Maria Savi Lopez
Leggende del mare
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Il mare

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Il mare

Difficilmente possiamo intendere quale intensità di meraviglia e di terrore provarono le antiche genti innanzi all'Oceano, padre degli dei, mare di morte, mare tenebroso, fiume immenso che cingeva la terra, al di del quale trovavasi la regione delle anime, la dimora di esseri fantastici dal triste aspetto, di divinità tremende, di mostri immani, di spiriti malvagi, che andavan placati con offerte, con sacrifizi, con preghiere. Ed al mare si eressero altari in ogni parte del mondo abitato; esso ebbe le preghiere delle turbe atterrite dalla sua furia, dei naviganti pronti a sciogliere le vele, degli esuli in cerca di nuova patria; e parve, dalla Fenicia alla Scandinavia, dalle terre africane a quelle del Perù, che solo il sacrifizio di vite umane potesse placarne l'ira, mentre risonava il canto dei sacerdoti a coprire le grida strazianti delle vittime; ed il sangue umano univasi al candore della sua schiuma.

Ora gli antichi adoratori del mare dormono in pace fra la polvere dei secoli ed i ruderi dei templi abbandonati; l'uomo dei paesi civili conosce le vie del mare, i confini del vecchio Oceano e tanti suoi secreti, e l'antico padre degli dei che amiamo tutti, noi Italiani, perché ci ricorda gran parte delle nostre glorie, e su di esso sventola superbamente la nostra bandiera, non ha più templi sulle nostre terre. Ma riceve ancora lontano, lontano, da barbare tribù, la fervida preghiera: è adorato nella Birmania e nella Guinea, sulla Costa d'avorio ed in parte della Lapponia; ha altari e sacerdoti nel Dahomey ed in altre regioni; dagli abitanti di certe spiagge della Spagna e del Portogallo è tenuto come cosa sacra.

Le genti di ogni paese, che nei lontani secoli guardarono con profondo stupore il mare, andarono tessendo intorno alla sua origine infiniti racconti, che possono ritrovarsi ancora in parte nella storia delle religioni e nelle cosmogonie diverse; ma fra i limiti di questo studio è impossibile parlarne distesamente, e ne andrò solo notando alcuni.

Parecchi popoli credettero che in tempi lontani, fra le tenebre ed un silenzio di morte, fossero distese le acque nere dell'Oceano, dal quale doveva uscire ogni cosa celeste o terrena, creata dalla sua forza infinita; ed anche gli dei chiamati a reggere il cielo e la terra.

Altre genti narrarono che il mare apparve prima del cielo e della terra, quando gli dei cominciarono l'opera stupenda della creazione; vi fu ancora chi lo disse formato da una lagrima di Saturno, dal sudore della terra riscaldata dal sole, dalla forza del fuoco, dal sangue del gigante Ymer, ucciso dai figli di Bor; o da certe nubi d'oro, che mandavan lampi, e dalle quali uscì l'acqua che piombò in un abisso spaventevole. Se il sole, fra le vicende della notte e del giorno, parve agli uomini, che andavan formando miti strani, un essere animato, capace di ascoltare e di esaudire preghiere ferventi; a maggior ragione parve animato il mare che palpita, si agita e parla, e si credette fermamente non solo nella sua divinità, chiamandolo creatore onnipossente, eterno; ma si disse pure che era un mostro immenso, il quale stringeva la terra fra le sue spire, aveva polmoni, vene ed arterie; e in qualche modo indovinavasi in parte quanto sarà provato dalla scienza moderna, se è vero che le grandi correnti marine non sono isolate, ma formano le diverse parti di una rete, le vene di un sistema unico di circolazione.

Dal movimento delle onde, che furono da certi popoli credute esseri viventi, forti, divini, si tolsero, e si tolgono ancora su certe spiagge, predizioni per l'avvenire; ma ebbe maggiore importanza presso le genti antiche e medioevali la voce del mare, creduta parola di un essere possente, capace di conoscere il futuro e di ammaestrare le genti; e l'uomo si provò ad intendere il misterioso linguaggio dell'acqua che frangevasi sulle spiagge.

Forse nell'andar dei secoli il mare parlò realmente in modo intelligibile al cuore dei grandi poeti, e seppe intenderlo Omero quando ci narrò l'ira di Nettuno e i dolori d'Ulisse; e sulle spiagge e sul mare vide, al pari dei vecchi vati divini della Grecia, che gli furono maestri, svolgersi i casi dell'Iliade e dell'Odissea; l'udì Virgilio quando narrò di Enea; ed esso parlò anche all'animo di Dante, quando fra la Visione divina, all'uscir della selva o in mezzo alla bufera infernale che travolge Francesca; vicino allo strazio dei prodighi e degli avari, o fra la serenità luminosa del Purgatorio, lungo il tremolar della marina, ricordò il mare nel dar maggiore efficacia al suo dire; ed in tempi più recenti intesero le sue misteriose note Byron e Shelley, Victor Hugo, Tennyson ed altri grandi. Ma per molte genti era inutile che l'uomo dicesse coll'armonia del verso le glorie e la grandezza del mare. A che vale che l'India ne ricordi il nome nei suoi grandi poemi mitologici, che i Greci abbiano l'Odissea, gli Scandinavi l'Edda, i Finni il Kalevala, i Russi le biline di Sadko? Il mare basta a se stesso, è il grande poeta eterno, la sua voce può da sola ripetere il canto degno della sua potenza, della sua forza, della sua immensità; anzi ogni onda può dire il suo poema, come credettero i poeti della Finlandia, per i quali anche il freddo ripeteva versi, e la pioggia portava gli epici canti.

Non basta che il mare palpiti, abbia anima di poeta, voce armoniosa; che ancora adesso ripeta la sua canzone; come credono i marinai di Moray Firth e di altre terre; vuolsi pure che vi sia una misteriosa relazione fra il suo mormorio e la vita degli uomini. Ad Elsinor in Danimarca dicesi che ogni gemito delle onde, in tempo di calma, annunzia la morte di un essere umano o «chiede qualcuno». Su certe spiagge inglesi, nei sospiri dell'onda, odesi il gemito di chi muore lontano sul mare; in una leggenda islandese dicesi che il suono dell'onda morta (Nàsjoir) sia il rantolo di un morente; l'onda che si frange lentamente sulle coste di Cork, annunzia pure col mesto suono la morte di un uomo.

Se par che il mare sappia solo dire a se stesso il poema che l'uomo non può ripetere, ciò non toglie che la voce umana possa anche vincere col poetico linguaggio la sua furia, ed infondere la gioia nella sua fremente distesa.

Nei canti epici della Finlandia, che possiamo dire, al pari dell'Odissea, una stupenda epopea del mare, trovasi uno dei racconti più belli immaginati dal popolo, in cui si dica che la voce del poeta può commuovere il cielo, la terra ed il mare. Per dire il vero, in questo racconto il vecchio Wäinämöinen, che affascina le onde e le divinità del mare, è certamente come Orfeo, Anfione, Pane e Mercurio, un mito del vento; ma il popolo vede anche in lui il suo poeta divino, e mentre Mercurio trae la sua lira da una testuggine, il cantore eterno dei Finni toglie dal mare l'istrumento che avrà magici suoni, che potrà coll'armonia delle note vincere il cuore degli uomini ed animare ogni cosa terrena; e si direbbe che vogliano i poeti finni significare che l'armonia, la voce, la potenza del mare si unirono alla voce del loro poeta immortale per formare un complesso divino.

