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L'uomo che ha osato sfidare la furia delle tempeste, le onde fortissime, i misteri e le insidie dei mari e degli oceani, e con tenace volere, con mirabile sapienza studia le loro profondità spaventevoli, deve avere anche in queste pagine il primario sul meraviglioso popolo del mare, creato dalla sua fervida fantasia, e dirò brevemente del suo aspetto soprannaturale come eroe e re del mare, prima di andar notando altre leggende intorno agli spiriti malvagi o benefici del mare.
Nel mondo antico non mancarono audaci navigatori, che ebbero fortezza e potenza divina innanzi al popolo, e nei canti dei vati. Giasone che va alla ricerca del Vello d'oro, sulla mirabile nave Argo, che ha tanta somiglianza con certe navi leggendarie dei Normanni medioevali; Ulisse, che approda nell'isola d'Ogigia e nella terra strana dei Lotofagi; Perseo, figlio della pioggia d'oro; Teseo, detto in certe tradizioni greche figlio di Poseidone, ed altri ancora che hanno pari importanza, vengono ricordati nelle favole classiche, e le loro figure meravigliose e soprannaturali rappresentano certamente miti arii, trasformati dalla fervida fantasia greca. Ma parmi che sia un errore il cercare in essi unicamente, come in ogni eroe dei poemi indiani, greci, germanici, ed anche cavallereschi, il mito senza nulla lasciare all'uomo anelante alle vittorie ed alla gloria; senza riconoscere che esempii non molto lontani ci mostrano l'eroe reale congiunto coll'eroe mitico, e la favola unita colla storia in modo spesso indivisibile. Il re Vladimiro dell'epica russa è in parte un mito solare confuso con alcuni personaggi storici; Attila e Teodorico si mutano in eroi leggendari, e si confondono spesso con miti antichissimi; l'Orlando della semplice Chanson de Roland prende proporzioni sempre più meravigliose, ed in lui, con un po' di buona volontà, si potrebbe finire col trovare il sole innamorato dell'aurora, rappresentata da Angelica! Alessandro il Macedone giunge, specialmente nel Medioevo, a compiere imprese simili a quelle di miti antichissimi; Roma e Virgilio, pur tanto reali, assumono proporzioni favolose innanzi alle genti medioevali.
Questi ed altri esempi, parecchi dei quali si possono anche trovare in tempi più vicini a noi, debbono metterci in guardia contro l'affermazione che nella poesia e nelle leggende antiche dei popoli non si trovi altro che il mito; e che i vati divini, nelle sale dei banchetti, nei riposi dopo le battaglie, nelle feste pubbliche o sulle navi degli audaci guerrieri, che andavano in cerca di preda o di nuovi regni, non abbiano cantato altro che nuove trasformazioni, avventure, lotte e vittorie della nebbia e del sole, dell'aurora e delle tenebre, delle nubi luminose vaganti sull'azzurro del cielo, o delle tempeste paurose. Certamente i ricordi delle poetiche favole, le quali davano aspetto meraviglioso ai miti creati dagli avi, si affollavano nelle loro menti; le antiche parvenze arie delle forze della natura, le quali avevano già acquistato nel volgere dei secoli tanti elementi che si potevano dire spirituali, allettavano l'animo loro, e non pareva che dovesse bastare agli eroi terreni lo splendore della virtù, della gloria, del valore, nei limiti che possiamo dire umani. Alle fantasie concitate si presentavano spontanee le poetiche immagini stupende, ed il mito si confondeva coll'uomo, il quale prendeva aspetto divino.
Questi elementi diversi mitici ed umani uniti insieme strettamente intorno ad antichi eroi del mare appartenenti al mondo classico, danno grande importanza alle loro figure; ma le favole nelle quali essi appaiono con aspetto meraviglioso sono troppo note, ed invece di ricordare le loro gesta, noterò quelle di altri eroi del mare, divenuti anch'essi personaggi leggendarii, e che furono antenati, compagni, alleati o nemici di quei Normanni, che tennero signoria sulle nostre terre, e ci lasciarono tanti ricordi della loro audacia e del loro valore.
Prima ancora di parlare dei canti epici che celebrarono la loro gloria, è forza riconoscere che potevano coll'aspetto e coll'indomabile coraggio dare argomento al canto dei poeti, ed acquistare quella grandezza eroica e leggendaria, che hanno in parte della poesia medioevale europea.
Nei tempi oscuri del Medioevo audaci pirati, compagni o successori dei Sassoni nel compiere pericolose imprese, partivano dalla Danimarca, dalla Svezia meridionale, dalla Norvegia e dall'Islanda, dove si conservava ancora il culto delle antiche divinità nordiche, e col desiderio di acquistare gloria imperitura, ricchezze e fertili terre, andavano verso la meta prescelta. La loro perizia nel guidar le proprie navi era tale che si compiacevano nel pericolo, e rimanevano impavidi fra la violenza delle tempeste; imparando in mezzo alle minacce di morte, nella lotta contro il mare, a non temere l'incontro coi nemici, ed il fragor delle armi nelle battaglie.
