Jules Romain Barni
I martiri del libero pensiero
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I MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO

APPENDICE ALLA DECIMA LEZIONE Ritratto di Napoleone I

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APPENDICE ALLA DECIMA LEZIONE

Ritratto di Napoleone I

PEL FICHTE137

(Estratto da una lezione sull'Idea di una vera guerra, detta nel 1813.)

Permettetemi di dare un'occhiata all'uomo che si fece capo della nazione francese. Vi farò prima notare che egli non è francese. Se fosse tale, forse idee socievoli, un certo rispetto per la opinione altrui, qualche stima per altra cosa che per se medesimo, in lui si manifesterebbero; forse alcune debolezze ed incongruenze benefiche ne modificherebbero il carattere, come avvenne, per esempio, in Luigi XIV, che era, a mio credere, la peggiore personificazione del carattere francese. Ma egli appartiene a quel popolo (Corso), che già fra gli antichi era famoso per la barbarie; che, nel tempo che questo uomo nacque, era abbrutito dalla più dura schiavitù; che per ispezzar le sue catene aveva sostenuta una guerra da disperato, e che dopo quei combattimenti fu soggiogato da un padrone astuto, e si vide frustrato della propria libertà. Le idee ed i sentimenti che quello stato della sua patria eccitarono in lui, furono i primi mezzi che servirono ad aprirne la intelligenza. In cotal modo gli apparve alla prima la nazione francese, in mezzo alla quale fu educato; e siccome era quello appunto il tempo d'una rivoluzione, di cui potè studiare gl'interni movimenti, imparò ben presto a conoscere quella nazione ed a riguardarla come una massa estremamente mobile, atta a ricevere tutti gli impulsi, ma incapace di prendere da se stessa un andamento determinato e durevole. Egli era debitore della coltura del suo intelletto a quella nazione, cui poteva riguardare come la prima di tutte; doveva dunque per necessità dare di tutto il resto del genere umano il medesimo giudizio che di essa. Non aveva alcun presentimento d'una più elevata destinazione dell'uomo e donde l'avrebbe egli ricevuto, poichè non lo aveva attinto a felici abitudini di gioventù, come avviene tra i Francesi, alle chiare nozioni che avrebbero potuto in appresso fornirgli la filosofia od il Cristianesimo? A questa esatta conoscenza delle qualità proprie della nazione ch'ei voleva signoreggiare, si univa in lui una volontà originata dal popolo energico, da cui era uscito, ma che aveva ritemprata, rafforzata e resa più incrollabile con una lotta incessante, ma dissimulata, contro le persone e le cose che circondarono la sua giovinezza. Con tali elementi della grandezza umana, cioè una gran chiarezza di concetti e una volontà ferma, egli sarebbe stato il benefattore e il liberatore dell'umanità, se il minimo sentimento della destinazione morale del genere umano gli avesse vivificato lo spirito. Ma non ebbe mai questo sentimento, ed è per tutti i secoli esempio di ciò che que' due elementi possono produrre, quando sono ridotti a se stessi, si aggiunge loro veruna idea d'ordine spirituale. Egli adunque si fece un sistema particolare: credè che l'umanità intera fosse una massa di forze cieche, o assolutamente inerti, o lottanti fra loro irregolarmente e in disordine; che questa inerzia questo movimento disordinato potessero a lungo durare, ma che al ristagno dovesse seguire un movimento diretto verso un certo fine; che in epoche rare, separate da secoli, apparissero intelletti destinati a dar una spinta a quella massa; che Carlo Magno fosse stato uno di tali intelletti e che egli ne fosse il successore; che le inspirazioni di quegli intelletti fossero le sole vere, le sole proprio sante e divine; che il movimento del mondo non avesse più elevati principii; che bisognasse sacrificar loro tutti gli altri intenti, ogni godimento ed ogni securezza, mettere per esse tutte le forze in moto e tutte le vite in requisizione, e che fosse una ribellione contro la legge suprema del mondo l'opporsi a quella spinta...

In questa chiarezza di concetti ed in questa fermezza sta la sua potenza. In questa chiarezza di concetti ogni forza non usata da altri è sua, ogni debolezza nel mondo deve cooperare alla sua forza. Come l'avoltoio che si libra sulle regioni inferiori dell'aria e cerca una preda, egli si libra sull'Europa attonita, spiando tutti i falsi provvedimenti e tutte le debolezze per piombar dall'alto e farle riuscire a suo vantaggio.

