Jules Romain Barni
I martiri del libero pensiero
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I MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO

DECIMA LEZIONE Gl'Ideologi (la signora di Staël) e Napoleone I

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DECIMA LEZIONE

Gl'Ideologi (la signora di Staël)
e Napoleone I

Signore e Signori,

Meditando il programma del corso che oggi sto per terminare, io dapprima aveva avuto il pensiero di fermarmi col XVIII secolo e con Gian Giacomo Rousseau. Pare infatti che, dal 1789 in poi essendo divenuti una specie di Vangelo politico i principii di libertà e di umanità, cui aveva predicati la filosofia del XVIII secolo, l'èra dei martiri del pensiero dovesse essere chiusa per sempre. Ma ecco che per uno strano fenomeno, il quale io mi contento di notare senza cercar qui di spiegarlo, la Rivoluzione francese, deviando dai grandi principii da essa gloriosamente inaugurati, va a riuscire in uno dei più mostruosi dispotismi che il mondo abbia mai visti. La forza prende il luogo del diritto, e gli uomini, ahimè! troppo scarsi che vogliono restar fedeli ai veri principii della Rivoluzione, sono denigrati e perseguitati sotto nome d'ideologi. Bisogna pertanto aggiungere un altro tristo capitolo alla miseranda storia che io impresi a narrare. Ma, siccome esso sarebbe troppo vasto all'unica lezione che mi rimane, se io volessi abbracciarlo tutto secondo il titolo generale che gli aveva dato nel mio programma: Gl'Ideologi e Napoleone I, voglio particolarizzare il mio subbietto, come già feci pel XVIII secolo, concentrando l'ultimo studio sopra un solo personaggio, un personaggio che voi potete rivendicare, come Gian Giacomo Rousseau, e che, al pari di lui, è stato uno dei più eloquenti scrittori del suo tempo; voglio dire della figlia del Necker, la signora di Staël. Narrando le persecuzioni che ella soffrì da parte di Napoleone I, io dimostrerò con una ristretta pittura qual fosse la sorte d'ogni pensiero libero e indipendente sotto il Governo del nuovo Cesare.

Ma, se volete prima di tutto vedere in generale qual fosse la condizione degli scrittori sotto quel Governo, ascoltate questa pagina che io tolgo appunto dall'autrice, di cui avremo ad intertenerci:

«Il carico imposto agli scrittori sotto il Buonaparte era molto difficile a portarsi. Bisognava che eglino combattessero pertinacemente i principii liberali della Rivoluzione, ma che ne rispettassero tutti gl'interessi, di modo che la libertà fosse annichilita, ma che i titoli, i beni e gl'impieghi dei rivoluzionari fossero consacrati. Il Buonaparte un giorno diceva, parlando del Rousseau: Eppur fu egli la causa della rivoluzione. Del resto io non devo lagnarmene, perchè vi ho agguantato il trono

Un tal linguaggio era quello che doveva servire di testo agli scrittori, non solamente per iscalzare senza posa le leggi costituzionali, ed i diritti imprescrittibili, sui quali sono fondate, ma per esaltare il conquistatore despota, cui le tempeste della Rivoluzione avevano fatto sorgere, ed il quale poi le aveva calmate. Ove si trattasse di religione, il Buonaparte faceva mettere gravemente nei suoi proclami che i Francesi dovevano diffidare degl'Inglesi, perchè questi erano eretici; ma, quando ei voleva giustificare le persecuzioni che sopportava il più venerando e il più mite dei capi della Chiesa, il papa Pio VII, lo accusava di fanatismo. Il motto era di denunziare come partigiano dell'anarchia chiunque manifestasse un'opinione filosofica in qualsiasi genere; ma, se alcuno dei nobili paresse insinuare che gli antichi principi s'intendevano meglio che i nuovi della dignità delle Corti, si marchiava con la nota di cospiratore. Finalmente bisognava respingere ciò che v'era di buono in ciascun modo di vedere, affinchè si venisse a comporre il peggiore degli umani flagelli, la tirannide in un paese civile129

A convalidare uno dei fatti allegati in queste troppo giuste considerazioni della signora di Staël, citerò prima di tutto un passo delle Memorie del conte Miot di Melito, antico consigliere di Stato:

«Nell'anno VIII (1800-1801) Napoleone Buonaparte, primo console, diceva in una lettera al prefetto della Vandea: «Io amo e stimo i preti che sono buoni francesi, e che sanno difendere la patria contro gli eterni nemici del nome francese, quei ribaldi eretici d'Inglesi.» Questa prima dimostrazione dei sentimenti del Buonaparte in materia di religione destò vivamente l'attenzione pubblica. Essa fu lodata da alcuni come un'abile politica, e biasimata da coloro, a cui si dava allora il nome d'ideologi.».

Nello stesso anno Napoleone indirizzava al clero di Milano il proclama seguente:

«A voi, ministri d'una religione che è pure la mia, dichiaro che riguarderò come perturbatore della quiete pubblica e nemico del comun bene, e che saprò punire come tale, nel modo più solenne, ed anche, se occorresse, colla pena di morte, chiunque farà oltraggio alla comune nostra religione, o che oserà farsi lecito il più leggiero insulto alle sacre vostre persone

Ora, di contro a questa prima dimostrazione, come dice il conte Miot, dei sentimenti del Buonaparte in materia di religione, e di quel proclama al clero di Milano, permettetemi di narrarvi un piccolo aneddoto, e di citarvi un altro proclama.