Intorno alle loro energiche figure durò a lungo il mistero per molta parte delle genti europee, o furono da queste conosciuti solo sotto tristissimo aspetto, per mezzo dei racconti che andarono tessendo i popolari atterriti dalle loro audaci scorrerie, dalle rapide invasioni, dalle rapine frequenti; ma a poco a poco, e specialmente in questo secolo in cui si sono pur compite grandi cose, e l'uomo è andato con tanto amore e tanta dottrina ricercando la storia dei padri suoi, assumono figura non molto dissimile da quelle degli antichi eroi del mare Fenicii e Greci, i predatori, i pirati, i re del mare medioevali; e non solo nella forma grandiosa dell'epica nordica ritrovansi frammenti della loro storia; ma questa ricercasi nei tumuli che furono per lungo tempo trascurati, fra gli avanzi delle loro armi, nei caratteri bizzarri che incisero coi pugnali sulle rocce dell'Islanda, e della Scandinavia; negli avanzi degli abiti suntuosi trovati vicino ai nudi teschi, nei disegni delle antiche navi.
Così sappiamo che i Vikings o re del mare, pagani e pirati medioevali, erano venuti ad una civiltà non inferiore per molti rispetti a quella di parecchi popoli cristiani dell'Occidente, quando partivano per percorrere l'Oceano ed il Baltico, come re del mare, come padroni delle isole e di tutte le coste dell'Europa occidentale.
I Vikings avevano navi fortissime e diversi ordini di rematori, assai dissimili da quelle barche di cuoio usate dai vecchi pirati, e dalle lunghe navi che Carlomagno guardò meravigliato ed anche impaurito. Esse potevano contenere circa duecento uomini di equipaggio; erano lunghe ed alte sui fianchi, ricurve a poppa, e spesso avevano una prora doppia di forma bizzarra. I loro fianchi lavorati con arte erano quasi sempre vermigli come le «Dodici navi di vermiglio pinte» che seguivano Ulisse,16 e splendevano per le dorature a prua ed a poppa; le vele erano formate da fasce che si alternavano, di color turchino, rosso e verde; altri ornamenti che le rendevano più belle erano in metallo, e credesi che fossero lavorati in Inghilterra.17 Sulla nave dove stava il capo di una flotta nelle audaci spedizioni, scioglievansi le vele di seta riccamente lavorate, spiegavansi le pelli di martore, d'orsi e di zibellini, ed i Vikings, divenuti re sul mare per merito del proprio valore, andavano in cerca di nuova preda, di nuova gloria, abbaglianti collo splendore delle vesti, dell'oro, dei gioielli, in mezzo ai loro guerrieri pronti a vincere o a morire.
Audaci sempre non cercavano solo la preda sulle spiagge vicine dell'Atlantico, ma si spingevano fin dove loro avveniva di poter volgere le navi; ed in mezzo ad essi non mancavano gli esperti cantori, i vati divini, i quali sapevano prima della pugna infondere nuovo coraggio nell'animo dei compagni; al pari dei poeti che in altre terre ripetevano la stupenda Chanson de Roland; ed anche nel riposo dopo il trionfo, nel tripudio fra i conviti, vicino alle soglie dei vinti, dicevano le glorie dei fratelli caduti innanzi ai nemici, o dei capi audaci che avevan saputo guidarli alla vittoria.
Il poeta danese Ewald, amico e discepolo di Klopstock, nella sua stupenda poesia scritta in onore del glorioso Cristiano IV disse: «Il re Cristiano, ritto vicino all'albero maestro, sta in mezzo al turbine ed al fumo; maneggia la spada con tanta forza che spezza gli elmi e le teste. Le armi dei Goti e gli alberi delle loro navi cadono nel turbine e nel fumo. Fuggiamo, gridano i Goti, nessuno di noi può lottare contro il re Cristiano».
Invece i vecchi poeti pagani ci mostrano nell'Hervarar Saga con aspetto più grandioso i Vikings. Hanno al pari di certe divinità indiane otto mani e maneggiano otto spade; le loro navi sole e la terra possono portarli; sono così pesanti che un cavallo non reggerebbe sotto di loro; e non basta che le loro figure siano maestose e bellissime, è forza che intorno ad essi e per essi operi e si agiti il popolo mitologico e fantastico del Nord. I trolli della Scandinavia hanno fabbricato gli scudi che difendono i loro petti; e le spade che impugnano, meravigliose al pari di quelle degli eroi della Russia e dei cavalieri dei poemi cavallereschi, non si spezzano nell'urto colle spade nemiche.