Il modo in cui Wäinämöinen, nel quale parmi che non si debba trovare solo una trasformazione di miti antichissimi, ma anche la figura splendida di un eroe del mare, e quella di un vate divino, trovò nel mare quanto gli occorreva per formare l'istrumento che doveva essere gloria e gioia della Finlandia, fu meraviglioso.

Egli governava sulle onde la sua nave, ripetendo allegri canti, e dall'alto, sugli scogli, le fanciulle delle spiagge ascoltavano dicendo: «questi lieti canti che risuonano da lungi sulle onde, sono più belli degli altri, di quelli che abbiamo uditi finora». E la nave continuava nella rapida corsa: il primo giorno passò lungo le foci dei fiumi, il secondo presso quelle dei laghi, il terzo giunse presso le cateratte.

Allora l'allegro Lemminkàinen pronunciò le parole atte a scongiurare le cascate fiammeggianti, disse le formole che potevano frenare i vortici dei fiumi sacri; alzò la voce e disse: «cessa, o cateratta, dai tuoi salti furenti, cessa di urlare, e tu, vergine dei torrenti, alzati come una diga sulla roccia coperta di schiuma, trattieni colle tue mani, riunisci colle tue dita le onde sfrenate, affinché non si spezzino contro il tuo petto, non si volgano contro di noi.

«O vecchia dea che dimori sotto le onde, o donna che dimori nel fondo dei torrenti impetuosi, esci dalla tua umida dimora e vieni a condensare le onde; fa che le pietre nel mezzo della cateratta chinino il capo sul sentiero della nave rossa, e se questo non basta, il padre delle onde, dio del mare, muti le rocce in musco, muti la nave in un pesce leggero, mentre passeremo fra le cateratte tempestose, fra le onde immense».

Il vecchio Wäinämöinen poté stringere con forza il timone, spinse la nave fra gli scogli, fra le cascate spaventevoli, superò tutti gli ostacoli; ma quando fu giunto sulle acque alte la nave rimase immobile. Il fabbro Ilmarinen, l'allegro Lemminkäinen usarono i remi inutilmente, la nave non si mosse; allora Wäinämöinen comandò al figlio di Lempi di chinarsi verso l'abisso, per vedere da qual cosa fosse trattenuta, e questi si accorse che erasi fermata sulle spalle di un luccio, sulle costole di un pescecane.

Wäinämöinen disse: «trovasi ogni cosa nel fondo del mare; vi si trovano radici d'alberi e pesci; se la nave si è fermata sulle spalle di un luccio, sulle costole di un pesce cane, immergi il tuo brando nell'acqua e taglia a pezzi il pesce». L'allegro figlio di Lempi, audace e brillante, tolse dal fodero il brando, staccò il roditore di ossa dalla sua cintola, l'immerse nelle onde, fin sotto la chiglia della nave e cadde nell'abisso; il fabbro Ilmarinen afferrò l'eroe per i capelli e lo salvò da morte; poi immerse il suo brando sotto la nave, ma l'arme si spezzò; allora Wäinämöinen prese la sua lama d'acciaio sfolgorante e l'immerse sotto la nave, fra le spalle del luccio, nelle costole del pescecane.

Il brando si attaccò fortemente al mostro, che l'eroe trasse dal fondo del mare, e tagliò in due pezzi; la coda ricadde nell'abisso, la testa rotolò sul ponte della nave che, liberata finalmente, ricominciò la rapida corsa. Wäinämöinen la diresse verso un'isola dove lavò la testa del mostro. Più tardi egli si mise al lavoro, e formò colle ossa del pesce un kantele1, sorgente di melodia, sorgente di gioia eterna; e quando fu compito l'istrumento divino, i giovani, gli uomini ammogliati, i fanciulli, i bambini, le giovani vergini, le donne giovani e le vecchie, accorsero per vederlo.

Ad uno ad uno tutti si provarono a sonare il nuovo istrumento, ma nessuno vi riuscì; la gioia non si univa alla gioia, l'armonia all'armonia. Si stabilì di mandarlo in altro paese, ma neppure le genti di Pohjola e di Sariola riuscirono a sonarlo. L'istrumento dava suoni discordanti, spaventevoli; e poiché non poteva destare la gioia ed allietare i dolci riposi, meglio era gittarlo nel fondo del mare, o rimandarlo al maestro, al poeta possente.

Nell'udire quanto si divisava, le corde del kantele vibrarono, dicendo nel suono queste parole: «Io non andrò nel fondo del mare prima di risonare fra le mani del maestro, sotto le dita del poeta possente». Wäinämöinen, il poeta eterno, preparò le sue dita, lavò e purificò i suoi pollici, poi sedette sulla pietra della gioia, sulla rupe del canto, sulla cima della collina d'argento, della collina d'oro. Prese fra le dita l'istrumento, appoggiò la cassa sonora sulle ginocchia, alzò la voce e disse: «Vengano coloro che non l'hanno udito ancora, che vogliono sentire la gioia dei canti eterni».

Il vecchio Wäinämöinen cominciò a sonare stupendamente; suonò l'istrumento formato colle ossa del luccio, il kantele d'osso di pesce: le sue dita flessibili correvano sulle corde, il suo pollice le sfiorava leggermente, e la gioia, l'allegrezza infiammava l'allegrezza, il suono si elevava come voce dell'armonia; il canto risonava con tutta la sua forza, i denti del luccio risonavano, le pinne fremevano armoniosamente...

Mentre il vecchio Wäinämöinen toccava le corde del kantele non vi era un essere nei boschi, non un animale il quale camminasse sulle quattro zampe, che non accorresse per ascoltare i suoni della gioia.

Gli scoiattoli saltano di ramo in ramo, gli ermellini si arrampicano sui pali, i cervi balzano sulle pianure, le linci fremono per il piacere, i lupi sono commossi; anche l'orso si desta nel deserto, il lupo percorre vasti spazii, l'orso rasenta le siepi...

Tutto il popolo delle foreste, tutte le fanciulle, tutti i giovani salirono sulle cime delle rupi per ascoltare il kantele; la regina dei boschi mise le calze azzurre, le scarpe coi nastri rossi, e salì sulla cima di una betulla, per godere, udendo la divina armonia. Le belle vergini dell'aria, le figlie dilette della natura ascoltarono anche attentamente la voce del grande eroe, il suono del magico istrumento. Erano sedute graziose e raggianti, le une sull'arcobaleno, le altre sulla estremità di una nube leggera cogli orli di porpora.

Kuntar, la figlia splendida della luna, Päivätär, la figlia gloriosa del sole, sedevano sopra un trono formato da una nube rossa, movendo rumorosamente la loro spola, e tessendo un tessuto d'oro, un tessuto d'argento. Gli accordi del kantele giunsero fino ad esse, e subito la spola cadde dalle loro mani, i fili d'oro del tessuto si spezzarono, il telaio d'argento si ruppe.