Ecco prima l'aneddoto. Un giorno (era il tempo del Direttorio) il Volney vede giungere il generale Buonaparte che egli aveva conosciuto in Corsica, ma che da parecchi anni non aveva più visto: «Eccomi senza impiego (disse il Buonaparte al Volney); mi consolo di non più servire un paese che le fazioni si contendono. Non posso restare ozioso, voglio cercare servizio militare altrove. Voi conoscete la Turchia, vi conservate senza dubbio qualche relazione, io vengo a domandarvi informazioni, e specialmente lettere di raccomandazione per quel paese. I miei servigi nell'artiglieria possono rendermi colà utilissimo

«Appunto perchè conosco quel paese (il Volney rispose) non vi consiglierò mai di recarvi colà. Il primo rimprovero che vi si farà è d'essere cristiano; certamente sarà molto ingiusto, ma ad ogni modo ve lo faranno, e voi ne soffrirete. Forse mi direte che vi farete musulmano; piccolo espediente, la macchia originale vi resterà sempre; quanto più dimostrerete ingegno, tanto più dovrete soffrire persecuzioni. – Or bene, non se ne parli più.»

Ecco il proclama che io voleva contrapporre a quello di poc'anzi, e che il Buonaparte indirizzava al popolo d'Egitto il 13 messidoro, anno VII ( luglio 1798):

«Popoli d'Egitto, altri vi dirà che io vengo a distruggere la vostra religione; non lo credete; rispondete che io vengo a restituirvi i vostri diritti, a punire gli usurpatori, e che io rispetto, più che non fanno i Mammalucchi, Iddio, il suo Profeta e il Corano... Quaggì, Sceicchi, Imàni, Ecobargì, dite al popolo che noi siamo veri Musulmani. Non distruggemmo noi il papa, il quale diceva doversi far guerra ai Musulmani? Non distruggemmo noi i cavalieri di Malta, perchè quei forsennati credevano essere volontà di Dio che facessero guerra ai Musulmani? Non fummo noi sempre gli amici del Gran Signore (che Dio adempia i disegni di lui!) e i nemici dei nemici suoi130

Veniamo alla signora di Staël.

Quali erano le cagioni dell'odio di Napoleone contro la signora di Staël? Prima di tutto, come dice benissimo l'autrice del libro che fu testè pubblicato sotto il titolo Coppet e Weimar, la signora di Staël e la granduchessa Luisa, Napoleone non ammetteva che le donne fossero destinate ad altro che a far molti figli (molti difatti gliene bisognavano, atteso il gran consumo d'uomini ch'ei faceva) e molta acconciatura (beaucoup de toilette). Le espressioni, delle quali si serve qui la signora da me sopra indicata, sono quelle stesse che Napoleone era uso adoperare, quando parlava delle donne. Convien leggere, anzi no, io non potrei qui leggere ciò che egli ne diceva, secondo il Memoriale di Sant'Elena, quel monumento innalzato alla sua gloria, e tutto ciò dinanzi alle signore di sua compagnia131. Tal è la stima che in generale egli ne faceva; è noto abbastanza con che brutalità in certe occasioni le trattasse. Trovo nel libro or citato un esempio di siffatta brutalità che mostra fino a qual segno quest'uomo innebbriato della sua forza e dei suoi prosperi successi era estraneo alla più semplice delicatezza. Dopo la battaglia di Jena, essendosi egli recato a Weimar per passarvi la notte, trova al sommo dello scalone del palazzo la duchessa Luisa, che sola di tutta la famiglia sovrana era ivi rimasta. «Chi siete voi, signora?» le domanda. La duchessa si nomina. «In questo caso vi compiango, le replicò Napoleone, perchè io annienterò vostro marito

Lo sforzo che fece in quella congiuntura la duchessa Luisa per rattenere la propria commozione fu così violento, che la salute di essa ne restò a lungo alterata. Per tornare alla signora di Staël, dirò che Napoleone detestava in essa la donna insigne, di cui paventava lo spirito e il carattere indipendente; avrebbe voluto che tutte le donne, del pari che tutti gli uomini, fossero i ciechi e muti strumenti della sua tirannide, e abbandonavasi a tutte le violenze contro quelle che non potevano adattarsi a sostenere tal parte. «Il massimo torto che io avessi agli occhi di Napoleone, dice la signora di Staël medesima nei suoi Dieci anni d'esilio, è il rispetto che sentii sempre per la vera libertà. Questi sentimenti mi furono trasmessi come un retaggio.». È da lamentare soltanto che tali sentimenti, che tale rispetto per la vera libertà non l'avessero meglio illuminata sulla natura e sulla importanza dell'attentato del 18 brumale; ma se qui errò la sua perspicacia (e senza ammettere coll'autrice di Coppet e Weimar che nel 18 brumale il Buonaparte avesse la nazione intera per complice, bisogna almeno convenire che molti caddero nello stesso errore), essa non tardò a veder chiaro nel giuoco del Buonaparte, e ad insorgere, quanto poteva, contro quella oppressione esordiente, di cui ben presentiva, essa dice, i progressi così chiaramente come se l'avvenire le fosse rivelato. Il suo salotto divenne allora come un centro di opposizione che destò il più vivo sdegno nel primo console.

Ei se ne dolse con acerbità grande a suo fratello Giuseppe, che visitava la signora di Staël, e che le riferì questi detti: «Perchè la signora di Staël non è amica al mio Governo? Che cosa vuol essa? Il pagamento del deposito di suo padre? (un imprestito di due milioni che il Necker aveva fatto al pubblico erario). Io l'ordinerò: il soggiorno di Parigi? Glielo permetterò. Insomma che cosa vuole?» La risposta della signora di Staël è non meno semplice che bella. «Dio buono! replicò essa, non si tratta di ciò che voglio, ma di ciò che penso.» Una tal risposta però, com'ella ottimamente nota, non poteva entrare nell'animo del Buonaparte, il quale non credeva che alcun uomo e molto meno alcuna donna potesse avere opinioni diverse da' suoi propri interessi.