In questa fermezza gli altri sovrani ben vogliono anch'essi regnare, ma vogliono poi molte altre cose, vogliono la prima, se non a condizione di aver parimente le altre; non vogliono sacrificare la vita, la salute, il trono; vogliono conservare il proprio onore, vogliono essere amati. Quanto a lui, non conosce veruna di queste debolezze; egli giuoca la sua vita e tutti gli agi della sua vita; si espone al caldo, al freddo, alla fame, a grandini di palle; non condiscende a trattati restrittivi, come quelli che gli furono proposti; non vuole essere il padrone pacifico della Francia, come gli venne offerto, ma vuol essere il padrone del mondo, e se non può riuscirvi, preferisce di non essere. Lo dimostra ora, e lo dimostrerà pure in appresso. Non hanno veruna idea di quest'uomo e lo fanno a loro immagine coloro, i quali credono che, proponendogli altre condizioni per lui e per la sua dinastia, com'ei la vuole, ne otterrebbero altra cosa che sospensioni d'armi. L'onore e la lealtà? Coll'incorporazione dell'Olanda egli ha fatto vedere che un sovrano è loro fedele secondo le circostanze soltanto: dove gli sia utile attener la parola, sì; dove ciò gli sia nuocevole, no. Onde in tutti i documenti politici che vengono da quest'uomo, la parola diritto non s'incontra più; essa è per lui come cancellata dalla lingua; non vi si parla dappertutto che del benessere della nazione, della gloria degli eserciti, de' trofei che egli innalzò in tutti i paesi. Tal è il nostro avversario...

Si vuol egli una prova certa del suo acciecamento assoluto per la destinazione morale del genere umano? Si pensi al fatto preciso, pel quale egli si marchiò col suggello della propria natura in faccia a' contemporanei ed a' posteri. Bisogna rammentarlo con tanto maggior cura, quanto che, secondo il desiderio dei nostri propri padroni e dei loro strumenti, questo fatto, perfettamente conforme alle loro mire, fu sepolto in un silenzio universale e comincia a cancellarsi nella memoria dei contemporanei. Coloro che vogliono dargli l'accusa più grave, mostrano sempre il cadavere insanguinato del duca d'Enghien, come se questa uccisione fosse il peggiore de' suoi misfatti. Ma ad un altro fatto io penso, a un fatto, verso il quale la uccisione del duca d'Enghien non è quasi più nulla, e non è degna, a parer mio, d'essere mentovata, perchè nella via che Napoleone avea presa, gli era imposta dalla necessità.

La nazione francese erasi avventurata in un'accanita lotta per fondare il regno della libertà e del diritto, e in questa lotta aveva già versato il suo più puro sangue... Cominciata appena la coscienza di se stessa a nascere in quella nazione, la suprema direzione degli affari cadde (io non voglio rammentare per quali mezzi) fra le mani di quest'uomo. Egli aveva visto intorno a molte immagini della libertà; questa idea non gli era quindi affatto nuova. Se vi fosse stata la minima attenenza tra essa e il suo modo di pensare; se quella avesse potuto fargli scoppiar nella mente la più leggiera scintilla, ei non avrebbe soppresso il fine, ma cercato il mezzo. Egli non avrebbe potuto non intendere che quel mezzo era di formare la nazione francese alla libertà con una educazione regolare, la quale sarebbe forse durata parecchie generazioni.... Ecco ciò che egli avrebbe fatto, se in lui fosse stata la minima favilla di un buon sentimento. È inutile il ricordare qui ciò che fece nel verso contrario, e come, con l'astuzia spiando l'occasione, frodò la nazione della sua libertà: ben si vede che quella favilla mai non brillò in esso.





137 Io aveva tradotto questo ritratto per inserirlo nella mia introduzione alle Considerazioni sulla rivoluzione francese pel Fichte, delle quali pubblicai la traduzione a Parigi nel 1859; ma le apprensioni, molto esagerate certo, del mio editore non mi concessero d'inserirvelo. Si trattava, gli è vero, d'un giudizio storico, e che era stato già tradotto in francese (dal signor Lortet, Lione, Luigi Babeuf, 1831); ma dinanzi all'arbitrio ogni timore è naturale. Comunque sia, io profitto dell'occasione che mi offre il presente volume per rimettere qui ciò che dovetti sopprimere altrove; e spero che il lettore mi saprà grado di offerirgli un ritratto, il quale ben conferma l'ultima mia lezione, e mi pare degnissimo di essere collocato presso quelli che dello stesso personaggio disegnarono lo Channing e l'Emerson (Vedi Vie et caractère de Napoléon Bonaparte, per W. E. Channing e R. W. Emerson, tradotta dall'inglese per Francesco Van Meenen, Brusselle, 1857).



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