Tutti gli esseri della terra, tutti gli esseri del fondo del mare, tutti i pesci accorrevano per udire i suoni del kantele, per ammirare i canti della gioia.

I lucci corsero rapidamente fra le onde, i cani marini dimenticarono la propria pesantezza, i salmoni uscirono dalle fessure delle rupi, le trote dalle loro dimore profonde, i salmoni bianchi, tutti i pesci balzarono sulla spiaggia per ascoltare i canti di Wäinämöinen ed il suono del kantele.

Ahti, il re delle onde azzurre, il vecchio dell'acqua, colla barba d'erba, si drizzò sulla volta umida, si distese sopra un letto di ninfee, ascoltò i canti (runoi) della gioia e disse: «non ho mai sentito altra cosa che s'assomigli a questa; in tutti i giorni passati della mia vita, non ho mai sentito accordi pari a quelli di Wäinämöinen, del poeta eterno».

Le sorelle di Sotkottar, le vergini della spiaggia, colle acconciature di giunchi, lisciavano i loro lunghi riccioli, le loro ricche capigliature con una spazzola d'argento, una spazzola d'oro. Udirono i suoni meravigliosi, e subito la loro spazzola cadde nell'acqua, sparve fra le onde, e la loro capigliatura rimase lisciata a metà, i loro riccioli rimasero fatti a metà.

La sovrana delle onde, la vecchia dal petto circondato di salici, emerse dalla profondità del mare, appoggiò il petto sopra uno scoglio per ascoltare la voce di Wäinämöinen, la meravigliosa melodia del kantele: nella sua gioia dimenticò di lasciare lo scoglio, e su di esso si addormentò.

Il vecchio Wäinämöinen fece risonare il suo kantele per un giorno, per due, e non vi furono eroi, uomini, donne che non fossero commossi tanto da piangere. Piansero i giovani, piansero i vecchi, gli uomini ammogliati, i celibi, i bimbi, le bambine, i giovanetti e le fanciulle, tale era la dolcezza della voce del poeta, tanto era inebriante l'armonia dell'istrumento.

Anche il poeta pianse: le lagrime caddero dagli occhi suoi, le gocce d'acqua uscirono sotto le sue palpebre, inondarono le sue guance, bagnarono il suo bel viso, e da questo gli caddero sul largo mento, sul forte petto, sulle ginocchia possenti, sopra i piedi bellissimi; dai piedi caddero per terra, penetrando fra i cinque abiti di lana, le sei cinture d'oro, le sette tuniche azzurre, gli otto mantelli di panno che egli portava; giunsero sulle sponde del mare, discesero fra le onde dell'abisso fino al fango nero.

Allora il vecchio Wäinämöinen alzò la voce e disse: «havvi fra questa gioventù, questa grande ed illustre razza uscita dallo stesso padre, che voglia andare a raccogliere le mie lagrime fra le onde limpide dell'abisso?».

Nessuno volle andare a prenderle; ad un'anitra sola riuscì di raccoglierle, e quando l'eroe le ebbe in mano avevano subito una meravigliosa trasformazione, eransi mutate in perle fine e splendide, per adornare i re, per essere la gioia eterna degli uomini possenti.2

Ma forse le divinità del mare vollero rapire all'eroe il meraviglioso istrumento, che gli cadde dalle mani, precipitò nelle dimore profonde dei pesci, per divenire preda del re del mare, per essere posseduto da Velamo; ed Ahti, dio del mare, non lo riportò al vecchio Wäinämöinen.

Mentre pensiamo al passato ed alla fervida fantasia dei nostri padri antichi, possiamo, guardando il mare, ricordare casi meravigliosi, e credere che dalle sue profondità escano la luna e le stelle volte a rallegrare le notti serene; possiamo nell'ora del tramonto veder sorgere dalla schiuma, vicino ai corsieri del biondo Apollo, le Oceanidi belle, o danzar le figlie di Nereo intorno al vecchio Poseidone, amate dal mare Egeo e dalle spiagge greche. Può anche riuscirci d'immaginare il forte Odino col suo seguito di eroi del mare, o altre divinità che passino fra le nubi d'oro o di fuoco, seguite dagli spiriti malvagi che governano i venti, le onde, le saette; ma parmi che troppa luce splenda sui nostri mari, che troppe speranze di nuove glorie ci facciano palpitare il cuore guardandoli, perché ci riesca immaginare che diverranno insieme cogli oceani una tomba immensa, nella quale piomberà un giorno la terra, sparirà ogni opera d'arte, ogni traccia della vita che ferve intorno a noi, della civiltà che ha vinto o combatte; ed ove colla polvere degli avi nostri, e la grandezza delle nazioni, si chiuderà fra le turbe atterrite ogni cuor d'amante, di poeta, d'artista.

Eppur vi furono terre forse civili e belle, delle quali parlerò in un altro capitolo, che ebbero realmente sepoltura sotto le onde, ed appena ricordasi il loro nome fra le genti. Per esse l'Oceano è già la tomba immensa, paurosa che asconde le sue vittime, e più non lascia che se ne conosca qualche reliquia, che si possa indovinarne i segreti. Sulla vecchia terra le rozze selci lavorate, i tumuli, le torbiere, le terremare, i fondi dei laghi, le caverne, i vetusti altari, il bronzo ed il ferro usati dall'uomo, possono rivelarci ancora tanti segreti dei padri nostri; ma il mare non conserva memoria del passato, non porta sulla mobile superficie l'impronta dell'uomo, e sa nascondere la morte fra la sua giovinezza eterna.

Non è qui il caso di discorrere intorno a certe nuove teorie geologiche, le quali dimostrano che il mare dovrà finire coll'attrarre ad uno ad uno tutti i continenti, sotto le sue acque vittoriose; e dirò solo che a dispetto del suo movimento perenne, che pare immagine della vita, il mare creatore che sente, canta e forse ama, poiché dalle sue onde uscirono la Venere greca dea d'amore, e la Laksmi indiana dalle quattro braccia, amata dal dio Siva, dovrà, secondo la credenza di certi popoli, essere il grande distruttore della vecchia terra, che asconderà di nuovo sotto l'acqua, colla luna e colle stelle, e rimarrà ancora solo, maestoso, terribile fra le tenebre ed il silenzio eterno.

Intorno a questo pauroso trionfo del mare gli Scandinavi dissero che verrà tempo in cui i cattivi genii spezzeranno le loro catene e sconvolgeranno il mondo. L'inverno regnerà lungamente sulla terra, morirà ogni fiore, sparirà ogni fil d'erba, e gli uomini brevemente fra la desolazione inenarrabile, senza gioia, senza speranza e senz'amore. Cadranno le montagne, il sole, la luna, le stelle, e l'Oceano, superando i suoi confini, inonderà la terra. Quando ogni essere vivente sarà sparito negli abissi, apparirà sulle onde il leggendario Naghfar, vascello ricordato nell'Edda e formato colle unghie dei morti, mentre l'immenso serpente Midgard passerà fra le onde, finché un'altra terra, più bella del vecchio mondo distrutto, sorgerà dall'acqua.