Quando ripetono i versi magici chiamati runi hanno anche la facoltà di domare gli dei che governano i venti e le onde. Dicesi in una saga: «Tu devi conoscere i runi del mare, – se vuoi veder salvo – il tuo galleggiante corsiero: – sulla prora debbono essere incisi – e sul timone. E col fuoco applicati sui remi; – e non vi sarà tempo così scuro – o onda così nera, – che ti tolga di essere salvo sull'Oceano».
L'antica Edda dice di quei runi: «Io conosco un canto il quale ha tanta virtù che se vien ripetuto nella burrasca può domare i venti, e rendere l'acqua perfettamente calma». Ciò non impediva ai Vikings di offrire alle divinità dell'Oceano orrendi sacrifizii umani per rendersi propizio il mare prima di partire per qualche grande spedizione, o quando si varavano le navi; ed i navigatori greci non erano stati in tempi lontani meno crudeli; ce lo provano i tristi casi d'Ifigenia ed il racconto che Virgilio mette sulle labbra del bugiardo Sinone. Anche i Cartaginesi dettero, a quanto pare, secondo Valerio Massimo, molte vittime al mare, mettendo come cilindri, sotto le loro navi, i soldati romani presi in un combattimento navale. Nell'Edda parlasi di un hlunn rod o roller reddening (che rende rossi i cilindri), e questo ha relazione coi sacrifizii umani fatti al mare dai Vikings.
Essi legavano le vittime ai cilindri, i quali sostenevano le navi da guerra, che dovevano essere varate, e queste, prima di scendere nelle onde, si tingevano col sangue umano. Forse nel costume che si ebbe in tempi non lontani di servirsi di un condannato a morte per togliere gli ultimi sostegni di qualche bastimento che si varava, si può trovare una reminiscenza degli antichi sacrifizii umani fatti per aver propizio il mare.
Facevano anche questi sacrifizii i Vikings quando infuriavano le burrasche, poiché raccontasi che il Viking Vikarr si trovava colla sua flotta in mezzo ad una tempesta, quando per sapere quale fosse la vittima domandata dal mare si tirò un nome a sorte. Quello di Vikarr venne fuori dell'urna. Egli cercò di salvarsi, facendosi appiccare in effigie, ma Odino non si lasciò ingannare, ed il Viking fu veramente appiccato dai suoi.
Per un caso strano i Vikings temevano il sorriso delle fanciulle. Credendosi padroni del mondo non volevano forse aver l'anima legata dall'amore alle loro terre natie? In ogni modo, a quanto narrano le saghe, i pirati dovevano diffidare delle guance rosee, credere che nelle trecce bionde fossero tremende insidie e temere le donne, anche se fossero belle come la dea Freya. Essi non si ribellavano contro questi avvertimenti crudeli, ed i famosi Vikings di Jamsburg, uniti in una società di piraterie, forte di 10.000 uomini, che possedevano ancora 150 vascelli, quando la pirateria non era più esercitata da tutti i guerrieri scandinavi, erano celibi e nessuna donna poteva entrare nella loro fortezza.
Forse per questo motivo Solovei re del mare, Viking celebrato nell'epica russa, rispose aspramente alla bella Zabava che gli offriva la sua mano; ma ciò non toglieva che al finir del tristissimo inverno nordico, quando partivano le spedizioni dei re del mare, le fanciulle dell'Islanda sapessero incitarli alla pugna coll'armonia del canto, e che l'amore colla sua forza vincesse anche i cuori dei Vikings.
Così nella stupenda Saga di Nial il prode re del mare Gunnar, tornato in Islanda, narra alla bellissima donna chiamata Algerda le sue imprese, i lontani viaggi, le vittorie frequenti, e le vince il cuore, togliendola per sua sposa; così un re del mare, ricordato in altra saga, ferito a morte in mezzo ai nemici, togliesi dal dito un anello che affida ad un guerriero della sua terra, come ultimo dono per la sua fidanzata, che nel riceverlo cade a terra come fulminata e muore, al pari della bella Alda, fidanzata di Orlando.
Se è negato generalmente ai Vikings l'affetto delle bionde fanciulle del Nord non manca loro l'amore delle Valkirie che scendono sulla terra, come ci narra l'Edda scandinava, per farsi spose dei forti guerrieri, che avranno vicino al dio Odino l'eternità della gloria; non mancano loro neppure i sorrisi delle belle divinità che si affollano intorno alle loro navi, quando passano come sovrani sui mari del Nord. Quei falchi dell'Islanda e della Scandinavia sono anche protetti dal fortissimo Odino, e l'ira di questo dio contro la bella Valkiria, che prende nome di Brunhilde nella redazione germanica dei Nibelunghi, la condanna al sonno profondo dal quale desterà l'eroe Sigurd, solo perché ha ucciso in battaglia un eroe a lui caro.