Del resto la opposizione della signora di Staël non restringevasi ad epigrammi da salotto. Essa pigliò parte alla resistenza del Tribunato, accogliendo ed incoraggiando quelli fra i tribuni che, ella dice, non volevano gareggiare di zelo coi consiglieri di Stato. «Uno di questi tribuni, amico della libertà e dotato d'uno dei più notabili intelletti che la natura abbia impartito ad alcun uomo, il signor Beniamino Constant, mi consultò sopra un discorso che si proponeva di fare per additar l'aurora della tirannide; io lo incoraggiai con tutta la forza della mia coscienza.» Nondimeno essa francamente dice che non potè liberarsi dal timore di ciò che le potesse accadere. «Io era vulnerabile, soggiunge, nel mio amore per la società. Il Montaigne disse una volta: «Io sono francese per Parigi;» e se egli così pensava tre secoli addietro, che si dovrebbe dire dopo che si videro raunate tante persone di spirito in una medesima città e tante persone assuefatte a valersene pei piaceri della conversazione? Il fantasma della noia mi ha sempre perseguitato; pel terrore appunto che mi cagiona io sarei stata capace di piegarmi dinanzi alla tirannide, se l'esempio del padre mio ed il suo sangue che mi scorre nelle vene non vincessero questa debolezza.» La signora di Staël non tardò a sentirsi colpita in quella parte vulnerabile, di cui essa parla qui sopra. La vigilia di quel giorno, nel quale Beniamino Constant doveva proferire il suo discorso, le aveva detto a bassa voce: «ecco il vostro salotto pieno di persone che vi piacciono; se io parlo, domani esso sarà deserto; pensatevi.» Al che ella aveva nobilmente risposto: «Bisogna seguire la propria persuasione.» La dimane si avverava la predizione di Beniamino Constant. «In quel giorno, dice la Staël, io doveva raunare in casa mia parecchie persone, la cui società molto mi aggradiva; ricevetti dieci biglietti di scusa alle 5 pomeridianeGiuseppe Buonaparte, ripreso pubblicamente da suo fratello, perch'egli frequentava la casa di quella signora, si astenne dal comparirvi, e il suo esempio fu il segno della ritirata dei tre quarti delle persone che essa conosceva. La signora fu chiamata dal ministro della polizia, Fouché, che la consigliò di andar a prendere l'aria della campagna, finchè la burrasca fosse passata. Ma la burrasca non doveva far mostra di passare se non per tornar fra breve, perocchè il dispotismo non lascia la persecuzione della libertà se non quando l'abbia del tutto oppressa.

La resistenza del Tribunato, come dice la signora di Staël, teneva la nazione nell'abitudine di pensare. Era questo un tristo esempio che la tirannide non poteva tollerare. I venti più energici membri dell'assemblea furono tosto eliminati per dar luogo ad altri dediti al Governo. Fra i tribuni proscritti (i primari dei quali erano Chénier, Guinguené, Daunou, Beniamino Constant) si trovavano parecchi amici della signora di Staël. A quei giorni essa terminava una lettera indirizzata alla signora Récamier, che viaggiava in Inghilterra, con queste parole che ritraggono bene il tempo, e in mezzo al tempo dipingono lei medesima: «Addio, bella Giulietta; mi pare che tutti si annoino a Parigi. Dacchè non si ha più nulla da pensare da dire, si dura fatica a riempire la giornata. Voi siete nel paese ove ancora si vive colla propria anima e col proprio spirito: che direte di noi ritornando

Il mal animo del Buonaparte contro la signora di Staël si manifestò in un modo singolare, ma che non farà maraviglia a chi conosce un poco i procedimenti del dispotismo ch'egli aveva introdotto in Francia; i giornali ufficiali combatterono il romanzo di Delfina, che presentarono come immorale. Facendo così censurare quel romanzo da' suoi giornali, il primo console si vendicava della opposizione che incontrava nella signora di Staël, e nello stesso tempo sfogava sulla figlia la collera che gli aveva cagionata il libro pubblicato di recente dal padre col titolo: Ultimi concetti di politica e di finanza, in cui tutta la macchina della sua monarchia era anticipatamente indicata.

Ma la persecuzione doveva ben presto divenire più grave. La signora di Staël, dopo essere andata a passar qualche tempo con suo padre a Coppet, erasi ravvicinata a Parigi, che aveva per lei una invincibile attrattiva. Sperava essa che le si permetterebbe di vivere tranquilla in un ritiro presso la capitale, e donde potrebbe recarsi di quando in quando a Parigi; ma il Buonaparte aveva risoluto di esiliarla. Il 21 piovoso dell'anno XI (10 febbraio 1803) egli indirizzò al cittadino Regnier, gran giudice, ministro della giustizia, la lettera seguente, che estraggo dall'epistolario di Napoleone I in corso di pubblicazione (tomo VIII): «Io sono informato, cittadino ministro, che la signora di Staël, a malgrado della proibizione che le feci di tornare a Parigi, viene il 26 a Melun. Date ordine, vi prego, ad un ufficiale di polizia che vi si rechi e la faccia subito retrocedere alla frontiera, e la conduca o nella patria del suo defunto marito o alla dimora di suo padre. È intenzione del Governo che questa intrigante straniera non resti in Francia, ove la sua famiglia fece male abbastanza.

