio si stampavano nel medesimo tempo. I ritardi che incontrò la stampa della seconda opera, e di cui egli non sapeva bene intendere la causa, gl'infiammarono l'immaginazione già malata, ed anche vieppiù eccitata da una malattia crudele onde in quel tempo soffriva; si pose in testa che i Gesuiti si fossero impossessati del suo libro e che, prevedendo vicina la sua morte, della quale egli dal canto suo non dubitava, volessero indugiarne la stampa per alterarlo a modo loro. «È singolare (dice egli stesso nelle Confessioni, parte II, libro XI, spiegando benissimo con ciò la sua malaugurata facilità, in generale, a riunire e raffrontare le minime circostanze, le quali potevano fargli nascere sospetti, accrescerli e finalmente mutarli in certezza), è singolare qual moltitudine di fatti e di circostanze venisse nella mia mente ad improntarsi su questa follia, e a darle faccia di verisimiglianza: che dico? a mostrarmi la evidenza e la prova certa.» Non tardò a conoscere la propria stravaganzaparola di lui); ma immaginate l'effetto che la persecuzione doveva produrre sopra quell'animo malato, scatenandosi veramente contro di lui.

L'Emilio, pubblicato nel 1762, fece grande impressione e molto scandalo. Il clero tuonò; il Parlamento gettò fuoco e fiamme. «Sentivasi dire apertamente dai membri del Parlamento che a nulla si approdava, bruciando i libri, e che era d'uopo bruciare gli autori116.» Se la vita del Rousseau non correva pericoli veri, per lo meno la sua libertà era minacciata. Una notte egli è avvertito per mezzo d'un biglietto del principe di Conti, mandatogli dalla marescialla di Luxembourg, che, a malgrado di tutti gli sforzi di esso principe, si era determinato di procedere contro di lui a tutto rigore. «Il fermento (notava quel biglietto) è estremo; non si può in veruna guisa parare il colpo; la Corte lo richiede, il Parlamento lo vuole; alle sette antimeridiane sarà decretata la cattura, e si manderà tosto ad eseguirla; ottenni che non si procederà oltre se egli si allontana; ma, se persiste a volersi lasciar prendere, sarà preso.» Il Rousseau si alza in fretta, va a trovare la signora di Luxembourg che lo aspetta, e, d'accordo con essa, si dispone a partire incontanente dalla Francia. Partì il giorno appresso, e riparò sul territorio di Berna, a Yverdon.

Giuntovi appena, seppe che l'Emilio e il Contratto sociale erano stati arsi in Ginevra per mano del boia, e che era stato egli stesso condannato in quella città, nove giorni dopo la condanna di Parigi. L'Emilio condannato, fra gli altri motivi, per questa ragione, che uomini allevati con tali dottrine si brigherebbero della tolleranza117, era stato lacerato ed arso in Parigi, appiè dello scalone del Palazzo, dall'esecutore dell'alta giustizia, l'11 giugno 1762; fu lacerato ed arso in Ginevra, dinanzi alla porta del palazzo di città, il 19 dello stesso mese. Vedete bene che i concittadini del Rousseau non avevano perduto tempo per imitare la condotta del Parlamento di Parigi. Si fece a sì gran furia che il procuratore generale, Giovanni Roberto Tronchin, dichiara nelle sue Conclusioni di non avere avuto agio di esaminare a parte a parte le due opere che propone di condannare al fuoco.

Come spiegare tanta precipitazione e tanto rigore contro i libri ed un uomo che spargevano una gloriagrande sopra Ginevra?