Non solo nell'Edda ed in molte saghe islandesi trovansi figure soprannaturali di Vikings, le quali hanno spesso una stretta relazione colle mitiche figure di eroi orientali appartenenti a tempi lontanissimi; esse hanno pure splendida parvenza nelle biline o canti epici della Russia, ricordandoci gli audaci capi Varegni, i quali nel IX secolo andarono dalla Scandinavia a regnare sulle tribù slave, o furono avventurieri in cerca di fortuna alla corte di re Vladimiro. In certi epici canti ritrovansi i loro tipi audaci nei guerrieri Volga e Soloveï ed in Tchourilo.
Di Tchourilo cacciatore, specie di Don Giovanni, ammesso alla tavola di Vladimiro, insieme coi grandi eroi della Russia, che hanno tanta importanza nel ciclo di Kiev, non dobbiamo curarci, essendo una delle sue maggiori imprese quella di affascinare le donne, siccome usava pure il figlio di Lempi nell'epica dei Finni; hanno invece alto posto fra gli eroi del mare gli scandinavi Volga e Soloveï.
Volga, uno degli eroi che acquistano molta rinomanza, prima che si formi il grande ciclo epico di Vladimiro, ed in cui, oltre al ricordo di una misteriosa divinità, vuolsi ritrovare anche un re del mare, ha somma importanza nelle canzoni epiche della Russia. Al pari dell'Alessandro Magno di certe leggende medioevali, Volga è figlio di un drago e di una donna. Quando nacque, l'umida terra tremò, il mare azzurro si sconvolse, i pesci discesero negli abissi; a dodici anni raccolse una valorosa droujina (eroica masnada) e cominciò a percorrere la terra slava.
Non è necessario narrare qui a lungo le sue imprese; ci basti sapere quanto in lui ricordi ancora, fra mille veli, il re del mare. Volga può trasformarsi a suo talento, ed avendo un giorno comandato ai suoi di tendere le reti sulla terra, prende aspetto di falco e cacciasi innanzi una quantità di uccelli, che vanno ad impigliarsi nelle reti; poi mutandosi in pesce scende negli abissi del mare, donde fa salire una quantità sterminata di pesci che vengono presi dai suoi compagni.
A causa della confusione inevitabile che ritrovasi nella storia bizzarra di tanti eroi leggendari, questo Volga, che può cambiare aspetto al pari del Vishnou indiano, del Proteo dell'Odissea e del Loki scandinavo, ci ricorda anche la storica figura di Oleg, il quale fece realmente nel 907 contro Costantinopoli una spedizione, che viene anche dalla leggenda epica attribuita a Volga. Questa trasformazione di Oleg, vero re del mare, in personaggio leggendario non avviene solo nelle biline russe, ma anche nella cronaca di Nestore, come se intorno al capo Varegno si fosse formato tutto un ciclo epico, del quale si ritrovino solo a stento brani sparsi, come avviene per l'epica intorno ai Merovingi, rintracciata con tanto valore dal nostro Raina.18
Narra dunque Nestore che per andare all'assalto di Costantinopoli, il re del mare Oleg, il Volga delle leggende, fece mettere le ruote alle sue navi e spiegar le vele, navigando sulle pianure della Tracia. Sempre tenendo la via di terra giunse alle porte di Costantinopoli. I perfidi Greci offrirono ad Oleg ed ai suoi vivande avvelenate, ma il forte guerriero, che aveva saputo vincere colle sue navi anche la terra, e condurle sopra qualsiasi via alla vittoria, scoprì l'inganno, e sospese il suo scudo sulla Porta d'oro.19
Qualche scrittore vuole che il Soloveï delle leggende epiche russe sia venuto a Venezia; ma pare che meglio si ritrovi in lui un audace capo Varegno, e i dotti della Russia credono che la descrizione della sua nave – Il Falcone – ci debba ricordare le navi usate dagli uomini del Nord, delle quali già tenni parola e che si trovano disegnate nei tumuli, sulle rocce e sugli ornamenti degli antichi Scandinavi, o sepolte nelle torbiere.
Queste navi avevano spesso forma di serpi; la prua formava la testa del mostro, la poppa la coda, ed oltre al nome comune di draghi o di colubri da guerra, ciascuna di esse ne aveva uno speciale, chiamandosi bisonte, orso, corvo, cavallo marino. Così pure avvenne spesso per le nostre triremi, che tolsero il nome da mostri di cui portavano
...scolpiti i capi orrendi
Come quei legni fur che dal Sigeo
Il pietoso Trojan piangendo sciolse.20
Devesi pure notare che le leggi degli Islandesi ricordate nella Saga di Nial, proibivano ai navigatori o pirati di lasciare attaccate alla prua delle loro navi, quanto tornavano in patria, le orribili teste d'animali di cui facevan mostra in guerra, perché avrebbero potuto spaventare i genii tutelari dell'isola.21 In ogni modo il vascello di Soloveï ricordato nell'epica russa, alzavasi alteramente sulle onde. La poppa raffigurava il muso di una bestia feroce, i suoi fianchi erano vermigli, aveva àncore di acciaio di Siberia, vele di damasco, alberi d'oro. La cabina del re del mare Soloveï era tappezzata di stoffa verde ad arabeschi, il tavolato coperto di velluto nero; sulle sponde erano distese pelli di zibellini, di volpi azzurre e di martore.
