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Non ho mai scritto direttamente di impressioni totali di vita. Il mio metodo di lavoro in questo tentativo è perciò rudimentale. Ho la certezza di cose importanti da rilevare. Non ho un'idea della disposizione delle parti. Perciò mi affido al racconto con la fretta di sapere come me la caverò nel metter insieme piú cose che sarà possibile. Appena avrò visto la materia del mio primo getto non dubito che saprò scriverla; per ora si tratta solo di provare le mie capacità di ricordo.
La vista del ginnasio a chi venisse da via del Palazzo restava coperta fino a che non ci si era giunti: un gigantesco palazzo con torri chiudeva la strada e gli dava il nome. Al ginnasio – di costruzione recente, bianco, umile, uguale ad ogni altra casa, col solo contrassegno di uno stemma e di un'asta, con due alberi piú alti dell'ultimo piano, piantati nella palestra stretta e povera – si arrivava girando intorno al Palazzo da destra o da sinistra. Tra il Palazzo e il ginnasio restava un grosso tratto di piazza, un ideale campo di battaglia per scolari umanisti in erba cui i ruderi romani presenti evocavano tradizioni eroiche, svogliatamente apprese dal maestro di storia. Un ricordo piccante e superbo, sebbene per l'audacia epica di un fanciullo anche un paesaggio francescano possa risvegliare istinti di lotta con ingenuo impeto.
L'uscita di uno stuolo di ragazzi da una scuola di studi secondari è un tema classico nella letteratura dei maestri e dei padri di famiglia. De Amicis ne ha lasciato un modello con tutti i particolari. A voler seguire con fedeltà gli esempi classici, ogni descrizione dovrebbe finire con dolci considerazioni sentimentali: c'è della mestizia nascosta nella loquace festosità, la vista dei fanciulli fa pensare anche gli ottimisti alla malvagità dei grandi.
Noi non ci sentiamo di toccare corde cosí profonde né di levare le nostre considerazioni tanto in alto al disopra nel mondo metafisico dei sentimenti propri non piú di un uomo, ma dell'umanità. Il lettore resti avvertito che tutte le volte nei momenti piú topici noi gli mancheremo tragicamente quando egli ci chiederà una scena di pathos tragico. Ci riesce difficile andare oltre alla narrazione di ordinati ricordi.
Nel tempo in cui il nostro racconto si svolge un osservatore spregiudicato avrebbe dovuto notare che l'uscita di scuola era stranamente simile all'entrata. Il motivo della fuga di cento indemoniati da un luogo odiatissimo è vero anche nel caso nostro solo com'è vero che in tutti i tempi tutte le scuole non vogliono essere se non un sistema di costrizione in cui si misura in fruttuosa gara la pazienza degli scolari e dei maestri. Era successo per questi anni di nostro ricordo che la pazienza degli scolari si fosse unita a qualche arroganza e giocando d'astuzia sul rimbambimento dei professori e sulla pazzia dei tempi riusciva, almeno ai piú abili, di continuare in scuola la vita della strada. Cosí non ne uscivano piú come da un carcere, ma pacatamente, e le partite incominciate di soppiatto si finivano all'aria libera.
Scuola e strada erano diventate, in quei giorni accesi, un solo campo di battaglia. I partiti si combattevano con tutte le armi, fuorché nei riguardi scolastici, dove eran legati contro il nemico comune, contro il mondo dei grandi. Dare le soluzioni del tema, suggerire le lezioni: era una regola di diritto internazionale al disopra delle parti.
Invece ogni cortesia che riguardasse il costume era esclusa: i rapporti interni di vita si regolavano con le leggi della violenza. La sorveglianza dei professori era superata con l'astuzia che la pratica di guerra suggerisce. Fuori l'intensità del conflitto si accentuava. Ciascuno trovava le armi che gli erano proprie, le discussioni si facevano interminabili : chi aveva vinto sul terreno delle idee non rifiutava all'avversario la rivincita nel piú radicale corpo a corpo. La morale libera e scatenata dell'inesperienza e della franchezza voleva cosí: s'impegnava tutto per tutto. Appena scoppiata la guerra europea era successo che tra gli italiani il maggior numero fossero per la causa dell'Intesa: cosí tra i ragazzi che pur non erano in nessun caso democratici e anzi per esser in maggioranza si dedicavano volentieri alla pratica della violenza nazionalista. Per coerenza neanche i tedescofili potevano negare l'appello alle fisiche risorse, se pur si trovassero in pochi, destinati a combattere solo per far onore alle premesse.
Quella mattina non c'era aria di battaglia. Interventisti e neutralisti conservavano le loro diffidenze, ma ognuno s'avviava a casa sua.
Andrea e Michele si mossero insieme per discutere i loro problemi di tattica e di politica. Si conoscevano da tre anni ma solo da sei mesi si erano legati in un'amicizia di ferro. Tutti e due per educazione o per proposito poco sentimentali avevano avuto bisogno di coincidenza d'idee e di convergenza di posizioni per diventare amici.