Era impossibile che non si narrassero presso diversi popoli strani racconti sull'estensione, sui limiti, e sulla profondità del mare, e dovrò andarne notando parecchi in altri capitoli; ora dirò che si ripetono ancora dai marinai di certe regioni non poche leggende intorno alle cause che resero salata l'acqua del mare. Una delle più antiche, raccolta anche nell'Edda, dice che Frödi, re di Danimarca, ebbe in dono un molino a mano chiamato Grötti, che poteva macinare ogni cosa. Il re volle che macinasse oro, felicità e pace; ma non potendo sempre il molino macinare da sé, senza essere mosso da qualche persona, il re comperò nella Svezia le due forti figlie di un gigante, chiamate Fenia e Menia; ed esse ebbero l'incarico di muovere le pesanti pietre del molino.

Le due gigantesse lavoravano assiduamente per il re Frödi, ed era solo concesso loro di riposare alquanto quando cantava il cuculo, o provavano desiderio vivissimo di cantare. In uno di quei rari momenti di pace cantarono il canto del Grötti, conservato nell'Edda di Snorri, e manifestarono il desiderio che Frödi fosse ucciso, e che il molino macinasse la loro maledizione. Nella notte il re del mare, Mysing, uccise Frödi, e portò seco il molino insieme colle fanciulle, alle quali comandò di macinare sale. Esse ubbidirono, e la durarono in quel lavoro, finché essendo troppo cariche le navi del pirata Mysing, colarono a fondo nel luogo ove si formò la voragine chiamata Maëlstrom (corrente che macina), la quale ancora adesso spaventa i naviganti.

Sulle spiagge della Manica narrasi che un capitano di Terranuova rubò ad uno stregone un molino, che macinava ogni cosa. Giunto in alto mare il capitano volle che macinasse sale, ed il molino ubbidì; ma il suo nuovo padrone non conosceva le parole necessarie per far cessare quel lavorio meraviglioso, e non solo sotto il peso enorme del sale macinato la nave affondò, ma nella profondità del mare il molino macina ancora senza posa il sale.3

Una tradizione delle tribù berbere del Marocco dice che Iddio volle creare il mare forte e possente, lasciando che le sue acque fossero dolci al pari di quelle che scorrono sulla terra. Il mare insuperbì, colle onde altissime superò i confini in mezzo ai quali Iddio l'aveva chiuso, sommerse la terra e distrusse ogni cosa. Allora Iddio volle umiliare il mare, mostrando che a nulla valeva la furia delle acque innanzi al loro Creatore. Egli chiamò innumerevoli sciami di moscherini che coprirono il mare e lo bevettero rapidamente. Il mare chiese pietà al suo Signore, si umiliò innanzi a Lui, e Iddio, mosso a compassione, comandò ai moscherini di rigettare l'acqua bevuta; il mare si formò di nuovo, ma le sue acque erano divenute salate.4

Altre leggende narrano in modo diverso l'assorbimento del mare, e parmi assai strana quella che ritrovasi con parecchie varianti nei grandi poemi dell'India. Essa dice che gli dei erano in guerra coi Dailyas, e andarono a visitare nel suo eremitaggio un certo Agastya pregandolo di aiutarli. Costui cedette alle loro preghiere ed essi, seguiti da infinito numero di genii e di santi, andarono sulla spiaggia del mare ove Agastya, innanzi a tutti gli esseri del cielo e della terra, bevette fino all'ultima goccia d'acqua.

Quando l'abisso fu vuoto, gli dei vi discesero ed uccisero i loro nemici; ma non si poté ottenere che l'eremita rigettasse l'acqua bevuta, e per migliaia di secoli le profondità del mare rimasero aperte e vuote, fino al giorno in cui Rama volle che fossero nuovamente riempite.

Dopo molti casi il fiume celeste chiamato Gangâ accondiscese a discendere sulla terra; balzò dal cielo sulle cime dell'Imalaia, si divise in tre braccia, e si aprì fra le gole dei monti una via verso la dimora degli uomini. Un santo re lo precedeva, additando la strada da percorrere, ed il fiume giunse, seguendolo, sull'orlo dell'abisso dove precipitò l'acqua che purificava ogni cosa. Rapidamente il mare si formò di nuovo, ed ora, presso la foce del braccio occidentale del Gange, l'isola di Sagar è visitata ancora da innumerevoli pellegrini indiani, non solo a ricordo del caso meraviglioso avvenuto, ma perché credono di lavarsi delle colpe commesse se vanno a bagnarsi nel luogo dove il fiume sacro si unisce al mare.5

La credenza che l'acqua del mare potesse cancellare i peccati delle povere anime pronte alla colpa fu estesa non solo nell'India, ma in altri paesi. Al ritorno del maggio i primarii cittadini di Roma andavano ad Ostia per tuffarsi nel mare e purificarsi, ed anche nei tempi del cristianesimo si conservò memoria di quel costume. Sant'Agostino riteneva che fosse avanzo del paganesimo il desiderio che mostravano i cristiani della Libia di andare nel giorno di San Giovanni a ricevere il battesimo sulle sponde del mare.

A Banyuls (Pirenei orientali) andavano anticamente gli uomini a bagnarsi nel mare il giorno di San Giovanni, e lasciavansi asciugare dai raggi del sole, che sorgeva all'orizzonte. Anche in Napoli usavano gli uomini e le donne di scendere nel mare nella vigilia di San Giovanni, e credevano di ottenere così il perdono dei proprii peccati.

I calabresi nel giorno dell'Ascensione ricordano ancora certi riti delle feste pagane in onore della primavera. Nei villaggi di Vaccarizzo, San Giorgio, Spezzano Albanese, nella notte che precede la festa dell'Ascensione, scendono al mare i devoti, specialmente le donne, nel luogo dove sorge un santuario dedicato alla Vergine della Schiavonia. Essi fermansi sul lido, ed appena spunta l'alba si tuffano nel mare; poi vanno nella chiesa per assistere alle funzioni religiose. Il Dorsa vuole che siano questi lavacri dei calabresi una reminiscenza di quelli delle Majumae romane e delle greche eleusine.6

Intorno ai simulacri delle divinità, sia che fossero opera mirabile di Fidia e di Prassitele, o lavoro informe di selvagge tribù, intrecciaronsi fin da secoli lontani le danze sacre fra il suono d'istrumenti diversi ed il canto dei vati e dei sacerdoti. Anche sulle spiagge si danzò, ed in certe regioni si danza ancora in onore del mare; di questo antico costume pagano resta pure qualche ricordo in mezzo al nostro popolo.

In Paola, come in altri luoghi, sulle spiagge del Tirreno calabrese, usavasi fino a pochi anni addietro, di eseguire una danza religiosa detta la nave. Sei persone prendevansi per mano, formando un cerchio; altre quattro montavano sulle loro spalle, ed alla loro volta sostenevano due persone che formavano la cima di quella piramide umana, e si sostenevano anche coll'aiuto di una lunga pertica appoggiata a terra. Dalla marina recavasi la piramide fino alla chiesa, quando ricorreva la festa solenne della Vergine; il popolo la seguiva danzando e cantando una preghiera, della quale due strofe suonano così:

Conduci la nave
In casa di Dio,
Per segno che accetti
il nostro desio.