In una variante dei canti epici dicesi che il Vascello Falcone aveva aspetto soprannaturale; a far le veci d'occhi il gran falco del mare aveva zaffiri ed altre pietre preziose, al posto delle sopracciglia pelli di neri zibellini di Siberia. Formavano i baffi di quel falco strano due lucidi pugnali d'acciaio; al posto delle orecchie portava due lance tartare, a cui erano sospese pelli di ermellini; la sua criniera era fatta con pelli di volpi, ed il Vascello Falcone aveva per coda due pelli d'orsi, d'orsi del mare22.
Benché Soloveï re del Falcone e del mare non fugga da qualche distrutta città, si direbbe che porti seco al pari di Enea la patria, poiché naviga colle sue ricchezze, colla vecchia madre e con tutta la sua famiglia. Fra le navi dei Vikings eranvi quelle adatte per percorrere i fiumi, e par che di questo genere sia il Vascello Falcone, poiché su di esso Soloveï, seguìto dalla sua flotta, risale il corso del Dnieper, e gitta l'àncora sotto le mura di Kiev. Egli manda ricchi doni al possente re Vladimiro, che per tanti rispetti rassomiglia al leggendario re Artù delle leggende bretoni, e ottiene licenza di scendere coi suoi compagni per mettere il suo accampamento nei giardini reali.
Gli eroi del Nord, i figli dell'Islanda, della Danimarca, della Scandinavia, belli come divinità gloriose, e forti come il mare, hanno fama che vola in ogni parte di Europa, e Zabava, nipote di re Vladimiro, si commuove nel sapere che Soloveï sta a poca distanza dal palazzo ove essa dimora. Ascolta stupita la descrizione delle meraviglie che sono raccolte nei suoi padiglioni di legno, e dice alla sua nutrice ed alle ancelle di andarle a vedere; poi non regge alla tentazione che prova e vuole andare anch'essa.
«Ascolta vicino alla prima tenda, in questa tenda tutto è silenzioso, vi sta il tesoro di Soloveï. Ascolta vicino alla seconda e ode un mormorio, parlasi sottovoce, la madre di Soloveï prega. Ascolta vicino alla terza tenda, in questa tenda si suona. Essa entra nel vestibolo fatto con pali, fa girare la porta sopra i suoi cardini, sentesi compresa di terrore, pare che la terra le manchi sotto i piedi, quel padiglione è meraviglioso. Il sole splende nel cielo, ma si ritrova pure in quel sito, l'aurora vi risplende siccome usa nel cielo, con tutte le magnificenze che stanno sotto il cielo».
Nelle terre del Nord, dall'Islanda alla Finlandia, sanno anche i forti guerrieri esser poeti famosi, vati divini; coll'armonia della voce, colla maestria nel suonare istrumenti diversi hanno la potenza d'affascinare il cielo, la terra, il mare ed ogni cuore umano. Soloveï ripete nella sua tenda la canzone della gloria o quella dell'amore: e la sua voce commuove in modo insolito, profondo il cuore della bella Zabava, che pure essendo nipote di re Vladimiro, osa offrire la propria mano al Viking audace, al re del mare; ma costui le dice: « Senti, giovane principessa, ogni cosa in te m'invoglia ad amarti, ma sono dolente che tu, fanciulla, ti offra a me come sposa».
Zabava nell'udir quelle parole arrossisce in volto e fugge. In certe varianti dei canti epici la scena strana avviene mentre Soloveï siede vicino al re Vladimiro; e suona e canta ammaliando Zabava colla dolcezza di quella musica divina; o narrasi che voglia sposare la fanciulla, ma la sua vecchia madre Anulfa si oppone alle nozze, e vuol che ritorni sul mare azzurro; dopo altre spedizioni tornerà e sposerà Zabava. Altre canzoni finiscono col dire che la fanciulla russa innamorata ed il re del mare si sposano.
Vassili ci appare come eroe leggendario del mare nel ciclo epico russo di Novgorod, nel quale ha parte importante. Molte sono state le audaci imprese da lui compite, molti nemici egli ha vinti ed ha saccheggiato molte terre, ma non adora le vecchie divinità slave, ed essendo invecchiato si pente del male che ha commesso.