Ma la loro era un'amicizia di due cervelli, fredda, senza espansioni. Abituati alla solitudine, tutti e due intellettualmente forti, capaci già di agire dignitosamente di fronte al mondo, nascondendo le preoccupazioni piú gelose, s'erano trovati bene insieme proprio perché non avevano bisogno di confidenze. Un'amicizia maschia: non corse mai tra loro un discorso che non fosse obbiettivo, che non riguardasse dei problemi. Non sapevano nulla di pettegolezzi personali, ignoravano i particolari della vita domestica.
Due figli di poveri, di piccoli borghesi in fatica. Michele era stato abituato a una morale austera e persino un po' gesuitica, un po' ipocrita. Il padre di Michele aveva lottato con la vita senza transigere: s'era sposato una donna rozza e fedele della montagna; sui tre figli aveva stabilito una morale famigliare d'imperio, una disciplina rigida e crudele. Con uno stipendio di maestro, arrotondato di lezioni serali, non avrebbe potuto senza crudeltà chiudere in pareggio il bilancio domestico. Tre figli a scuola, tutti e tre maschi, destinati tutti e tre all'università. Una casa sana ma stretta; la madre doveva pensare a tutto da sola. Con le regole dell'affetto [assetto?], la vita di cinque in tre camere sarebbe diventata insopportabile bisognava disporre le cose in modo che ognuno potesse lavorare senza impedire il lavoro all'altro. S'era ottenuto in quella casa un silenzio di cenobiti, una remissività, un senso dell'economia e del minimo mezzo insuperabili. Una confidenza fraterna, con una certa lontananza. Il dominio del padre esercitato su tutti e su ciascuno. Avevano imparato che i sacrifici non si misurano; che con lo stipendio annuo di 1200 possono mangiare 2 bocche, ma poi anche tre, quattro, cinque: basta misurare meglio le parti. Come i vestiti possono servire a turno per quattro persone combinando la durata con la diversità degli anni di ciascuno.
La forza di Michele era da questa austerità e da questo allenamento a contare illimitatamente sul sacrificio e sull'adattabilità dell'uomo. Ma nessun povero riuscirà mai a salvarsi dal peso di un'umiliazione che si legge anche nel suo modo di portar l'abito usato. In Michele l'umiliazione non cosciente si manifestava in una certa falsità fatta di paura. Aveva tremato troppe volte di fronte al padre per non essere pronto a transigere per evitare una scena. Non si sarebbe umiliato di fronte a nessuno: ma parlava qualche volta con troppa accettazione dei suoi parenti preti, dell'ospitalità estiva che gli era da loro offerta. La sua solidità intellettuale era minata dalla sua aridità: generoso di idee, i suoi sentimenti, i suoi impulsi non avevano un corso continuo e normale. Si veniva formando una filosofia ribelle; ma gli bastava tenersela per sé: in modo che suo zio prete non ne sospettasse. Non sarebbe mai stato un ribelle. Le sue doti di sopportazione non lo avevano mai allenato ad altra forma di resistenza, che la passiva.
Il segreto del carattere di Andrea invece era tutto nei suoi istinti di ribelle. La sua intelligenza sarebbe rimasta mediocre senza un bisogno assoluto di affermarsi col contraddire. Era vissuto in un ambiente piú aperto, di una relativa libertà, ma aveva avuto bisogno di foggiarsi anche nella vita domestica degli ostacoli da combattere e da superare. Aveva solo quattr'anni e vedeva il mondo come un ambiente in cui ognuno è solo e non è detto che col linguaggio ci si intenda. Nella sua fanciullezza a contatto coi campi e coi boschi, con la possibilità di fingere sempre nuove imprese avventurose, in confidenza col fiume piú che con i ragazzi del borgo, aveva esaurito tutti i suoi interessi poetici.
Trasferito in città, era vissuto di un libro solo, una vecchia enciclopedia: aveva visto i commerci di suo padre, indeciso sempre tra pratica e teoria, tra studi e mercati, ed era finito al ginnasio solo perché s'erano accorti ch'egli aveva un'intelligenza piú solida del comune. Franco sino all'arroganza, c'era in lui un certo dominio degli avvenimenti. In tutto il suo mondo c'erano degli squilibri profondi. Gli pesava un'amarezza, uno sconforto che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Certe febbri di dubbio completamente metafisico lo straziavano. Tutto questo fermentava in lui senza che altri mai ne sospettasse. Un'adolescenza che s'ispirava a motivi cosí integrali doveva dargli una tragica forza; sospesa miracolosamente a un solo filo di rigida volontà eppure inesorabile di fronte agli altri.
La sua posizione sociale gli risultava non bella. Con superbia se ne vergognava. Sognava altri ritmi di vita famigliare. Non riusciva a concordare con la realtà di ogni giorno la realtà che leggeva nei libri [...].