«Sottoscritto: Buonaparte

Invano la signora di Staël, avuto avviso che l'ordine di partir dalla Francia stava per esserle notificato, scrisse al primo console una lettera, in cui bene appare quale spavento le cagionasse l'esilio; invano Giuseppe e Luciano Buonaparte intercedettero per lei presso il loro fratello; invano il generale Junot s'intromesse in suo favore; niuna istanza potè salvarla dall'esilio che essa paventava al pari della morte. Questo orrore dell'esilio, aggiunto all'odio per l'arbitrio, le inspirò una delle più belle pagine de' suoi Dieci anni d'esilio:

«Taluno si maraviglierà forse che io paragoni l'esilio alla morte; ma vari grandi uomini dell'antichità e dei tempi moderni soccombettero a questa pena. S'incontrano più persone coraggiose contro il patibolo che contro la perdita della patria. In tutti i Codici di leggi il bando perpetuo è reputato una delle pene più severe; ed il capriccio d'un uomo infligge in Francia, come per ischerzo, quella che giudici di retta coscienza non impongono che con rincrescimento ai malfattori. Circostanze speciali mi offerivano un ricovero e mezzi di fortuna nella patria de' miei genitori, la Svizzera; io era, per questo rispetto, meno da compiangere di un altro; e nondimeno ho crudelmente patito. Io non sarò dunque inutile al mondo facendo conoscere tutto ciò che deve persuadere gli uomini a non lasciar mai a' sovrani l'arbitrario diritto dell'esilio. Nessun deputato, nessuno scrittore esprimerà liberamente il proprio pensiero, se può essere sbandito ogniqualvolta sarà dispiaciuta la sua franchezza; nessun uomo oserà parlar sinceramente, se ciò gli possa costare la felicità della intera sua famiglia. Le donne soprattutto, che sono destinate a sostenere ed a ricompensare l'entusiasmo, procureranno di soffocare in se stesse i sentimenti generosi, se debba risultarne o che siano rapite agli oggetti della loro tenerezza, o che questi sacrifichino ad esse la loro vita seguitandole nell'esilio

Sbandita dalla Francia, la signora di Staël titubò sul partito da prendere. Tornerebbe essa dal padre suo o andrebbe in Alemagna? La speranza di rifarsi dell'oltraggio che le recava il primo console, colla buona accoglienza che le si prometteva in Alemagna, la indusse a pigliare l'ultimo partito. Ma questa risoluzione doveva privarla della gioia di riveder suo padre, pel quale essa aveva un vero culto. Seppe a Weimar la morte di quel padre adorato; e, secondo le sue proprie espressioni, un sentimento di terrore si unì alla sua disperazione. «Io mi vedo, essa dice, senza appoggio sulla terra e costretta a sostenere da me stessa l'anima mia nella sventuraNotabile è che le ultime linee di mano del padre suo ricevute da lei esprimevano la indignazione, la quale era suscitata in quell'animo onesto dall'assassinio del duca d'Enghien, di quel nobil giovane, rapito, senza ombra di provocazione, sulla terra straniera, per essere giudicato in Parigi da una Commissione militare e moschettato nei fossi di Vincennes.

La signora di Staël tornò a Coppet; ma il viaggio ch'essa aveva fatto in Alemagna doveva essere per la Francia, donde il Buonaparte l'aveva scacciata, un benefizio che certo il Buonaparte non prevedeva; la signora di Staël aveva studiato in Alemagna la lingua e la letteratura tedesca, aveva conversato col Goëthe e con lo Schiller, vale a dire co' due più grandi poeti, non solo dell'Alemagna, ma sì ancora dei tempi moderni dopo il Shakespeare; erasi intertenuta col Wieland, che veniva chiamato il Voltaire dell'Alemagna, e riportava da quel viaggio impressioni e materiali per un libro nuovo e di capitale importanza nella storia della nostra letteratura, un libro che doveva svelare l'Alemagna alla Francia ed aprire a questa vie novelle. Ben è vero che quel libro doveva pur destare contro l'autrice nuove persecuzioni. Noi or ora vi torneremo sopra.

Trasferitasi nuovamente a Coppet, la signora di Staël affrettossi a pubblicare i manoscritti lasciati da suo padre; indi, compiuto questo pio dovere, perchè il cordoglio aveva alterata la sua salute, risolse di fare un viaggio in Italia. Ella annunzia cotale risoluzione alla duchessa di Weimar in una lettera, nella quale, detto che le era giunta una lettera del duca, soggiunge: «Io gli risponderò da Roma; è questa una bella data; bisogna però convenire che amerei meglio di scriver lettere da ParigiVedete che il desiderio di Parigi la perseguita dappertutto. Noi siamo debitori del libro Corinna a quel viaggio, come al precedente andammo debitori del libro l'Alemagna. La signora di Staël scrisse questo romanzo tornata dall'Italia, fra il 1805 e il 1806, anno che passò parte a Coppet e parte a Ginevra.

Tre anni erano trascorsi, dacchè l'ordine di sgombrar la Francia le si era intimato. Benchè un tal ordine non si fosse rivocato, la signora di Staël credè che, siccome si era astenuta da ogni polemica in quei tre anni, il Governo imperiale chiuderebbe gli occhi sopra il suo ritorno in Francia. Andò dapprima a Auxerre, poscia a Rouen; quindi, col consenso tacito del Fouché, ad una terra vicina a Melun, donde curò la stampa del novello suo romanzo. Questo venne alla luce nel 1807.

La Corinna fu accolta con immenso favore; ma questo libro, anzichè mitigare l'odio dell'imperatore; non servì che ad aumentarlo: «Si stimò un'offesa, dice l'autrice di Coppet et Weimar, il non trovarvi un elogio, diretto o indiretto, del vincitore dell'Italia, e all'esilio fu ridato tutto il suo rigore.» L'ordine di allontanarsi venne significato di nuovo alla signora di Staël. «Essa tornò a Coppet col cuore straziato, dice suo figlio, che qui riempie la lacuna lasciata da lei fra le due parti dei Dieci anni d'esilio, l'immenso favore toccato alla Corinna portò gran distrazione alla sua tristezza

Tornò essa allora al disegno che aveva concepito, di far conoscere l'Alemagna alla Francia; ma, siccome gli studi che aveva cominciati in quel paese erano stati duramente interrotti dalla morte di suo padre, volle tornarvi per compirli sui luoghi.