Il Gaberel, nella sua opera sopra il Rousseau e i Ginevrini (p. 40), spiega quei provvedimenti dicendo «che il Consiglio di Ginevra credette fare un atto di buona politica, una cosa accetta al signor di Choiseul, imitando la condotta del Parlamento francese rispetto all'Emilio118

Questa ragione, che del resto aggrava, più che non attenui, il torto dei magistrati di Ginevra verso il Rousseau ed i suoi libri, potè di fatti avere influsso sulla loro maniera di procedere, e certe frasi delle Conclusioni del procurator generale sembrano confermarla. Così egli rinfaccia all'autore dell'Emilio «una satira indecente della religione del paese, ove fu accolto (strana accusa da parte di un protestante!) e passi insultanti contro una nazione potente e rispettabile di cui finora sperimentò soltanto la pazienza e la bontà.» Ma è chiaro che vi fu un'altra causa, della quale pur bisogna tener conto: era semplicemente la intolleranza teologica verso il pensiero filosofico. Una tale intolleranza si manifesta chiaramente, fra gli altri passi, in questa frase del rapporto del signor Tronchin: «La religione rivelata, obbietto capitale dell'educazione, diviene in lui l'obbietto della più temeraria discussione; egli con mano ardita toglie il velo de' suoi misteri; ne misura i dogmi alle sue particolari idee; non ne scalza i fondamenti, si sforza apertissimamente di abbatterli; vorrebbe strapparne i più validi sostegni, i miracoli e le profezie

Del resto sarebbesi potuto non far di più che abbruciare e proibire i libri del Rousseau; il che certamente sarebbe bastato a contentare il Governo francese, a cui si voleva gratificare, altro invero domandava il procurator generale, ma le sue Conclusioni su questo punto non prevalsero. Il Consiglio, dopo aver dato una prima sentenza contro l'Emilio e il Contratto sociale, ne diè un'altra contro la persona del Rousseau, dichiarando «che, dov'egli venisse nella città e nelle terre della Signoria, dovrà essere preso e catturato, perchè sia poscia sentenziato sulla sua persona ciò che converrà

«Narrasi (soggiunge Marco Viridet, loc. cit., p. 21, dopo aver riportato quella duplice decisione, estratta dai registri del Piccolo Consiglio), narrasi, ma i registri del Piccolo Consiglio non ne fanno menzione, che un solo magistrato, Iallabert, combattè il sentimento degli altri, in proposito del Rousseau, e non fu ascoltato119

Ma fuori del Consiglio le proteste non mancarono. Una lettera che biasimava forte l'editto del Senato corse rapidamente nel pubblico; l'autore di essa, Carlo Pictet, membro del Consiglio dei Dugento, ed un altro cittadino di Ginevra, Emanuele Duvillard, mercante libraio, accusato di averla sparsa, furono posti in carcere, poi condannati a domandare perdono a Dio e alla loro Signoria, e sospesi, il primo per un anno, e il secondo per sei mesi, dai loro diritti di cittadinanza120. Un altro fatto, di recente svelato dallo Streckeisen-Moultou, nella sua prefazione alle Opere ed Epistolario inediti di G. G. Rousseau (p. XII), merita d'essere qui riferito. «La sera del giorno stesso che l'Emilio era arso per man del boia, la signora Moultou recavasi ad una numerosa adunanza; il marito di lei, già malaticcio, e per giunta afflitto dall'evento della giornata, non aveva avuto il coraggio di accompagnarvela. Uno dei primi magistrati della città, i cui principii erano opposti a quelli del Moultou, vedendola entrare senza di lui, le si avvicinò e chiese la ragione dell'essere andata sola. Mio marito, rispose la donna, è infermo. – Il fumo dell'Emilio forse gli avrà dato alla gola, disse il magistrato. – Il fumo dell'Emilio, signore, essa replicò, è tutto quanto andato sul Consiglio, e Dio voglia che non ne piangano i suoi occhi per un pezzo!» Questa mirabile risposta rimase nella famiglia Moultou come una tradizione. Il signor Streckeisen-Moultou la riputò giustamente degna di essere conservata. Il marito della nobil donna che in tal guisa parlò, il ministro Moultou, scriveva egli stesso al Rousseau (19 giugno 1762):

«Mio caro amico, ho l'anima esacerbata, e vi scrivo fremendo. La vostra patria,... no, non è essa, voi siete troppo caro ai vostri concittadini; in Ginevra, in Ginevra, si sono abbruciati i vostri libri; si è decretato la vostra cattura. O Rousseau! la tua grand'anima si indigni senza abbattersi; tu sarai prezioso sempre a coloro che amano la libertà. Io previdi ieri che si abbrucerebbe il libro; feci ogni mia possa per illuminare i giudici; ma senza dubbio il partito era preso. Addio, caro concittadino, voi sarete sempre nel mio cuore. La sentenza si è promulgata stamane121