Voi tutti di sopra
Attenti, deh, state;
Guidate la nave
In porto e sperate.

Se nessun incidente spiacevole avveniva nel difficile cammino della piramide, il popolo sperava che il raccolto sarebbe stato abbondante; se invece ogni cosa non procedeva regolarmente, si temeva che capitasse qualche disgrazia.

A Longobardi lo stesso ballo religioso prendeva nome di torre; si faceva nel giorno di Pasqua, quando i fedeli tornavano dal Santuario della Madonna di Tauriana, che trovasi vicino al mare. Invece nel giorno di San Giuseppe, ed anche in certe giornate estive, si usa a Cetraro di formare nel mare la strana piramide umana. Quando essa muovesi, le persone che stanno alla base cantano:

O vue che siti de supra
Stativi attienti e nun cadite;
Si cadite pigliati 'na botta
Sabatu 'a sira, duminica 'a notte.

Quelle che stanno di sopra rispondono, usando le stesse parole, con piccola variante e dicono:

Si caditi pigliamu 'na botte
Sabatu 'a sira, duminica 'a notte.7

Il Dorsa osserva che queste scene strane avvengono principalmente nei paesi di mare, e che ne sono attori i marinai; egli suppone che ricordino il culto d'Iside, introdotto a Roma nei tempi dell'Impero, e così accetto ai Romani, che, non essendo concesso che si stabilisse in Campidoglio, fu assai comune nei luoghi suburbani, e presto si diffuse su tutte le coste del Mediterraneo.

Nella nave del ballo calabrese crede che si possa ritrovare memoria della nave sacra d'Iside, che fu per gli Egiziani ciò che fu il Carroccio per le repubbliche italiane del Medioevo. La nave d'Iside significava che quella dea era pure protettrice della navigazione. Siccome usavasi anche in altre regioni, quando mandavansi doni al mare o alle sue divinità, i sacerdoti che avevano consacrato la nave ad Iside la facevano partire carica di doni, e l'accompagnavano con inni e musica, finché spariva all'orizzonte. I cristiani trasformarono la festa adattandola in qualche modo alle nuove credenze.

Parmi che il Dorsa nel dare questa origine egiziana ai balli ed ai canti dei nostri marinai, i quali ricordano una mitica nave, si attenga troppo strettamente al parere di Tacito, il quale, parlando della barca o nave, usata come simbolo nelle feste, fa solo cenno del culto forestiero d'Iside, portato dalla terra egiziana; mentre il Cox nota che, ai tempi del grande storico, la nave era anche usata nelle processioni ateniesi. Nelle belle feste Panatenee una nave veniva portata con molta solennità, in mezzo ad una processione, al Partenone, e su di essa sventolavano le vesti color di zafferano fatte dalle fanciulle ateniesi. Questa mitica nave, come la meravigliosa nave Argo, è simbolo della terra che produce le messi sotto il calore del sole. La nave d'Iside, accuratamente coperta come quella di Minerva, da una veste che nessuna mano profana doveva toccare, era tirata dalle vacche nelle processioni. Sotto altre forme questa nave ha la sua origine nella mitologia aria, e vuolsi che essa abbia relazione col corno greco dell'abbondanza, col corno che Huon de Bordeaux riceve dal nano Oberon, e con quello ricordato nel romanzo di Tristano.8 Il Gould nota che si usò di portare anche certe navi nelle processioni cristiane, la qual cosa fu poi proibita come ricordo di cerimonie pagane. Forse i nostri marinai pensarono di sostituire alla nave la torre umana, che in certi casi conservò il nome di nave; ed anche mentre ripetevano intorno alla mitica nave canti religiosi cristiani, non facevano che conservare un costume dei loro padri pagani, avvezzi a chiedere alla terra, in certe epoche dell'anno, un abbondante raccolto.

A Cetraro si ricorda che in tempi antichi, una gran folla accorreva il 21 luglio nel meriggio ad un luogo della spiaggia detto i Tre Frati, dal nome dato a tre grossi scogli che stavano nel mare, e che ora a causa del ritirarsi continuo dell'acqua sono rimasti a secco. Fra i canti intrecciavansi le danze, e raccontasi che la gente dividevasi un tesoro chiuso in una cassa, che era stata depositata nella notte precedente in mezzo agli scogli da una fata o sirena.9

Nelle isole Fiji usasi ancora una danza graziosissima in onore del mare, in cui vuolsi mostrare l'acqua che sale a poco a poco per coprire uno scoglio, finché non resti visibile che l'estremità; pari ad un'isoletta di corallo, intorno alla quale girano le onde, con una bianca corona di schiuma. I ballerini si collocano in lunghe file, per imitare l'avanzarsi calmo e lento delle onde; poi le file si rompono divenendo più corte, ed i ballerini camminano curvandosi e tenendo le mani distese. Certi gruppi di fanciulli, che vanno innanzi, rappresentano le piccole onde; poi le righe si avanzano o retrocedono più rapidamente, finché circondano la finta isoletta. I ballerini saltano levando le braccia e tenendo in mano i lembi di una stoffa bianca, che portano involta come un turbante intorno al capo. I suonatori, a molta distanza, imitano coi loro istrumenti il rumore dell'acqua che frangesi contro gli scogli.10

Anche le onde del mare danzano, secondo la credenza di certi marinai della Bretagna; in molti paesi dicesi pure che si muovono secondo un certo ordine prestabilito, e si hanno bizzarre credenze intorno a quelle che diconsi terze, none, decime; ricordando pure le superstizioni che furono comuni intorno a certi numeri.

Secondo le credenze del Paese di Galles la nona onda ha più forza delle altre, ed avanzasi maggiormente sulle spiagge. In Irlanda dicesi che quando i Tuatha Danann furono sorpresi dall'invasione dei Miledii (sono due razze mitiche dell'antica Irlanda) stabilirono cogl'invasori che costoro sarebbero andati colle navi al di della nona onda; se dopo fosse riuscito loro di sbarcare sarebbero diventati padroni dell'isola. I Miledii andarono infatti oltre la nona onda, ma non approdarono più sulle spiagge dell'isola; i loro nemici fecero scoppiare col mezzo d'incantesimi una tempesta che ruppe ogni nave.

Forse le credenze superstiziose intorno alla nona onda ebbero presso i popoli del Nord una certa relazione col racconto della mitologia scandinava, che diceva essere le onde nove figlie di Hler, dio delle onde, e di Ran sua moglie; eppure esse ritrovansi anche in Italia.

La vigilia dell'Ascensione i contadini di Sicilia vanno sulla spiaggia, s'inginocchiano e recitano la preghiera seguente, ogni volta che il mare manda un'onda cessano dal cantare. Essi dicono:

Ti saluto, fonti di mari.
Cca mi manna lu Signuri;
Tu m'ha dati lu to beni
Io ti lassu lu me' mali.