Mentre ella era in Alemagna con sua figlia e col suo secondogenito Alberto, il suo primogenito Augusto di Staël, allora di 17 anni, il quale era rimasto in Ginevra, ebbe il pensiero di presentarsi all'imperatore, che attraversava la Savoia, e d'impetrare da lui la revoca dell'esilio della madre. L'abboccamento che seguì fra questo giovane e Napoleone è tanto curioso, e le parole di quel dominatore del mondo a quel figlio della signora di Staël, a quel nipote del Necker, sono tanto spiegative che io ne voglio riferire le parti principali; fanno ben conoscere Napoleone dal lato, da cui voglio precisamente mostrarlo qui:

«Donde venite voi? – Da Ginevra, sire. – Dov'è vostra madre? – A Vienna. – Or bene, essa non vi sta male; vi rimanga; può impararvi il tedesco. Io non dico che sia una cattiva donna vostra madre. Essa ha ingegno, molto ingegno... forse troppo, un ingegno insubordinato, senza freno. – Sire, la Maestà Vostra permetterà ella ad un figlio di chiederle che cosa potè mal disporla contro sua madre? Alcuni mi dissero che ne fu cagione l'ultima opera del mio nonno; io posso nondimeno giurare a V. M. che mia madre non vi ebbe nessuna parte. – Sì, certamente, questa opera vi ha molta cagione. Il vostro nonno era un ideologo, un pazzo, un vecchio maniaco. A 60 anni voler abbattere la mia costituzione: far disegni di costituzione! Gli Stati sarebbero, affè! ben governati con gente sistematica, con facitori di teoriche, che giudicano gli uomini nei libri, e il mondo sulla carta! – Sire, poichè questi disegni del mio nonno non sono agli occhi di V. M. se non teoriche vane, io non intendo come ella se ne mostri tanto irritata. Non vi ha economista che non abbia fatto disegni di costituzione. – Sì, sì, gli economisti! sono veri progettisti che sognano disegni di finanza e non saprebbero adempiere l'ufficio di esattore dell'ultimo villaggio del mio impero. L'opera del vostro nonno è il lavoro d'un vecchio testardo che morì anfanando sul governo degli Stati... Comunque sia, vi ripeto che non permetterò mai a vostra madre di tornare a Parigi... Andate in Inghilterra; colà sono amati i Ginevrini, gli argomentatori, i politici da salotto...»

Napoleone non sempre aveva parlato così degl'ideologi, dei facitori di teoriche. Ecco ciò che gli scriveva il Talleyrand, ministro degli affari esteri, il 2 ottobre 1797:

«Pare che voi desideriate, cittadino generale, che vi si mandino alcuni uomini ragguardevoli, o pubblicisti, o filosofi, i quali, sinceri amici della libertà, possano coi risultati delle loro meditazioni e coi loro concetti repubblicani secondarvi nei modi di affrettare e di assestare fortemente l'organamento delle repubbliche italiche. Io so che il nome di Beniamino Constant è venuto alla mente vostra...»

Ma stavasi allora sotto la Repubblica, il Buonaparte non era per anco se non cittadino generale; nella sua conversazione col figlio della signora di Staël egli è l'imperatore Napoleone. Niuno deve maravigliarsi che grande sia la differenza del modo di parlare.

Tornata che fu dal secondo viaggio in Alemagna, la signora di Staël spese due anni nel dettar la sua opera; e dopo averla compiuta andò a stare, per curarne la stampa, a 40 leghe da Parigi, la qual distanza erale ancora permessa, vicino a Blois, nel vecchio castello di Chaumont sulla Loira, poscia in una terra, chiamata Fossé, che un amico le prestò.

«Ai 23 di settembre, ella dice (Dieci anni d'esilio, 2a parte, cap. I), io corressi l'ultima prova di stampa dell'Alemagna: dopo 6 anni di lavoro era per me una vera gioia il porre la parola fine a' miei tre volumi. Feci l'elenco delle cento persone, alle quali io voleva spedirli nelle varie parti della Francia e del resto dell'Europa; io dava grande importanza a questa opera, che credevo atta a far conoscere idee nuove alla Francia; mi pareva che un sentimento elevato, senza essere ostile, l'avesse inspirata, e che vi si troverebbe un linguaggio non più parlato

Ma la gioia della signora di Staël non doveva essere di lunga durata. Essa ben tosto seppe che il ministro della polizia aveva spedito i suoi agenti per fare a pezzi i diecimila esemplari che si erano tirati del suo libro, e che le era intimato di partire dalla Francia dentro tre giorni. Eppure quell'opera, che la signora di Staël aveva voluto stampare in Francia, era stata sottoposta alla censura, e l'autrice vi aveva fatto i cambiamenti che le si erano ordinati. Essa medesima ne aveva indirizzato un esemplare all'imperatore Napoleone con una lettera132, che certamente non manca di dignità e di nobiltà, ma che sarebbe stato meglio non iscrivere. La signora di Staël doveva ben saperlo per propria esperienza; non vi è che un modo di operare che possa far buona riuscita presso i despoti, ed è di prosternarsi davanti a loro. Curvatevi adunque, se avete la schiena abbastanza flessibile, o tacete, se altro di meglio non potete fare; il silenzio in tal caso è la sola vera dignità. Checchè sia, come mai aveva il libro l'Alemagna attirato i fulmini del Governo? Qual nuovo delitto aveva commesso la signora di Staël pubblicando quel libro? Ascoltate ciò che le scrive il Savary duca di Rovigo, ministro della polizia. È curioso, com'ella dice, il vedere questa sorta di stile:

«Ho ricevuto, o signora, la lettera che mi faceste l'onore di scrivermi. Il vostro signor figlio deve già avervi fatto sapere che io non vedo inconveniente nel ritardare di sette od otto giorni la vostra partenza; desidero che bastino ai provvedimenti che vi rimangono a fare, perchè non posso concedervene più. Non bisogna ricercar la cagione dell'ordine, che vi ho notificato, nel silenzio che voi tenete sulla persona dell'imperatore nell'ultima vostra opera; ciò sarebbe un errore133: egli non poteva trovar un luogo che fosse degno di lui; ma il vostro esilio è una conseguenza della vostra condotta da parecchi anni. Mi è parso che l'aria di questo paese non vi si confacesse, e noi non siamo ancora ridotti a cercar modelli nei popoli che voi ammirate. La vostra ultima opera non è francese; son io quello che ne trattenni la stampa. Mi duole la perdita, di cui sarà cagione al tipografo; ma non posso lasciarla venire alla luce. Voi sapete, signora, che non vi si era permesso di partire da Coppet, se non perchè avevate espresso il desiderio di recarvi in America. Se il mio predecessore vi lasciò abitare nel dipartimento di Loire-et-Cher, voi non dovevate riguardar questa tolleranza come una revoca delle disposizioni che si erano prese verso di voi. Ora mi obbligate a farle strettamente eseguire; non bisogna che ve la prendiate se non con voi stessa. Fo sapere al signor Corbigny (prefetto di Loire-et-Cher) di vigilare la esecuzione dell'ordine che gli ho dato, quando sia spirato il termine che vi concedo. Sono dolentissimo, o signora, che voi mi abbiate costretto ad incominciare con voi il mio carteggio con un provvedimento di rigore; mi sarebbe stato gratissimo di non aver che a offerirvi l'attestato dell'alta stima, con cui ho l'onore di essere, signora, il vostro umilissimo ed obbedientissimo servo

«P. S. Ho buone ragioni, signora, per indicarvi i porti di Lorient, La Rochelle, Bordeaux e Rochefort come i soli, nei quali possiate imbarcarvi. V'invito a farmi conoscere quello che avrete scelto

Questa poscritta aveva il fine d'impedire che la signora di Staël passasse in Inghilterra, ove si temeva che si recasse per iscrivere di contro Napoleone.

La signora di Staël tornò una volta ancora a Coppet colla disperazione nell'anima, «strascinando l'ala come il colombo del La Fontaine;» essa non sapeva però quai nuove e odiose persecuzioni ve l'aspettassero.

Il primo ordine che il prefetto di Ginevra ebbe, fu di notificare a' due figli di lei che era loro vietato di entrare in Francia senza una nuova permissione della polizia; volevasi punirli di aver tentato di parlare a Napoleone in favore della madre. Lo stesso prefetto le scrisse per domandarle, in nome della polizia, gli esemplari che dovevano ancora restarle, e dei quali il ministro sapeva esattamente il numero. Nel mentre che il libro veniva mandato al macero, il prefetto del dipartimento, in cui allora trovavasi la signora di Staël, era venuto a chiederle il manoscritto; non si credeva di fare abbastanza col distruggere l'opera stampata, si voleva annientare il manoscritto stesso, affinchè non rimanesse più segno di quel lavoro aborrito. Per buona sorte la signora di Staël aveva potuto mettere in salvo il manoscritto; onde ella diede al prefetto una mala copia che le rimaneva, e di cui volle questi pur contentarsi. Poco tempo appresso il prefetto fu punito per i riguardi che aveva usati alla signora di Staël in questa faccenda. Il signor di Barante, prefetto di Ginevra, perde anch'egli la grazia imperiale, benchè non si fosse punto scostato dagli ordini ricevuti; ma egli era uno degli amici della signora di Staël.

Il nuova prefetto fece tutti i suoi sforzi per indurre la signora di Staël a celebrare l'imperatore. «Era questo (egli diceva) un subbietto degno del genere di entusiasmo che ella aveva mostrato in Corinna.» – «Io gli risposi (narra la signora di Staël) che, perseguitata com'io era dall'imperatore, ogni lode da parte mia fatta a lui avrebbe sembianza di una petizione, e che io era persuasa che all'imperatore stesso parrebbero ridicoli i miei elogi in tal congiuntura. Egli combattè fortemente questa opinione; tornò più volte in casa mia a pregarmi, pel mio bene, diceva, a scrivere all'imperatore, non foss'altro che un foglio di quattro pagine; ciò sarebbe bastato, affermava, a finire tutte le mie tribolazioni.

«Ciò che egli dicevami lo andava ripetendo a tutte le persone che io conosceva. Finalmente un giorno venne a propormi di cantare la nascita del re di Roma; gli risposi, ridendo, che io non aveva veruna idea su quell'argomento, e che resterei a far voti, affinchè la balia di lui fosse buona. Questa celia finì i negoziati del prefetto con me sulla necessità ch'io scrivessi in favore del presente Governo

Perciò non cessarono le persecuzioni. Avendo i medici ordinato al suo secondogenito i bagni d'Aix in Savoia, la signora di Staël vi si recò, dopo averne dato avviso al prefetto di Ginevra; ma non appena vi era che le fu intimato di tornar via. Le fu proibito di portarsi sotto qualsiasi pretesto nei paesi annessi alla Francia; e le si consigliò anche di non viaggiare in Isvizzera, e di non allontanarsi mai da veruna parte più di due leghe da Coppet. Il signor di Schlegel, che viveva con lei da ott'anni, e che ne aveva educati i figli, ricevette l'intimazione di lasciare Ginevra e Coppet. Era per suo bene, si disse alla signora di Staël, che il Governo allontanava dalla casa di lei un uomo che la rendeva anti-francese, e aveva osato preferire la Fedra di Euripide a quella del Racine. Matteo di Montmorency, vecchio amico della signora di Staël, essendo venuto a passare qualche giorno con essa a Coppet, ricevette presso di lei una lettera di condanna all'esilio. «Mandai grida di dolore (ella dice) alla notizia dell'infortunio che per cagion mia cadeva sul capo del mio generoso amico; il mio cuore, sì provato da tanti anni, non fu mai tanto vicino alla disperazione. La signora di Récamier venne pur essa, benchè la signora di Staël la scongiurasse di non fermarsi a Coppet, e ricevè pur essa una lettera d'esilio. In tal modo punivasi la signora di Staël nei suoi amici più cari pel rifiuto che aveva fatto di degradarsi cantando le lodi dell'imperatore.