In un'altra lettera colla data del 22 egli scriveva:

«Qual fanatismo orribile! e che ci si prepara? Le fiamme che abbruciavano i vostri libri mi pareva che raccendessero il rogo del Servet122

Molte altre testimonianze si unirono a quella. Un anonimo scriveva al filosofo perseguitato:

«Non tutti gli uomini, mio caro Rousseau, sono ancora pervertiti; tra i vostri compatriotti vi ha cittadini virtuosi, amanti del proprio dovere, e coloro che gl'istruiscono, e a cui per conseguenza piacciono i vostri scritti, amano la vostra persona, si dolgono altamente dell'ingiustizia e della parzialità che vi opprimono, e sono veramente afflitti del vostro allontanamento da una patria di cui siete così degno e che voi fate tanto amare. Ahimè! la speranza di rivedervi in quella è forse una chimera123

Frattanto la burrasca eccitata contro il Rousseau passò da Parigi e da Ginevra a Berna, e il povero Gian Giacomo fu costretto a sgombrare da Yverdon, dov'egli avea disegnato di stabilirsi. «La difficoltà, dice, stava nel saper dove andare, vedendo che Ginevra e la Francia mi erano chiuse, e prevedendo bene che in questo affare ciascun si affretterebbe a imitare il vicino.»

La contea di Neufchâtel, che allora apparteneva alla Prussia, ove la libertà di pensare era almeno ammessa, gli offeriva un asilo sicuro. Egli andò a prender sede nel villaggio di Mottiers, nella valle di Travers.

Ivi il Rousseau pur trovò il fanatismo teologico: la Compagnia dei ministri di Neufchâtel cercò di muovere contro di esso il Consiglio di Stato, e, non potendo proscriverne la persona, fece almen proibirne il libro dal magistrato municipale. Avendo essa indirizzato, su questo proposito, al re Federigo una richiesta contro il Consiglio di Stato, si ebbe cotale acerba risposta, scritta di pugno del re: «Voi non meritate di essere protetti, salvochè poniate tanta mitezza evangelica nella condotta vostra, quanto vi domina ora spirito di vertigine, d'inquietudine e di sedizione

Mentre il clero protestante perseguitava in tal guisa il Rousseau, questi aveva notizia della sua condanna per parte della Sorbona, e riceveva la pastorale dell'arcivescovo di Parigi, monsignor di Beaumont. Quando io dico la pastorale di monsignor di Beaumont, forse dovrei dire quella che il prelato stesso avea fatta comporre da una penna più abile della sua; perocchè sembra ch'egli fosse inetto a scrivere da una tal cosa. Si riferisce intorno a ciò un assai grazioso fattarello.

Essendosi egli un giorno incontrato col Piron, gli disse: «Or bene, signor Piron, avete voi letto la mia pastorale? – Sì, monsignore, rispose l'arguto scrittore: e voi?..»

Comunque sia, la pastorale meritò da parte del Rousseau una risposta, in cui a ragione questi sperò di aver fulminata l'opera. La lettera a monsignor di Beaumont, degno compimento del Vicario Savoiardo, è difatti una fulminante replica.

Il Rousseau aveva sperato che i suoi concittadini si richiamerebbero pubblicamente contro il decreto del Consiglio di Stato, decreto non solamente odioso, ma anche illegale, poichè lo scrittore era stato condannato senza essere prima udito. E inoltre non essendo l'Emilio stampato pubblicato in Ginevra, non eravi delitto commesso in quella città. Vistosi deluso nella sua aspettazione, prese il partito di rinunziare solennemente il suo diritto di cittadinanza, e scrisse al primo sindaco della repubblica di Ginevra, signor Favre, la seguente lettera, in data di Mottiers Travers, il 12 maggio 1763:

«Signore, riavutomi dal lungo stupore, in cui mi gettò il procedere che io doveva meno aspettarmi da parte del Consiglio Magnifico, prendo finalmente il partito che l'onore e la ragione m'impongono, per quanto costi al mio cuore.