Già altri pellegrini russi sono andati a Gerusalemme, precedendo forse le schiere valorose dei pellegrini di Occidente, e Vassili vuole compiere anch'egli il lungo viaggio, per implorare la misericordia divina e salvarsi l'anima. Monta sopra una nave, con trenta compagni, riceve la benedizione della vecchia madre, attraversa quel lago Ilmen che viene con frequenza ricordato nell'epica russa, e va cercando la via per Gerusalemme. Egli sa che trovansi sul Caspio feroci pirati cosacchi, che derubano i naviganti; ma non è avvezzo a temer cosa alcuna e passerà egualmente. I cosacchi sono atterriti nel sapere che Vassili si avvicina, ed egli non trova nemici sulla sua via. Da molti anni stanno coi loro capi sull'isoletta del Caspio, e non hanno mai provato un terrore invincibile; può cagionarlo solo la vicinanza di Vassili, che viene con volo audace, pari a quello del falco. L'Eroe di Novgorod riceve doni dai pirati e va per la sua via.23
Le navi degli eroi leggendarii del mare non hanno solo, come il Vascello Falcone di Soloveï, aspetto bellissimo e soprannaturale, hanno anche intelligenza, come la gran nave Argo, alla quale Minerva aveva dato la facoltà di parlare, e come «la nave d'intelletto piena» dei Feaci, che doveva portare Ulisse nella patria diletta; ma par che abbiano mestieri della mano dell'uomo, che le guidi fra le tempeste e le battaglie. Invece i legni
Della Feacia di nocchier mestieri
Non han né di timon; mente hanno, e tutti
Sanno i disegni di chi stavvi sopra:
Conoscon le cittadi e i pingui campi,
E senza tema di ruina o storpio,
Rapidissimi varcano, e di folta
Nebbia coverti, le marine spume.
Troviamo pure una nave leggendaria degli eroi del mare, intelligente e bella, nell'epica dei Finni. Wäinämöinen ed il fabbro Ilmarinen stavano sulla sponda del mare, quando sentirono una voce straziante che veniva dalla spiaggia, dove erano legate certe navi. Il poeta eterno credette che fosse una fanciulla che piangesse, una colomba che si lamentasse, invece non era né una fanciulla, né una colomba; era una nave che piangeva e si lamentava. Wäinämöinen si avvicinò alla nave e le chiese: «Perché piangi, o barca di legno, perché ti lamenti, o nave riccamente armata di remi? Forse perché sei pesante e rozzamente costruita?».
La barca di legno, la nave riccamente armata di remi rispose: «Al pari della fanciulla che desidera la casa di uno sposo, anche quando abita ancora nella casa paterna, la nave desidera navigare sull'onda, anche quando non è altro che un pino della foresta. Piango, mi lamento aspettando colui che mi lancerà nel mare, che mi condurrà in mezzo alle onde spumeggianti.
«Quando fui costruita, quando ero ancora nel cantiere, mi dissero che sarei stata una nave da guerra, che mi avrebbero armato per le battaglie; mi avevano promesso di caricarmi con un ricco e glorioso bottino, e finora non sono stata ancora condotta in guerra.
«Altre navi, altri battelli della peggiore specie si trovano di continuo in mezzo alle mischie sanguinose, ai giuochi selvaggi delle spade, ed io che ho la chiglia fatta con cento tavole, io che sono stata costruita per il combattimento, sono dimenticata, marcisco nel cantiere! I vermi più schifosi della terra mi rodono, gli uccelli più orridi dell'aria fabbricano i nidi nella mia alberatura, i rospi dei boschi si nascondono nella mia prora. Ah! sarebbe per me mille volte più glorioso, ergermi ancora come un pino sulla collina, come un larice nella landa: lo scoiattolo salterebbe sui miei rami, il cane abbaierebbe presso le mie radici».
L'eroe confortò la nave, e chiese se le fosse possibile di scendere nel mare senza l'aiuto dell'uomo, e di vogare senza che si usassero i remi.
La nave rispose che gli uomini dovevano spingerla nel mare e darle il movimento colla forza dei remi; allora il poeta divino lasciò il suo cavallo nel bosco, e usando la forza magica del canto spinse la nave nell'acqua; poi evocò una schiera di fidanzati, colle forti mani e coi capelli arruffati; una schiera di fidanzate, graziose fanciulle che avevano le dita ornate di anelli, e portavano le cinture di rame e le fibule di stagno; fece apparire sui banchi una schiera di vecchi e sedette al timone, dicendo alla nave di camminare. Ma il suo comando fu inutile, ed anche riuscirono inutili gli sforzi dei rematori, perché la nave non si mosse; ma quando il fabbro Ilmarinen sedette sulla pancia dei rematori, la nave si mosse subito, scivolò sulle onde, e da lontano si sentì il rumore dei remi che battevano contro la chiglia.
Ilmarinen remò con maggior forza; le panche della nave scricchiolarono, le sue curve fremettero, i remi presero a stridere; con mano ferma, Wäinämöinen teneva il timone, e con abilità meravigliosa dirigeva fra le onde la corsa della nave. Dopo breve tempo un promontorio apparve in lontananza, un miserabile villaggio si mostrò all'orizzonte. Ivi dimorava Ahti, dio del mare, gemendo sul suo triste destino, e lavorando ad una nave nel misero villaggio. Guardò e vide apparire in lontananza un fiocco di nebbia.
