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APPENDICE DEL TRADUTTORE Giovanni Huss. | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
L'egregio scrittore, del quale io offro il lavoro tradotto nell'italico idioma, ha posto una splendida corona sulla fronte del genio. Giulio Barni, memore delle parole che il Byron lasciò scritte nella cella del Tasso: Infelice, ma grande, volle rivendicare il sangue dei martiri che si fecero precursori dell'umanità sulla via sacra del progresso e dell'incivilimento. Socrate, Ipazìa, Giordano Bruno, il Campanella, Galileo ed altri eroi di quella falange nobilissima che suggellarono col sangue la santità del vero furono dall'esimio pensatore fatti segno alla venerazione di tutti coloro i quali hanno fede nel perfezionamento umano; di tutti quelli, per i quali vivere non vuol dire aspergersi, rassegnati, di acqua benedetta e di sangue.
Giulio Barni ha mostrato al popolo il Pantéon del genio e in quello raccolti i martiri del pensiero, affinchè il popolo comprendesse che se la verità fu spesso e può essere ancora perseguitata e derisa; se ancora possono innalzarsi patiboli ai suoi apostoli e ai suoi neofiti, pur essa splende di luce immortale, e il suo raggio segna il cammino, sul quale l'uomo deve procedere per giungere al vero, al bello ed al buono.
Ora, fra questa sublime schiera di martiri mi si permetta di aggiungere il nome di un uomo che certamente per potenza d'intelletto, per candore di virtù, per rassegnazione nel sacrifizio non fu minore di quei grandi, i quali, da Socrate al Rousseau, da Abelardo a Giordano Bruno, seppero pensare, combattere e soffrire pel vessillo che avevano inalberato.
E questo martire del pensiero, che la mia debole voce osa ricordare, è Giovanni Huss, l'istruttore del popolo czeco, l'uomo che osò richiamare alla severità della morale cristiana un sacerdozio corrotto e venale, per cui l'Alighieri scrisse il verso famoso:
«Fatto vi avete Dio d'oro e d'argento.
Giovanni Huss dall'umile capanna di Hussinez rivolge lo sguardo alle turpitudini del Vaticano, ardisce levare una parola accusatrice contro l'oligarchia teocratica di Roma papale, e rammentare ai prelati quella dottrina del Cristo che, posta in non cale e sbandita dalla tiara e dalla stola, ha fatte vere le parole del gran teologo Busnel: «Essere Cristo il più gran nemico dell'umanità, se la morale dei preti di Roma fosse realmente quella che il Nazareno predicò.»
Giovanni Huss, inspirandosi alla purezza della sua coscienza e ad un amore infinito per i suoi simili, lacera il velo misterioso che copre le orgie sacerdotali, e addita al popolo credente quei vizi e quelle piaghe che, deturpando la morale primitiva del Cristianesimo, hanno, col volgere dei secoli, resi possibili gli scismi religiosi e quelle lotte, nelle quali il sangue fu sparso a torrenti in nome di un Dio che aveva scritto sulle tavole della sua legge la grande parola, che raccoglie l'umanità in un amplesso, la parola del perdono.
In un tempo che la tracotanza sacerdotale era ancora onnipotente, quando la corona e la stola, facendosi sgabello dell'ignoranza umana, si alleavano per combattere il comune nemico, cioè l'umano pensiero, ben si comprende come Giovanni Huss dovesse essere fatto segno agli odii implacabili di tutta la casta sacerdotale, e come contro il terribile novatore si dovessero affilare le armi della persecuzione.
Il Giove del Vaticano fulminò le scomuniche contro l'arcieretico tedesco; le Chiese gli furono chiuse, venne maledetto chi lo avesse tenuto per fratello, chi gli avesse tesa soccorrevolmente la mano.
Eppure tanta ferocia di partito, tanta gravità di punizione non valsero a far germogliare l'odio nel cuore dell'Huss: egli per contrario soleva dire ai pochi amici che, sprezzando le folgori ecclesiastiche, aveano preferito rimanere uomini ad essere cristiani benedetti: Non compiangetemi; non sulle vittime si debbono versare le lagrime, poichè la palma del martirio cresce sulla loro tomba ma sui carnefici si deve piangere. E allorchè più infuriava la coorte mitrata, egli sorridendo ne mostrava gli eccessi e ne' suoi insegnamenti al popolo soleva esclamare: «Roma papale coi suoi furori vuol proprio far di me un riformatore, imperciocchè sarà mercè sua che tutti mi crederanno.»