«Vi dichiaro adunque, o signore, e vi prego di dichiarare al Consiglio Magnifico, che io rinunzio per sempre il mio diritto di cittadinanza nella città e repubblica di Ginevra. Avendo adempiuto meglio che potessi i doveri inerenti a quel titolo senza godere veruno de' suoi vantaggi, non credo essere in debito collo Stato nell'abbandonarlo. Io procurai di onorare il nome di Ginevrino; amai teneramente i miei concittadini; nulla omisi per farmi da essi amare; non potrebbero ad uomo riuscir peggio le cose; io voglio compiacerli fin nel loro odio. L'ultimo sacrifizio che a far mi resta è quello di un nome che mi fu sì caro. Ma, o signore, la mia patria, divenendomi straniera, non può divenirmi indifferente; io le rimango unito con una tenera rimembranza, e di essa oblio solo gli oltraggi. Possa ella prosperare sempre, e veder crescere la sua gloria! Possa ella abbondare di cittadini migliori, e soprattutto più fortunati di me!

«Ricevete, vi prego, o signore, le testimonianze del mio profondo rispetto

Lo stesso giorno il Rousseau indirizzava al signor Marco Chapuis la lettera seguente:

«Vedrete, o signore, m'immagino, la lettera che scrivo al signor primo sindaco. Compiangetemi, voi che conoscete il mio cuore, dell'essere io costretto a fare una cosa che mi strazia l'animo. Ma, dopo gli affronti che io ricevetti nella mia patria, e che non sono possono essere riparati, il riconoscermene ancora membro sarebbe un consentire al mio disonore. Non vi scrissi, o signore, durante le mie sventure; gl'infelici debbono essere discreti. Ora che tuttoquanto può avvenirmi di bene o di male mi è presso a poco avvenuto, mi abbandono tutto ai sentimenti che mi piacciono e mi consolano; e siate persuaso, o signore, ve ne supplico, che quelli onde sono vincolato a voi non s'indeboliranno mai.»

Questo atto del Rousseau fece una grande impressione: «Esso aprì finalmente, dice egli (Confessioni, parte II, lib. XII), gli occhi ai cittadini.... Essi avevano altri motivi di doglianza che aggiunsero a questo, e ne fecero materia di parecchie rimostranze ottimamente ragionate, che estesero e rafforzarono di mano in mano che i duri e ributtanti rifiuti del Consiglio, il quale sentivasi sorretto dal Ministero di Francia, diedero loro a conoscere meglio il disegno formato di renderli servi.» La repubblica si trovò per tal modo divisa tra due fazioni, l'una contro l'altra accanite, quella detta dei rimostranti e quella dei negativi. Ma non è del mio subbietto l'entrare nella storia di questa lotta; devo solamente aggiungere che, in risposta ad un'opera scritta a favore del Consiglio dal procuratore generale Tronchin, sotto il titolo di Lettere dalla campagna, il Rousseau compose le celebri sue Lettere dalla montagna, compimento dell'Emilio, e in ispecie del Contratto sociale.

Le Lettere dalla montagna ebbero in Parigi la sorte dell'Emilio; furono arse per man del boia col Dizionario filosofico del Voltaire, in virtù d'un decreto del 19 marzo 1765. Così que' due grandi uomini che tanto abborrivano l'un dall'altro, e che si laceravano invece di aiutarsi124, erano confusi in uno stesso auto-da . «In Ginevra il Piccolo Consiglio, dice il Rousseau (ivi), eccitato dal residente di Francia e diretto dal procuratore generale, fece una dichiarazione sulla mia opera, con la quale egli, con le più atroci qualificazioni, l'asserisce indegna anche di essere arsa dal boia, e soggiunge, con una scaltrezza che ha del burlesco, che non si può, senza disonorarsi, rispondervi, e neppure farne menzione di sorta