Non era un fiocco di nebbia, era una piccola nave che si avanzava sulle onde del mare; un eroe maestoso sedeva presso il timone, un superbo guerriero dirigeva la manovra. L'allegro Ahti disse: «Non conosco quella nave, non so che vascello sia questo, che giunge per forza di remi dalle regioni di Suomi». Il giovane eroe alzò la voce, gittò un grido possente, dall'alto del promontorio, e chiese, dominando le onde: «A chi appartiene quella nave?».
Wäinämöinen rispose: «Andiamo direttamente verso il Nord, verso la regione delle grandi onde, dei flutti spumeggianti...».
L'allegro dio del mare disse: «O vecchio Wäinämöinen, prendimi con te». L'eroe finno l'accolse sulla forte nave, ed insieme andarono alla ricerca del misterioso Sampo, che doveva, più tardi, rompendosi, spargere, come già notai, i suoi inesauribili tesori del mare.
Anche Odino, come il dio finno del mare, Ahti, accompagnava qualche volta gli eroi nelle pericolose spedizioni; e leggesi nella saga di Volsung, che Sigurd partì sopra un gran drago per assalire i figli di Hunding. Scoppia una tempesta ed i marinai vogliono ammainare le vele; Sigurd comanda invece che nessuno prenda ad abbassarle, neppure se le lacera il vento, e vuole vederle più in alto ancora. Quando passano in vicinanza di una punta rocciosa, un uomo che si trova su di essa domanda gridando chi è il comandante della flotta che passa. Gli rispondono che è Sigurd, il più valoroso fra tutti i giovani; lo sconosciuto chiede di essere preso a bordo, Sigurd acconsente; appena egli mette il piede sulla nave cessa la tempesta. Quell'uomo è Odino.
Di altre navi che parlano, appartenenti agli eroi del mare, dicesi pure nell'epica nordica; fra queste è famosa la nave Ellide, ricordata nella saga di Fridthjof; essa avea forma di drago colla testa d'oro; i suoi fianchi erano azzurri, orlati d'oro ed avea la coda d'argento. Le sue tavole erano state per forza di magia connesse insieme, ed erano forse di frassino; legno consacrato a Rari, l'Anfitrite del Nord. Portava le vele nere orlate di rosso e correva rapidamente sul mare aprendo le ale fortissime. Fridthjof navigava su di essa verso il Nord, quando fu assalito da due spiriti malefici, e si raccomandò alla sua forza, dicendo: «Rispondi alla mia voce, – se sei figlia del cielo, – che la tua chiglia di rame – schiacci quelle magiche balene».
Ellide ode la voce del suo signore ed ubbidisce subito poiché, balzando sul petto dei mostri, li ferisce profondamente.
Di altre navi intelligenti si parla spesso nelle pie leggende. San Marco giunge a Marsiglia in una nave che si governa da sé. Il corpo di San Giacomo di Compostella naviga in una barca strana; in una leggenda intorno alla fondazione dell'abbazia di Westminster dicesi che San Pietro, per attraversare il Tamigi, si servì di una barca, la quale si mosse dolcemente, e andò innanzi senz'aiuto di remi.
Secondo la saga di Floamana due navi parlano e predicono l'avvenire, ed in una leggenda islandese più recente, anche due navi discorrono insieme. Si conoscono da molti anni, hanno navigato a lungo, l'una accanto all'altra e par che molta amicizia le unisca. Una di esse dà l'ultimo addio alla sua compagna, dicendo che fra breve non la rivedrà più; il tempo si farà pessimo, nessuno vorrà andare in alto mare, ad eccezione del suo capitano, che la costringerà a partire, ed essa sarà perduta.
La nave alla quale vien fatta questa triste predizione afferma che non si muoverà, non vuole lasciare la sua compagna e andar perduta sull'immenso oceano; ma giunge il suo capitano, il quale vuol partire a dispetto del pessimo tempo; la ciurma si ribella, egli ne assolda un'altra; la nave non si muove, e par che non vi sia forza umana che possa vincere la sua resistenza; allora il capitano chiama in suo aiuto il diavolo, la nave slanciasi per forza in mezzo alla burrasca e si perde.
Anche nei poemi cavallereschi non mancano le navi intelligenti, e ne troviamo, fra gli altri ricordi, anche uno nell'Orlando innamorato, quando Malagise per mantenere la promessa fatta ad Angelica di condurre Rinaldo presso di lei, lo fa salire con arte sopra una nave, la quale va per sette miglia innanzi sul mare senza che Rinaldo se ne avveda, mentre insegue il diavolo che va in fumo e
Sopra il naviglio più non v'è persona,
La vela è piena, ha le sarte tirate,
Cammina ad alto e la terra abbandona.