Ogni volta che ripetono queste parole raccolgono un pugno di sabbia, e quando tornano nei villaggi la gettano sui tetti di coloro che allevano bachi da seta, dicendo: «setti liviri a cannizza».11

Sul litorale delle Austrie credesi che ogni dieci onde ve ne sia una più alta delle altre; in Inghilterra chiamasi la decima onda della morte. Il Basset12 dice che vi fu chi vide sopra una nave, in un viaggio da Messina a Malta, un esperto capitano guardare attentamente il mare, dicendo alcune parole. Gli fu chiesto che cosa facesse ed egli rispose: «Rompo la forza di un'onda fatale, facendo il segno della Croce, e dicendo le preghiere necessarie: quest'onda minacciosa è la nona». Infatti ogni nona ondata che batteva contro la nave era più violenta delle altre, benché per un caso meraviglioso, innanzi al capitano, che continuava a segnarsi ed a pregare, l'onda perdesse parte della sua violenza prima di toccare il bastimento.

Per gl'Indiani anche la nona onda è più forte delle altre. Essa fu pur creduta tale dagli antichi Celti, che spesso mossero all'assalto del mare tempestoso colle spade e cogli scudi. Il bardo Taliesen ed altri ricordano questa credenza, che venne pur raccolta dal Tennyson.

Spesso le streghe, per nuocere ai marinai e far naufragare le navi, poterono prendere forma di onde, le quali furono sempre in questo caso tre, secondo le leggende. In un racconto basco dicesi di due streghe che divisano di fare affondare un battello da pesca celandosi in tre onde enormi. Una di esse dice all'altra che i marinai potrebbero solo salvarsi se loro riuscisse di gittare un rampone in mezzo alla terza onda, che sarebbe di sangue; la prima doveva essere di latte e la seconda di lagrime. Un marinaio ha udito le parole della strega, e quando vengono intorno alla barca le tre onde minacciose, gitta il suo rampone in mezzo a quella di sangue. In quel momento odesi un gemito straziante, e quando il marinaio torna nel suo villaggio trova una sua zia morente, un'altra lo fugge; sono le due streghe.

Tre uomini del Nord erano a mare sulla stessa nave; le loro mogli, mentre essi erano assenti, si diedero a fare il triste mestiere di streghe. Esse non fidavano molto nell'affetto dei proprii mariti, e trasformandosi in ogni maniera li seguivano. Ebbero ragione di credere che non ingannavansi, dubitando del cuore dei tre marinai, divisarono di farli affondare colla loro nave.

Una sera, essendo sedute sul ponte della nave, mentre tutti gli uomini erano a terra, discorrevano senza sapere che un mozzo le ascoltava; e dicevano che solo un essere innocente, adoperando un'arme nuova, avrebbe potuto vincerle.

Il mozzo non parlò di questo fatto ai suoi compagni, ma comperò un'arme nuova, e fu sempre pronto alla difesa. Un giorno, essendo in alto mare, vide tre onde enormi, candide come neve ed alte come torri, che movevano incontro alla nave e dovevano per forza farla naufragare. Egli le aspettò, presentando loro l'arme che teneva in mano, e innanzi a questa le onde ricaddero senza recar danno alla nave, ma l'arme fu bagnata di sangue. Quando i tre marinai ritornarono ad Amburgo, loro paese, e trovarono le mogli ferite, credettero a quanto avea narrato il mozzo dopo la sua vittoria sulle tre onde maledette.

Sopra una costa al sud-ovest dell'Irlanda trovasi, secondo la credenza popolare, l'onda vendicativa, e dicesi che in quel sito, avendo un uomo ucciso una mermaid, specie di nordica sirena, un'onda altissima si alzò contro di lui per travolgerlo nell'abisso. Per lungo tempo, quando passava in quel luogo un discendente dell'uccisore, l'onda memore alzavasi di nuovo minacciosa, e si poteva solo evitarne l'urto violento facendo il segno della Croce.

Anche la marea, di cui erano divinità Venilia e Salacia, che ebbero culto in Roma fin da tempo antichissimo, ebbe ed ha ancora le sue leggende, che sono assai numerose nei paesi ove in modo notevole avviene il periodico movimento dei mari o degli oceani. Nell'Alta Bretagna, quando la marea sale, dicesi che la luna costringe il mare ad avanzarsi sulle spiagge ed a ritirarsi così, per punirlo di avere invaso una regione ove si trovano le saline, le quali hanno reso salata l'acqua che prima era dolce. Nelle saghe scandinave dicesi che Thor, il dio possente del fulmine, assorbisce l'acqua, servendosi di un corno che ha la sua estremità immersa nell'Oceano, ed or la solleva, or la fa ricadere.

I Cinesi dissero invece che una principessa aveva cento figli: cinquanta presero ad abitare sulle spiagge, cinquanta sulle montagne. I loro discendenti formarono due grandi popoli, che spesso guerreggiano insieme; quando quei che dimorano sulle spiagge vincono gli abitanti della montagna e li respingono innanzi ad essi, alzasi la marea; quando sono sconfitti retrocedono ed il mare si ritira. Vogliono gl'Indiani che la marea sia cagionata dal rispetto che il mare mostra al dio Semnât.

Secondo una credenza medioevale, che durava ancora al tempo di Colombo, dicevasi che dal fondo dell'Oceano alzava il dorso immenso un mostro chiamato Kraken, del quale parlerò più a lungo in altro capitolo. Questa specie di serpente terribile sollevava enormi colonne d'acqua, ma non poteva rimanere a lungo sulla superficie del mare; la mano possente di Satana lo costringeva a ripiombare nell'abisso, ed i suoi movimenti cagionavano le maree.

Nel Nord della Germania vi è chi crede che un gigante, il quale vive nella luna, gitta acqua nel mare al momento dell'alta marea; quando interrompe il suo lavoro le acque si abbassano.13

Si credette che in certi casi la vita umana fosse anche legata ai movimenti del mare, e nell'antichità vi fu chi affermò che morivasi solo nel tempo della marea bassa. Shakespeare ricorda questa credenza quando dice che Falstaff muore mentre scende la marea, verso il mezzodì. Ancora adesso in molti paesi credesi che non si muoia quando le onde cominciano a salire. In Portogallo dicesi che si muore solo quando si abbassa il mare; credesi lo stesso in gran parte d'America ed anche in Inghilterra. A Saint Malo dicesi che se un marinaio è ammalato aspetta per morire la bassa marea.