Credendo, certamente molto a torto, minacciata la propria vita dalla plebaglia sollevatagli contro (qui non gli si può credere sulla parola, tanto la sua immaginazione allora era concitata ed inferma!), il Rousseau partì subitaneamente da Mottiers; e non potendo risolversi ancora ad abbandonare la Svizzera, pensò di andarsi a stabilire in mezzo al lago di Bienne, nell'isoletta di San Pietro, possessione dello spedale di Berna. Vero è che i Bernesi lo avevano scacciato dalla terra loro tre anni innanzi; ma il Rousseau credette che, vergognando del loro procedere, volonterosi consentirebbero a lasciarlo tranquillo in quell'isola, e le informazioni fatte prendere in tal proposito sembrò che confermassero quell'idea. Egli adunque pose stanza nell'isoletta di San Pietro, come in una solitudine che mirabilmente conveniva allo stato del suo spirito. Ivi poteva meditare a suo bell'agio, secondare la sua passione per la botanica, fare gite per acqua, inebbriarsi nello spettacolo della natura ed innalzar l'anima verso l'Autore di tante maraviglie125; ma, quando meno se l'aspettava, ricevette l'ordine di uscire dall'isola e dal territorio della repubblica, e di non più tornarvi sotto minaccia delle più grandi pene.

Ecco adunque il Rousseau costretto a cercare un nuovo asilo e a vagare nuovamente pel mondo. Ei lasciò Bienne il 29 ottobre 1765 coll'intenzione di recarsi a Berlino passando da Strasburgo. Ricevette in questa città un'accoglienzalusinghiera che fu tentato di rimanervi. Stimolato da David Hume ad andare in Inghilterra, ove l'illustre scrittore si assumeva l'incarico di procurargli un ricovero grato e tranquillo, si rimise in viaggio, si soffermò a Parigi, ove per pochi giorni fu ospitato dal principe di Conti nel recinto del Tempio, e ove destò la più viva curiosità; ma, siccome l'editto promulgato dal Parlamento contro di lui non era stato rivocato, il ministro Choiseul, conturbato per la impressione ch'ei produceva sugli animi in Parigi, lo costrinse ad affrettare la sua partenza.

Mosse egli per Londra il 3 gennaio 1766 con l'Hume ed un negoziante di Neufchâtel che aveva desiderato di accompagnarlo. A Londra, non meno che dianzi a Parigi, ei fu obbietto della curiosità pubblica. Giorgio III, la regina ed un gran numero di personaggi desideravano vederlo; ma egli restò soli quindici giorni in quella capitale. Essendosi ritirato temporaneamente, per istare più tranquillo, nel villaggio di Chiswich, vi fu nuovamente importunato dalla grandissima affluenza dei visitatori; e da ultimo andò a stabilirsi lontano cinquanta leghe da Londra, nella contea di Derby, a Wooton, dove un ricco inglese, il signor Davenport, gli offerse una casa che abitava egli stesso, e che il Rousseau, coll'alterezza solita, non accettò se non a condizione di pagarne il fitto. Colà egli compose i sei primi libri delle sue Confessioni, opera che da lungo tempo meditava e preparava.

Ma ben presto andò soggetto in modo troppo grave all'influenza del clima d'Inghilterra, il paese dello spleen; onde il povero Gian Giacomo ricadde in quell'umor nero che gli mostrava in tutti gli uomini, anche negli amici suoi, nemici congiurati per rovinarlo.

Dopo un soggiorno di sedici mesi, egli si partì dall'Inghilterra con un'agitazione che teneva del delirio, e che non cessò se non dopo essere sbarcato sulla riva di Francia.

Tornato che fu in quel paese, egli, siccome il decreto promulgato contro di lui non erasi rivocato, dovette, per salvare almeno le apparenze e soddisfare al desiderio del principe di Conti, che avevagli offerto un asilo nel suo castello di Trie, presso Gisors, mutare l'illustre suo nome in quello di Renou. Finalmente essendo lo spirito pubblico che il Rousseau aveva insieme col Voltaire tanto cooperato a formare, divenuto una vera potenza, più forte del Parlamento, del clero e della Corte, Gian Giacomo Rousseau potè ripigliare il suo nome glorioso e tornare ad abitare Parigi in una via che porta al presente il suo gran nome126.