Ranaldo sta soletto sopra il legno,
Oh quanto si lamenta il baron degno!
Ed ha ragione di dolersi, poiché questa sua fuga involontaria gli è causa di disonore, lasciando egli a terra fra mille pericoli la gente che gli è stata affidata dal suo Signore; ma non può mettere riparo alla sua sventura, poiché
La Nave tutta fiata via cammina
E fuor del stretto è già trecento miglia,
Non va il delfino per l'onda marina
Quanto va questo legno a meraviglia.
A man sinistra la prora s'inchina,
Volta ha la poppa al vento di Sibiglia,
Né così stette molto, e in un istante
Tutta si volta incontro di levante.
Un altro eroe del mare, il quale non prende aspetto meraviglioso nei canti epici del Medioevo, ma invece vien ricordato in un semplice racconto degli Eschimesi, che hanno la parola triste e monotona come il loro cielo, si chiama Kagsaguk, e la sua fama dura ancora adesso nella Groenlandia, dove, in parecchie regioni v'ha chi mena vanto di possedere le rovine della sua casa.
Egli era un povero orfanello e viveva in mezzo a gente crudelissima, che trovava diletto nel maltrattarlo e lo scherniva di continuo, gittandogli anche per cibo quanto eravi di peggio. I ragazzi si dilettavano nel coprirlo di neve, le fanciulle gli gittavano fango addosso; dormiva coi cani, non essendo mai stato ammesso nella stanza della famiglia, e fra tanti patimenti non poteva crescere.
Spesso andava fra le montagne e diceva: «Dio della forza, dio della forza aiutami». Un giorno un animale mostruoso gli apparve, l'afferrò e scotendolo forte fece cadere dal suo corpo certe ossa di vitelli marini, che gli toglievano la forza, e volle che ogni giorno andasse a visitarlo.
Il fanciullo cresceva e diveniva sempre più forte dopo l'incontro col mostro; rompeva le rocce colle mani, ma non mostrava ad alcuno il cambiamento che avveniva in lui; sopportava con pazienza gl'insulti e taceva, benché fosse sempre maltrattato.
Tornò l'inverno ed ebbe fine la pesca, essendo gelato il mare. Quando i giorni incominciarono ad allungarsi, gli uomini vennero correndo verso le capanne per dire che tre orsi si avvicinavano sopra un masso galleggiante di ghiaccio, e nessuno osava uscire fuori per andare ad assalirli. Kagsaguk disse ad una donna: «prestami i tuoi stivaloni, affinché io possa uscire e vedere gli orsi». Ella non fu contenta di quella domanda, ma gli prestò gli stivali, dicendo per deriderlo: «portami al tuo ritorno una pelle per farmi un letto, un'altra per farmi una coperta».
Egli mise gli stivaloni, si strinse intorno al corpo i cenci che lo coprivano, ed uscì andando verso gli orsi. Quei che stavan fuori gridavano: «non è costui Kagsaguk? dov'è diretto? dategli addosso».
Le fanciulle dissero: «ha smarrito i sensi»; ma egli correva in mezzo alla folla, e la neve che gli cadeva intorno splendeva coi colori dell'iride; balzò sul masso di ghiaccio, afferrò il primo orso che gli venne innanzi e lo sbatté violentemente contro il ghiaccio, staccandogli le zampe dal corpo, poi lo gittò sulla spiaggia in mezzo agli astanti e disse: «prendetelo, questa è la mia prima preda ». La gente esclamò: «certamente un altro orso l'ucciderà»; ma il giovane uccise nello stesso modo il secondo, ed afferrò il terzo che gittò in mezzo alla folla atterrita, la quale prese a fuggire.
Dopo breve tempo il giovane tornò a casa, e gittando alla donna, che gli aveva prestato gli stivaloni, le pelli di due orsi, disse: «prendetene una per farne un letto, un'altra per farne una coperta».
La gente cominciò subito ad usare cortesie all'eroe; ma egli era sempre taciturno, e continuò a sedere vicino ai cani. Tutti lo lodavano, gli portavano doni, eppure nulla poteva fargli dimenticare lo strazio sofferto, e si vendicò crudelmente, uccidendo tutti gli abitanti della casa ove dimorava; ebbe solo compassione dei poveri che gli si erano sempre mostrati cortesi.
Dopo questa vittoria il fortissimo giovane cominciò a servirsi della barche rimaste senza padrone, e non si allontanava dalla spiaggia; dopo breve tempo andò verso l'alto mare e dal nord al sud passò col suo kayak.24 Per orgoglio volle dare in tutto il paese prova della sua forza, e ancora adesso è ricordato lungo le coste. In molti luoghi mostransi le memorie delle sue grandi imprese, e per questo motivo si suppone che la sua storia sia vera.25