Secondo certe leggende possono comandare agli oceani ed ai mari, non solo tante divinità di aspetto diverso, che vivono negli abissi, ma anche i maghi, i diavoli, le streghe, e certe persone credute sante. Una delle leggende più note in Algeria ricorda che il popolo d'Algeri, spaventato dall'imminenza di grave pericolo, essendo Carlo V andato colla sua flotta ad assalire la città, non sapeva in qual modo provvedere alla propria salvezza. Il santo uomo Oualli Dahdah prese a correre nelle vie, incitando gli abitanti alla difesa. Giunto sulla spiaggia entrò nel mare, e pronunziando certe misteriose parole mentre batteva l'acqua con una bacchetta, fece scoppiare una violenta tempesta, che distrusse gran parte della flotta nemica. Nella via del Divano, in Algeri, fu innalzata una moschea in onore di Oualli Dahdah, ed una lapide ricorda la data della sua morte.14

Altre leggende ci dicono che immense ricchezze sono nascoste negli abissi del mare, e questo si spiega facilmente, notando che il mare fu creduto dimora del sole, e che tanto spesso vengono ricordati i tesori in relazione con miti solari. Le ricchezze del mare vengono quasi sempre raccolte nei palazzi dei re del mare, delle mermaids, delle sirene, o sono custodite da mostri spaventevoli o da poveri naufraghi, costretti ad essere schiavi eternamente sotto le onde.

Un racconto di epica grandezza, in cui dicesi l'origine della meravigliosa ricchezza del mare, vien ripetuto, o, per dir meglio, cantato dal popolo nella Finlandia lontana; e si vuol trovare molta somiglianza fra Wäinämöinen, il quale scende a Pohjola, regno delle tenebre, per rubare il mitico Sampo, che dovrà cadere nel mare, ed Orfeo, che scende nell'Inferno per prendere Euridice.

Wäinämöinen ha costruito una nave stupenda e parte cogli amici suoi Lemminkäinen ed il fabbro Ilmarinen per andare verso le terre di Pohjola. Giunto alla meta del suo viaggio chiede alla madre di famiglia, maga possente di Pohjola, se vuol dividere con lui il misterioso Sampo, coperchio di rame, il quale, secondo la mitologia dei Finni, può dirsi il simbolo della ricchezza, della gioia, della felicità. Ella ricusa ed arma contro di lui tutto il suo popolo. L'eroe immortale prende il suo kantele e comincia a toccare con mano maestra le corde dell'istrumento. Tutti corrono per ascoltarlo: gli uomini hanno l'allegria nell'animo, le donne sorridono, gli eroi piangono, i giovanetti s'inginocchiano, poi tutti si addormentano. L'eroe finno ed i suoi compagni rubano il Sampo, lo portano sulla nave e volgono la prora verso il loro paese.

Essi sono già lungi quando Lemminkàinen prende a cantare, a mandar grida rauche, urli spaventevoli; dirige verso Pohjola, e desta tutto il popolo. La madre di famiglia si accorge che il Sampo è stato rubato, e, vinta la violenta disperazione, vedendo annientata la sua potenza, invoca il soccorso d'Untar, dicendo:

«O figlia d'Utu, vergine delle nebbie, fa scendere dall'alto dal cielo sulla immensa superficie del mare un denso vapore, affinché Wäinämöinen non possa andare innanzi. Se questo non basta, Turso,15 figlio del vecchio, esci dal mare, fa precipitare gli eroi esecrati nell'abisso, e riportami il Sampo che hanno rubato. Se anche questo non basta, Ukko, dio supremo, sovrano dominatore dell'aria, desta le grandi forze delle tempeste, scatena i venti, solleva le onde contro la nave, affinché non possa andare avanti».

La vergine delle nebbia mandò soffiando una densa nebbia sul mare e nell'aria, e per tre notti intere tenne gli eroi finni prigionieri sulle onde. Dopo la terza notte Wäinämöinen alzò la voce e disse: «Non è mai avvenuto che il più debole fra gli uomini, che il meno audace fra gli eroi sia stato vinto, distrutto dalla nebbia». Col suo brando egli colpì le acque del mare, un vapore dolce come il miele uscì dalla lama d'acciaio, si sparse nell'immensità del cielo, ed il mare riebbe la luce, apparve in tutta la sua maestà; il mondo si aprì di nuovo innanzi agli eroi.

Passò un momento, un sordo rumore risonò sulla superficie del mare e le onde si sollevarono violentemente contro la nave di Wäinämöinen, il quale si curvò verso le onde e scorse Turso, il figlio del vecchio, che sollevava dall'acqua l'orrida testa. L'eroe afferrò il mostro per le orecchie e disse: «Perché sei uscito dalla profondità del mare per metterti sulla via degli uomini, dei figli di Kaleva?».

Il mostro taceva, Wäinämöinen l'interrogò tre volte, finalmente rispose: «Sono uscito dal fondo del mare per distruggere la razza di Kaleva, prendere il Sampo e riportarlo al popolo di Pohjola, ma se mi lasci la mia povera vita non mi metterò più sulla via degli uomini». Wäinämöinen lasciò andare il miserabile e dopo quel giorno Turso non uscì più dal grembo del mare per impedire il cammino degli uomini; il sole e la luna sorsero, un giorno splendido brillò, l'aria divenne mite ed il vecchio eroe continuò la sua corsa in mezzo ai vasti golfi; ma dopo breve tempo Ukko, dio supremo, comandò ai venti di soffiare, alla tempesta di scoppiare con violenza.

Ed i venti soffiarono, la tempesta si scatenò con violenza, il fango nero salì sulla superficie del mare, e Wäinämöinen esclamò: «O Ahti, incatena tuo figlio; calma le onde, o Vellamo, affinché non balzino sulle sponde della mia nave; fuggi verso il cielo, o vento, giungi all'altezza delle nubi, torna nelle regioni dove avesti origine, non far piombare la mia nave nel fondo del mare».

La maga di Pohjola chiamò tutto il suo popolo all'armi, dispensò archi e brandi, poi allestì la sua nave da guerra; su di essa fece salire gli uomini, mise gli eroi al loro posto: cento uomini portavano il brando, mille l'arco; spiegò tutte le vele, in maniera che la nave somigliava ad una nube vagante nel cielo, e si mise in viaggio per togliere il Sampo ai Finni.

Nella Chanson de Roland, Oliviero, fido amico di Orlando, sale sopra un albero per vedere i Saraceni che si avanzano; invece nel Kalevala l'allegro Lemminkäinen, il quale è il migliore amico del poeta eterno, sale sull'albero maestro della nave, e scorge un fiocco di nebbia sull'orizzonte sereno; poi gli pare di vedere un'isola in lontananza, invece è la nave di Pohjola.

Wäinämöinen dice ai suoi compagni di remare con forza, i rami di betulla si agitano, le tavole di sorbo scricchiolano, la carena di pioppo freme, la prua vomita l'acqua come una foca, la poppa mugge come una cateratta, le onde si fanno turbinose, la schiuma si sparge; ma a dispetto degli sforzi sovrumani la nave non si muove, e non esce dalla via seguita dalla nave di Pohjola.

Spesso, nelle leggende popolari più diffuse, coloro i quali sono inseguiti dai loro nemici si gittano dietro le spalle qualche cosa che si muta in montagna, in mare, in lago. L'eroe finno gitta dietro la sua spalla sinistra un pezzetto di selce, il quale diventa uno scoglio, e contro di esso rompesi la nave di Pohjola. La maga non rinunzia alla vendetta. Con cinque falci si forma certi artigli acuminati, con metà della nave rotta si fa due ale, col timone una coda fortissima, ed essendo divenuta un uccello gigantesco, simile all'askar di certe varianti del romanzo medioevale di Alessandro, o ad altri uccelli di favolosi racconti orientali, assale la nave degli eroi finni.