Tal fu il destino del Rousseau, se si riguardi la persecuzione che egli sollevò contro di come filosofo, vale a dire da quel lato solo ond'io doveva qui riguardarlo. Lui scelsi fra i tanti altri esempi di persecuzione del libero pensiero, che m'offeriva la storia del XVIII secolo, incominciando dal Voltaire medesimo, perchè egli fu il più eloquente ed il più sventurato scrittore del tempo suo, ed anco perchè, appartenendovi, più di ogni altro importa a voi. Fu, gli è vero, perseguitato dalla stessa sua patria, o almeno dal Governo della sua patria, ma fu energicamente, sebbene tardi, difeso dai suoi concittadini; e in Ginevra, non meno che in Francia, l'opinione pubblica finì col cassare l'indegno decreto de' suoi giudici. Si leggono sui registri del Piccolo Consiglio, in margine della sentenza promulgata contro il Rousseau sulle conclusioni del procuratore generale, queste linee che mi piace riportare qui a compimento127: «Per decisione del Consiglio Magnifico del 2 marzo 1791 è stato detto che il Consiglio non istima che i decreti contro il signor Rousseau portino lesione all'onore di quel grande filosofo, e che quanto essi presentano di rigido contro di lui è nullo e di nessun effetto, perchè egli non fu mai udito. E che questa decisione sarà inscritta in margine del registro ove sono riportati quei decretiRiparazione ben tarda senza dubbio e della quale il Rousseau non potè godere, poichè essa è posteriore di alcuni anni alla morte di lui; ma tuttavia nobile riparazione che mostra quanto, in Ginevra non meno che in Parigi, mercè del Rousseau, mercè del Voltaire insieme, e mercè in generale della filosofia del XVIII secolo, le idee avevano proceduto, dacchè l'Emilio ed il Contratto sociale erano stati arsi per mano del boia alle porte di questo palazzo di città128.





114 V. Histoire de l'Eglise de Genève, par Gaberel, tom. II, pag. 297.



115 Mémoires, ed. Hachette, tom. XIII, pag. 24.



116 Confessions, partie II, liv. XI.



117 Vedi il decreto del Parlamento nei Documents officiels et contemporains sur quelques-unes des condannations, dont l'Emile et le Contrat social ont été l'objet en 1762, per Marco Viridet, Ginevra, 1850.



118 Questa è pur una delle cagioni per le quali un contemporaneo, Carlo Pictet, spiegava in una lettera, di cui or ora terremo discorso, la sentenza promulgata contro il Rousseau.



119 Si conosceva già da una lettera del Rousseau al Moultou (del 6 luglio 1762) la condotta dell'Iallabert nel Consiglio; le lettere del Moultou al Rousseau, di recente pubblicate dallo Streckeisen-Moultou nella raccolta intitolata: J. J. Rousseau, ses amis et ses ennemis (Parigi, Michele Levy, 1865), vantano più volte quella condotta. Ma vi si scorge che l'Iallabert non fu il solo magistrato da cui si manifestasse un tal parere; vi si parla anche del sindaco Mussard, come quegli che aveva difeso strenuamente il Contratto sociale del Rousseau (tom. I, pag. 41), ed in generale di tre o quattro uomini saggi che resisterono al torrente (pag. 45). Pare dai registri del Piccolo Consiglio che quel corpo non istimasse conveniente di mentovare la loro opposizione. Il Moultou fa notare (ivi), come cosa singolare e da recare stupore la passione colla quale il Rousseau fu giudicato. «Una devozione mal intesa, egli scrive, offuscò la ragione della maggior parte, ed essi non videro che erano gli strumenti della politica altrui.»



120 Vedi nell'opuscolo già citato del Viridet (pag. 27-41) i processi verbali di questa curiosa faccenda e la lettera condannata.



121 Questa lettera è tolta dall'Epistolario pubblicato di recente: J. J. Rousseau, ses amis et ses ennemis (tom. I, pag. 43).