Stanca ormai di tante persecuzioni, che così ricadevano sopra i suoi amici, e temendo che si venisse contro lei medesima a qualche provvedimento più violento, si appigliò al partito di allontanarsi da Coppet, o piuttosto di fuggire, poichè le si erano negati passaporti per l'America (si temeva sempre che andasse a risiedere in Inghilterra), ed anche per l'Italia, dove essa aveva domandato la permissione di recarsi per ristorare la propria salute, da tante dure prove alterata. Il 23 maggio 1812 partì da Coppet come per una passeggiata, lasciando in tal modo da fuggitiva l'una e l'altra sua patria, la Svizzera e la Francia. Giunse in Austria, poscia in Moravia, in Polonia, in Russia. Ripartiva da Pietroburgo nel mentre che le truppe francesi entravano in Mosca. Si recò nella Finlandia e di nella Svezia, a Stocolma, ove scrisse la seconda parte dei suoi Dieci anni di esilio, dei quali aveva dettata la prima parte a Coppet, pigliando tutte le cautele per sottrarla ai vigili occhi della polizia. Indi passò in Inghilterra, ove una delle sue prime cure fu di ristampare l'opera sull'Alemagna, soppressa dalla polizia imperiale.

Finalmente la caduta dell'imperatore le diè modo, dopo dieci anni di esilio, di tornare in Francia e a Parigi, a quella Parigi che essa amava tanto; l'amava a segno da dire che preferiva il rigagnolo della via del Bac alle rive del Lemano; ma, tornando in Francia e rientrando nella sua Parigi, provava il dolore di vedere il suolo della patria coperto di milizie straniere.

Il ritorno dell'imperatore fuggiasco dall'isola d'Elba le cagionò un altro dolore che ha mirabilmente descritto nelle Considerazioni sulla rivoluzione francese; lasciò Parigi agli 11 di marzo. «Io non ho esercito fra lui e me, ella disse alla signora di Rumfort in presenza del signor Villemain134, voglio che ei mi tenga prigioniera, poichè non mi avrà mai per supplicante»135. Ma Napoleone le fece pervenire parole rassicuranti per mezzo di suo fratello Giuseppe, invitandola a ritornare. Il leone si era ammansito con la speranza di ricuperare la sua potenza; blandiva ora quegli ideologi che poc'anzi perseguitava od oltraggiava136, ma di cui aveva ora bisogno. Egli recitava allora la commedia della libertà. La signora di Staël almeno non si lasciò gabbare da quella commedia: «Bisognerebbe, diceva, minor fede per credere nei miracoli di Maometto che nella conversione di Napoleone

Io non ho potuto qui parlare se non della signora di Staël; ma quante altre vittime della tirannide di Napoleone, e vittime più sventurate, non potrei aggiungere a quella fra i rappresentanti del pensiero!

Non posso terminare questo corso senza almeno indicare alcune delle conclusioni che ne scaturiscono.

La mia prima conclusione è trista; cioè: che quelli, i quali tentarono d'introdurre nella ricerca e nell'insegnamento del vero la libertà ond'esso ha bisogno, e in nome della libertà, imprescrittibile diritto dello spirito umano, si levarono contro l'autorità e contro i pregiudizi che si volevano loro imporre; quelli dovettero pagare i generosi sforzi col proprio riposo, colla propria libertà o colla propria vita. Testimone, nell'antichità greca, Socrate, condannato a bere la cicuta per avere insegnato una religione ed una morale più pura che la religione e la morale regnante. Testimoni, sotto gl'imperatori romani, gli stoici, puniti di morte per aver difeso la dignità dell'uomo ed il santuario della coscienza contro gli attentati della onnipotenza imperiale, e per aver ricusato di adorare la divinità dei Cesari. Testimone, nel quinto secolo dell'èra cristiana, Ipazìa, trucidata nelle vie d'Alessandria, perchè non aveva accettata la fede di San Cirillo. Testimone, nel Medio Evo, Abelardo, condannato da due Concilii, e perseguitato in tutta la sua vita per aver tentato di introdurre la dialettica, vale a dire il raziocinio nello insegnamento della teologia. Testimone nel XVI secolo il Ramus, perseguitato anch'egli in tutta la vita, e finalmente trucidato nella notte di San Bartolomeo, non solo per avere abbracciato la Riforma, sì ancora e soprattutto per aver osato di combattere l'autorità di Aristotele; e, nella Riforma stessa, Michele Servet, fatto bruciare in Ginevra dal Calvino, per avere espresso idee diverse da quelle di esso riformatore sulla Trinità e sulla natura di Gesù Cristo. Testimone, in appresso, Giordano Bruno, otto anni prigioniero nelle carceri di Venezia e di Roma, poi arso in Roma dall'Inquisizione per causa di libero pensiero; Tommaso Campanella, tenuto ventisette anni nei ferri, posto quindici volte in giudizio, e sette volte applicato alla tortura per causa di eresia; il Vanini, bruciato in Tolosa nel 1616 per le sue opinioni filosofiche; Galileo, costretto a recarsi a Roma, nell'età di settant'anni, per sentirvisi condannato ad abiurare, ginocchioni, dinanzi ai cardinali e ai prelati della Congregazione, la verità che egli aveva scoperta o dimostrata con la potenza del suo alto ingegno. Testimone nel XVIII secolo Gian Giacomo Rousseau, sbandito dalla Francia e da Ginevra, sua patria, errante di asilo in asilo, e cacciato dappertutto a guisa di un malfattore per avere scritto la Professione di fede del vicario savoiardo, vale a dire uno dei più bei monumenti della eloquenza filosofica nei tempi moderni. Testimone, da ultimo, la signora di Staël proscritta, il suo mirabile libro dell'Alemagna mandato al macero, ed ella stessa costretta a fuggire sino al fondo dell'Europa, per non aver voluto lodare Napoleone. Ecco, per non ricordare che i nomi, sui quali specialmente si aggirarono le mie lezioni, e senza parlare di tanti altri martiri illustri od oscuri che, strada facendo, ho aggiunti o avrei potuto aggiungere, ecco quale è stata finora nel mondo la sorte dei rappresentanti del pensiero libero e indipendente.