Nè è da credere che Giovanni Huss non comprendesse come egli avrebbe dovuto soccombere in questa lotta ineguale. Il Voltaire non aveva ancora scritto che il prete non perdona, eppure già questa epigrafe famosa del filosofo di Ferney il prete l'aveva dettata col sangue dei martiri. Giovanni Huss non ignorava il terribile martirologio che per opera del papato aveva fatto piangere tanti popoli; e quando inspirandosi all'altezza della sua dottrina egli parlava la parola della verità, intravedeva forse nella mente profetica le fiamme di quel rogo, sul quale pochi anni dopo doveva coraggiosamente salire. Quella congrega che aveva perseguitato la verità in Socrate, la scienza in Galileo, la filosofia in Gian Giacomo Rousseau, certamente non avrebbe perdonato al povero czeco. Ma che importano le persecuzioni e la morte, quando un'idea brilla luminosa nella mente dell'apostolo; quando al cessar di questa esistenza di un giorno la creta sente l'immortalità nella gloria?
E questa era la fede che sorreggeva la mente ed il cuore dell'Huss in quell'apostolato umanitario che doveva trascinarlo al rogo di Costanza, vittima dell'odio ecclesiastico.
Egli non si dava pensiero delle fiamme che avrebbero consumato le sue membra: l'anima mia è immortale, poteva rispondere Giovanni Huss; e come l'anima mia, è pure immortale quella dottrina che bandisco al mondo, perchè è la verità, e contro di questa non prevarranno nè le scomuniche, nè i segni cabalistici di una mitologia cristiana, la quale nelle sue colpe ha saputo rendersi più odiosa del paganesimo.
Roma non perdona, e l'odio che perseguitava Giovanni Huss doveva naturalmente colpire anche i suoi seguaci. La storia ci narra le guerre religiose che funestarono quel tempo.
Da una parte stavano i guerrieri della croce eccitati dal sacerdozio e dall'interesse, mentre dall'altra erano schierate legioni di pensatori, che al soprannaturale fantasmagorico opponevano ben altra bandiera, quella della libertà di coscienza.
E la croce piegò dinanzi alla nuova forza umana; Roma vinta nelle sue teoriche come nelle sue lotte dovette a poco a poco patteggiare coi vincitori e riconoscere come figli legittimi anche quei seguaci dell'Huss, contro i quali aveva scagliato le sue folgori.
In tal modo la Boemia, combattendo, per 16 anni in nome della verità e della libertà di coscienza, contro gli eserciti europei che Roma mandava a danno di quel popolo di prodi e di pensatori, acquistava il diritto di assidersi al banchetto delle libere genti e meritava uno splendido alloro. Roma avea voluto schiavi e fece martiri; avea voluto imporre il suo feticismo col ferro e col fuoco, e formò invece un popolo di nemici, poichè ben presto i Tedeschi, inorriditi di una religione, la cui stola era insanguinata, vollero la libertà assoluta e l'indipendenza dal pontefice.
Così l'Inghilterra e l'Alemagna abbracciarono l'eresia, perchè questa significava la libertà, e ripudiarono quei dogmi che Roma pretendeva di bandire e d'imporre cogli eserciti. Così il papato, vinto, dovette chinare la superba cervice e venire a patti.
Apostolo e martire di questa sacra dottrina di libertà, che la Boemia volle e seppe conquistare contro la tirannia di Roma, fu appunto Giovanni Huss. Il povero proscritto, dai magnati della Chiesa cattolica, avea innalzato il primo grido di rivolta contro i venditori delle indulgenze, e questa sublime eresia trasse seco l'indipendenza di un popolo.
L'Huss era, certamente, un grande colpevole per la Corte pontificia e per gli ecclesiastici romani, poichè egli aveva anatemizzato i loro divertimenti illeciti e la loro libidine di possedere beni terreni. L'Huss parlava loro della povertà di Pietro, e i prelati avevano croci tempestate di gemme. Che importa che quest'uomo sia designato come eresiarca, e il suo nome, scritto sul libro nero di Roma papale, sia fatto segno al ludibrio? L'Huss sarà sempre una delle glorie più splendide dell'umanità, e per esso il popolo slavo potrà dire di avere apportato la sua pietra alla grande palingenesi umana.
Quando Giovanni Huss salì il rogo a Costanza, i preti gli posero sulla fronte un cartello sul quale era scritto: arcieretico.
Essi credevano d'infamare in tal guisa l'uomo che distruggevano, non comprendendo che l'infamia ricadeva sopra i carnefici. Arcieretico voleva dire libero pensatore, voleva dire che egli aveva lacerato, in nome della scienza, quel dogma fallace che il sacerdozio aveva imposto per secoli all'umanità.
L'Huss arcieretico morendo si appellava all'umanità, e questa lo assolveva, perchè la sua vita era stata di una illibatezza esemplare. Così Roma papale condannava l'arcieretico, e la storia scriveva il nome di Giovanni Huss sulle tavole d'oro dei benemeriti della libertà e dell'incivilimento.
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