122 Ivi, pag. 44.



123 Citato dal Gaberel, ibid.



124 In mezzo alle persecuzioni, di cui il Rousseau era obbietto, il Voltaire, non dando ascolto che alla sua passione, ebbe il gravissimo torto di scrivere contro di lui un libello intitolato Sentimenti dei cittadini (libello che il Rousseau attribuì senza ragione al suo amico il pastore Vernes). Convien dire, per ispiegare la condotta del Voltaire, che il Rousseau lo aveva violentemente assalito nelle sue Lettere dalla montagna, che da lungo tempo non cessava di denunziarlo a' suoi amici di Ginevra come un corruttore della repubblica, e che aveva scritto a lui medesimo una lettera molto ingiuriosa, nella quale dichiarava che lo abborriva (vedi nelle Confessioni, parte II, lib. X, questa lettera, in data di Montmorency, 17 giugno 1760). La condotta del Voltaire che si mise dalla parte dei nemici del Rousseau, e si valse di macchine come il libello da me sopra ricordato, non è meno deplorabile. Ma in ricambio avvi un fatto raccontato nell'Epistolario del Grimm, che sarebbe ingiustizia non registrare. «A proposito del Voltaire e di G. G. Rousseau, dice il Grimm, bisogna conservare qui un aneddoto che un testimone oculare l'altro giorno ci narrò. Egli si era trovato presente a Ferney nel giorno che il Voltaire ricevè le Lettere dalla montagna, e che vi lesse l'apostrofe riguardante lui; ed ecco che il suo sguardo s'infuoca, i suoi occhi scintillano di furore, tutto il suo corpo tremola, ed egli grida con terribile voce: Ah scellerato! ah mostro! bisogna che io lo faccia accoppare... Sì, manderò a farlo ammazzare nei monti tra le ginocchia della sua governante... – Calmatevi, gli disse il nostr'uomo, io so bene che il Rousseau si propone di farvi una visita, e che verrà tra poco a Ferney. – ...Ah! venga pure, rispose il Voltaire... – Ma come lo riceverete voi? – ...Come lo riceverò?... Gli darò cena, lo porrò nel mio letto, gli dirò: ecco una buona cena; il letto è il migliore che vi sia in questa casa; fatemi il favore di accettare l'una e 1'altro, e d'essere felice meco.» Questo fatto mi recò un gran piacere. Esso dipinge il Voltaire meglio che altri mai non facesse; fa in due linee la storia di tutta la sua vita.



125 «Io lessi, dice egli su questo proposito, che un saggio vescovo nella visita della sua diocesi trovò una vecchia la quale non sapeva dire altra preghiera se non Oh! Ei le disse: – Buona madre, continuate sempre così; la vostra preghiera val più delle altre. Questa miglior preghiera è anche la mia.»



126 Essa si chiamava allora via della Platrière.



127 Marco Viridet, loc. cit., pag. 20.



128 Una più solenne riparazione si fece al Rousseau alcuni anni appresso: nel 1793 i Ginevrini gl'innalzarono un monumento in mezzo al Bastione Borghese ed istituirono in onor suo una festa che fu celebrata sino al 1798, cioè sino al momento che Ginevra fu annessa alla Francia. In quel tempo il Corpo amministrativo dichiarò che «avendo la patria ginevrina cessato di esistere, era inopportuno il celebrar la festa del suo gran cittadino.» Il monumento del Bastione fu demolito nel 1816, quando si fece l'Orto Botanico, e molti anni trascorsero prima che gli ammiratori del Rousseau potessero innalzargliene un altro. Finalmente, nel febbraio 1832, a malgrado di una vivissima opposizione e di molte difficoltà, per la proposta del signor Fazy-Pasteur e la perseveranza d'un Comitato di soscrizione, composto dei signori Bellot, professore di leggi, Chenevière, pastore e rettore dell'Accademia, Stefano Dumont, Dufour, colonnello federale, Francesco Duval, Favre-Bertrand, Fazy-Pasteur, Moultou, C. Pictet, Alessandro Prevost, Guglielmo Saladin, fu fatta, nell'isola delle Barche, nomata d'allora in poi l'isola Rousseau, l'inaugurazione della statua eseguita dal Pradier, che ivi oggi vediamo.



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