Ma una seconda conclusione, e questa almeno consolante, si unisce con la prima; cioè che tutte queste persecuzioni e tutti questi supplizi non poterono impedire alla verità di farsi largo, e al progresso di compirsi; valsero all'incontro ad affrettarne ed assicurarne il trionfo. Carcere, esilio, tortura, cicuta, roghi, patiboli, supplizi e persecuzioni d'ogni sorta, tutto fu vano contro la verità; essa non procedette meno per questo. Eppur si muove!

Ond'è che oggidì cominciamo a raccogliere il frutto dell'annegazione di quei martiri del libero pensiero. Se tutto non è ancor fatto, e se abbiamo ancor da lottare, non dimentichiamo gli esempi che ci lasciarono quegli eroi della filosofia, e pensiamo che i nostri sforzi, al par dei loro, non rimarranno sterili, quand'anche noi dovessimo nella lotta soccombere. È questa la mia terza conclusione, ed è la lezione pratica che io voleva trarre dalle prime due.

Ma io non pongo in dimenticanza che parlo qui in un paese, dove la libertà di pensare è sanzionata dalla legislazione più liberale che sia oggidì in Europa, benchè su questo punto forse i costumi abbiano ancora da far qualche progresso per porsi del tutto d'accordo colle leggi. Come lo dimenticherei io, se appunto questa libertà è quella che mi trasse in questo paese? Ed ora, vedendo l'accoglienza fatta a queste lezioni consacrate ai martiri del libero pensiero, la numerosa udienza che esse chiamarono, l'attenzione con cui furono ascoltate; vedendo la viva simpatia che venne a ricompensare i miei sforzi, come non compiacermi della determinazione che presi? No; lo dichiaro francamente: per duro che sia l'esulare dalla propria madre e da' propri amici, io non potrei, per parte mia, molto desiderare sulle rive del Lemano il rigagnolo della via del Bac.





129 Considérations sur la Révolution française, quatrième partie, chap. XV.



130 È pur curioso il leggere la narrazione ufficiale dell'abboccamento di Napoleone col muftì (9 marzo 1799). Eccone un piccolo saggio:

Suleiman. Saluto di pace all'inviato di Dio. Saluto anche a te, invincibile generale, favorito di Maometto.

Buonaparte. Muftì, ti ringrazio. Il divino Corano fa le delizie del mio spirito e l'attenzione de' miei occhi. Io amo il Profeta, e intendo di andar tra poco a vedere e onorare la sua tomba nella città santa.



131 Mémorial de Ste-Hélène, chap. XII, sur les femmes, etc., la polygamie.



132 Vedi Coppet et Weimar, pag. 165.



133 «Il ministro della polizia aveva dimostrato maggiore franchezza esprimendosi a voce sul mio affare; aveva domandato, perchè io non nominava l'imperatore gli eserciti nella mia opera sull'Alemagna... Ma, gli risposi, essendo l'opera puramente letteraria, io non vedo come un tale argomento avrebbe potuto esservi introdotto.» – «Credesi egli dunque, disse allora il ministro, che noi abbiamo fatto guerra per 18 anni in Alemagna, affinchè una persona d'un nomeconosciuto stampi un libro senza parlar di noi? Questo libro sarà distrutto, e noi avremmo dovuto mettere l'autrice a VincennesDieci anni d'esilio, seconda parte, cap. I.



134 Villemain, Souvenirs contemporains, parte II, pag. 29.



135 «Quando il Buonaparte era già entrato in Lione, racconta la signora Necker di Saussure nella sua Notice sur le caractère et les écrits de madame de Staël, una donna che era ligia di quel partito andò a dire alla signora di Staël: – L'imperatore sa, o signora, quanto voi foste generosa verso di lui nel tempo delle sue sventure..... – Spero, essa rispose, che egli saprà quanto lo detesto



136 Appunto sull'ideologia, chi lo crederebbe? Napoleone rivolgeva il suo furore dopo i disastri della spedizione in Russia. «All'ideologia, diceva egli nel Consiglio di Stato dopo il suo ritorno dalla infelice campagna, a quella tenebrosa metafisica che, ricercando con sottigliezza le cause prime, vuole sopra le sue basi fondare la religione dei popoli, sì, all'ideologia conviene attribuire tutti i mali della Francia... Essa è quella che portò il governo degli uomini di sangue; che proclamò il diritto dell'insurrezione come un dovere; che adulò il popolo chiamandolo ad una sovranità, cui esso era inetto ad esercitare; che distrusse la santità e il rispetto delle leggi col farle dipendere, non dai principii sacri della giustizia, ma solamente dalla volontà di un'assemblea composta d'uomini estranei alla conoscenza delle leggi civili, criminali, amministrative, politiche e militari... Quando alcuno è chiamato a rigenerare uno Stato, gli convien seguire principii affatto opposti, e il Consiglio di Stato deve averli sempre presenti... Esso deve unirvi un coraggio a tutta prova, e, ad esempio dei presidenti Harlay e Molé, essere pronto a perire difendendo il sovrano, il trono e le leggi



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