Avviene un terribile combattimento fra l'uccello mostruoso e Wäinämöinen, il quale riesce a rompere i forti artigli della maga, ad eccezione di un solo, col quale essa afferra il Sampo, il bel coperchio di rame, e lo gitta fra le onde azzurre. Il Sampo si rompe, il bel coperchio va in frantumi; molti pezzi cadono nell'abisso, si spargono nelle sue profondità come sorgenti di ricchezza per l'onda, come un tesoro nascosto per i figli d'Ahti, e finché durerà questa vita, finché splenderà la luna, l'onda non mancherà di ricchezza, i figli d'Ahti di tesori nascosti.

Il mare da noi conosciuto o, secondo le varianti di certi poemi, il misterioso mare di latte degl'Indiani, può anche dare agli dei l'immortalità; siccome accadde quando fra le onde dell'Oceano, sbattuto dagli dei indiani, si formò l'amrita meravigliosa. Per ottenerla insieme con tutti i balsami e tutti i gioielli, gli dei andarono a prendere il monte Mandura per immergerlo, nel mare, e sbattere col suo mezzo le acque; ma invano si provarono a smuovere l'enorme montagna; finalmente, dietro una preghiera di Vishnou, il re dei serpenti sollevò la montagna e la trasportò con tutte le sue foreste ed i suoi abitanti sulla sponda dell'Oceano, al quale gli dei dissero: «Ora noi ti sbatteremo con questo Monte Mandura per avere da te l'amrita». L'Oceano acconsentì; la regina delle testuggini prese anche parte all'impresa, e diede la sua schiena come perno per posarvi su la montagna.

Gli eroi presero a sbattere con violenza le onde, adoperando un enorme serpente come fune per far muovere la montagna, e per lungo tempo lavorarono. La montagna riscaldata dal fregamento rotolava come una nube carica di lampi, stritolando gli abitanti nel mare, incoronata dalle sue foreste infiammate. Le colavano sui fianchi gomme, resine, metalli fusi, i quali mischiati colle essenze marine formarono gli elementi dell'amrita, ma questa non appariva. Gli dei e gli Asouri, specie di demoni che aiutavano gli dei, erano affranti e pregarono Vishnou, che infuse loro parte della sua energia. Essi ripresero a lavorare, ed allora fra la spuma delle onde apparvero successivamente i gioielli cd i tesori, che fino a quel momento erano rimasti nel fondo del mare. La luna coi candidi raggi, Lakshmi, colle vesti splendide, dea della fortuna e dell'amore, che doveva essere la sposa di Vishnou; il bianco corsiere celeste, rapido come il pensiero, Dhanvantari, il Chirone o l'Esculapio indiano, che portava in mano il vaso dell'amrita; l'elefante celeste che doveva servire di cavalcatura a Indra, il pesce Kâlakoôla, che si sparse sul mondo come un torrente di fiamme e di fuoco, e, a quanto dicesi nel Râmâjana, le Apsare o ninfe celesti, che ritroveremo sotto aspetti diversi in altro capitolo, uscirono dalle acque dell'Oceano. Il lavoro meraviglioso era compito, ed i gioielli appartenevano agli dei; ma gli Asouri o demoni si erano impossessati dell'amrita; allora Vishnou si trasformò in ninfa di bellezza meravigliosa, affascinò gli Asouri, ed avendo preso loro la preziosa bevanda, la portò agli dei, i quali bevendola divennero immortali.

Le leggende in cui dicesi del fondo del mare sono forse più numerose di quelle in cui parlasi della sua origine. Esso fu creduto, specialmente nel lontano passato e dai popoli diversi, dimora di fate e di giganti, di animali enormi che cingono la terra, di trolli, di sirene, o di misteriose divinità, possenti come il vecchio Poseidone greco. Sotto le onde capricciose sono eretti i palazzi incantati dei re e delle divinità del mare, delle mermaids e della fata Morgana ammaliatrice. Nel fondo del mare trovasi le tristi dimore dei naufraghi, le regioni dove soffrono i dannati, o godono fra la pace gli spiriti benedetti. Esso è pure il cimitero dei poveri marinai; il mondo inferiore dove scendono le anime degli eroi morti nelle burrasche o nei combattimenti navali; è anche la dimora dei perfidi demoni del mare. Questo ci prova che in molte regioni della terra gli uomini non potettero credere che nel fondo del mare vi fossero il silenzio e l'immobilità della morte, e lo popolarono con infinito numero di esseri fantastici. Ora esso non ha rivelato ancora alla scienza tutti i suoi misteri, ma quando possiamo guardare stupiti la specie di polvere vivente atta a formare le rocce ed i continenti, che una mano di ferro trae dalle profondità misteriose degli oceani, la realtà può sembrarci più meravigliosa delle leggende.

Non solo gli oceani ed i mari, le onde, la marea ed il fondo del mare ebbero ed hanno ancora le loro leggende. Anche gli scogli, le spiagge, le dune, i banchi di sabbia, le isole, i capi, i massi di ghiaccio galleggianti, i pesci, gli uccelli marini, i venti, la nebbia, le tempeste, la fosforescenza del mare, le conchiglie vengono ricordati nei racconti leggendarii; e sia che la voce del popolo dica strane favole intorno al mare, sia che la parola ispirata dei poeti ne celebri le glorie, o che la scienza vada osservando le sue meraviglie, è pur forza riconoscere che il mare, odiato dai popoli che credevano le sue tempeste esempio di malvagità, e fuggivano lungi dalle sue sponde, adorato da altri come creatore degli dei e degli uomini, amato con passione ardente da grandi poeti, ha sempre costretto e costringe l'uomo a sognare, a meditare innanzi alla sua immensità; ed ora, mentre lentamente il popolo dimentica tanti poetici racconti dei padri suoi, esso può, come le cime superbe dei monti, avere sempre facoltà di commuovere fortemente l'animo di chi, guardandolo, ascolta estatico la sua gran voce, che ricorda all'anima la potenza infinita, la forza, la gloria di Dio.





1 Specie di chitarra con cinque corde, strumento nazionale dei Finni.



2 Le Kalevala, Épopée nationale de la Finlande, traduit par Léouzon Le Due, Paris 1879.



3 Sébillot, Légendes, croyances et superstitions de la mer, vol. I, p. 78.



4 Drummond Hay, Le Maroc et ses tribus.



5 «Mélusine. Revue de Mythologie», t. II, p. 396.



6 Dorsa, La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria citeriore, p. 56.



7 Dorsa, op. cit., p. 79.



8 Cox, The Mythology of the Aryan Nations.



9 Debbo questa notizia alla gentilezza del signor L.O.



10 «Mélusine», t. II, p. 203.



11 «Mélusine», t. II, p. 203.



12 Basset, Legends and superstitions of the sea and of sailors.



13 Sébillot, op. cit., vol. I, p. 131.



14 Certeux, L'Algérie traditionnelle, Paris 1884.



15 Cattivo genio del mare.



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