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23. VIII. 1919
Eccomi a cominciare degli appunti in cui dovrò andar concretando le mie esperienze, la mia vita vissuta. Un diario, come lo chiamano. La vita moderna è cosí esteriormente rapida, invadente, c'è tanto bisogno di leggere, di discutere che di rado si posson fare i conti con se medesimo. Voglio vedere se sono capace a fissare un po' i miei sentimenti e i miei pensieri, voglio sorprendere le mie contraddizioni, che anche ora sorprendo e spesso, ma solo per un attimo e senza conservarne l'esperienza. Io ho delle debolezze, ma le mie debolezze, i miei sconforti cedono sempre di fronte a un momento di attività, non esistono piú quando vedo l'attuarsi di qualche cosa di vivo, di grande, di spirituale. Credo che in questa storia di me stesso fatta ora per ora, nell'intensità del superamento del mio pensiero, nel culmine dell'attività e anche nel momento della stanchezza, della passività, saprò vedere quando mi parrà d'essere inutile il valore della vita.
Che cosa ho fatto stamattina? Non ho perso tempo. Ma ahimè che disordine. Ho letto Paradossi educativi di Prezzolini, ho tradotto una pagina di russo, ho letto un altro capitolo di Gentile, La filosofia di Marx, poi ho dovuto scrivere a editori, a amici. Mio Dio ! Non riesco a studiare sempre allo stesso argomento. Ho bisogno di riposarmi mutando. Poi lo riprendo. Mi par di acquistare piú lena. Ma faccio davvero bene o non mi disorganizzo sempre piú? Com'è vasta la cultura che devo conquistare! E non basta conquistare il vecchio. Bisogna anche produrre, creare quel po' che si può creare. Perciò faccio la rivista. Voglio impormi del lavoro. Trovarmi sempre di fronte a un compito piú grave che devo superare. Ma non farei meglio a raccogliermi in me e fare gli studi che mi garba con tutto il mio tempo? Forse. Ma mi parrebbe d'essere più piccolo. Voglio essere migliore che nei momenti in cui penso cosí. Dicono di me che lavoro che scarabocchio sulla rivista mia, che sono ambizioso arrivista, egoista. Chi sa? Mi parrebbe di essere piú egoista lavorando da solo senza badare a nessuno su [?] tutti gli altri. A questo modo son sicuro che farei molto e bene. Ma per la mia fama. E che me ne importa? Non è meglio prodigarsi oltre che per sé per gli amici, per gli altri, per la cultura di questa nostra povera patria. Non credo di esser altruista a questo modo. Quistioni di parole sciocche. Ma sono piú sublime egoista. Voglio aver dinanzi sempre concreta, viva, l'attività dello spirito, voglio veder me negli altri.
Arriverà tra poco la mia dievocka meravigliosa. Io non sono mai stato cosí olimpicamente calmo, cosí fortemente sereno. Provo della gioia forse, ma piú che gioia quel senso di umanità perfetta che si sente solo nei momenti piú belli della vita nostra quando creiamo la verità. Sí ormai il mio affetto non è piú turbamento interno, non è piú tormentoso aspirare alla comprensione di un'anima o pretenzioso sentimento di esser utile a lei. Sento finalmente l'amore come verità, come serenità. E il mio sentimento non è piú qualcosa che figuri come un episodio, come un momento di me. È tutta la mia vita, e lo sforzo del passato, e la base per lo sforzo del futuro. Ahimè! noi pensiamo ancora l'amore come una cosa troppo esteriore, quando non è addirittura volgare. Noi di questo sentimento non riesciamo neanche a parlare come non sappiamo parlare senza arrossire o scherzare di tutte le nostre cose nobili. Mi pare di essere ormai a una visione piú vera e piú alta. Tanto che con tutta la profondità del mio sentimento son riuscito a vivere lontano da lei senza fremere o imprecare studiando, quasi tranquillo e solo con un senso limpido di estasi che mi trasportava quasi insensibilmente a lei e me la faceva trovar dinanzi ogni momento a [?] e ogni momento in colloquio col mio spirito. È perché qui l'identità delle anime si è realizzata davvero attraverso un processo lungo e instancabile di reciproca formazione che anche se era cosciente in me solo (lei nella purezza del suo affetto che è anche dedizione non voleva neanche pensare di avere dell'influenza, della capacità educativa) non era però meno vero reciprocamente. Il mio ideale l'ho incarnato in lei, l'avevo incarnato in lei già senza conoscerla, nella gentilezza del suo viso che parlava la voce del vero. Io sono stato tanto tempo un egoista. Un'educazione famigliare poco forte moralmente mi aveva tenuto sempre in uno stato di incoscienza morale. Da piccolo son stato sempre perverso con crudo senso di compiacimento, perché questo almeno ho avuto sempre indomabile – e pure ho cercato tante volte di domarlo, di soffocarlo – un senso invincibile di sincerità.
Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei glie ne sarò grato sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. Ho avuto davvero della fede, un senso di mistica religiosità per lei; mi pareva che il guardarla mi dovesse elevare sempre e poiché la mia volontà non crolla sinché non raggiunge l'ideale mi son elevato sempre davvero in una conquista di verità instancabile. Ora che mi son rinnovato davvero, che si è rinnovata anche lei mi pare di vederla come la mia bella sorella d'elezione, come un angelo che mi guida e che insieme io devo aiutare a concretarsi nella realtà dalla dolcezza eterea in cui vive. Sono scolaro e maestro insieme e solo a questo patto posso amare. Se fossi costretto a pensare per un momento la differenza di sesso come differenza di capacità spirituale non so qual senso pauroso di desolazione proverei; forse il mio cuore sarebbe infranto. Come se mi togliessero il mio spirito, la mia esperienza storica. Questo amore è una mia conquista. Per perderlo dovrei impazzire. Se lo perdessi impazzirei. Ma non lo posso perdere. C'è in me la sicurezza dell'eternità. Il palpito, l'ardore delle grandi cose che può salire, ma non discendere! Vita, vita mia, tu arrivi in questo momento in città: presto ti potrò salutare e sentir camminare vicino a me, ma quando sei arrivata al mio spirito? Quando ne sei partita! Credo di aver conquistata la felicità, il senso di sicurezza della vita solo nell'amore. Da quel tempo, da quando mi son creato un dio e poi l'ho trovato nella vita, spirito attivo, sono meno tormentosi i miei dubbi, meno angosciosi i miei sconforti. Mi son rivelato da allora a me stesso!
24. VIII. 1919
Voglio cominciare una buona volta uno studio serio e non smetterlo piú. Regolerò ciò che faccio con le esigenze pratiche.
Da una parte mi metterò a studiare politica generale per intensificare la formazione della mia coscienza politica. Leggerò Treitschke, Aristotele, Ferrari, Machiavelli, Pareto e poi gli altri. Avvierò lo studio sul Marxismo: per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola ecc.). D'altra parte studio il bolscevismo, minutamente.
Conto di finire presto gli studi che avevo intrapreso: sulla scuola per es., di leggere solo piú le novità librarie di questo mese. Poi affiderò questo lavoro ad altri ed io terrò solo piú la parte politica.
Ma intanto bisognerebbe che continuassi la filosofia. Prima di dicembre leggerò Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce e guarderò qualche altro libro. Poi prenderò una storia della filosofia e farò uno studio organico.
I bolscevichi conto di finirli in febbraio dell'anno che viene – e di pubblicare il lavoro. Poi prenderò gli economisti liberali. Nel frattempo continuo i socialisti.
La politica generale la condurrò abbastanza avanti nell'inverno e mi metterò allora agli ambasciatori veneziani.
25. VIII sera mezzanotte
Ho lavorato molto in questi giorni. Sono contento – direi quasi – di ciò che ho fatto. Appena due capitoli di Treitschke, ma pensati, postillati, risolti [rifatti?]. E pensieri, intanto su Machiavelli, su Missiroli, su Gentile. Per l'arte, letto Stuparich. Ho plasmato anche il mio io sottoponendolo alla pratica. Ed ho elaborato intensamente un programma di rinnovamento della rivista che pensavo da tempo. Adesso vengo dal Rigoletto. E voglio raccogliere le mie impressioni perché per me questa serata è stata importante assai. È la prima volta che mi pare di veder nettamente il valore della musica e di distinguerla dal disvalore.
Nel Rigoletto mi pare di vedere un insieme di elementi non ben fusi. L'accento piú profondo dell'opera dovrebbe essere la vendetta. Ed è infatti cosí. La maledizione di Monterone è come la voce del destino che si ripercuote nel cuore di tutti e risuona tremenda nell'anima del protagonista a dominare la piena dei suoi affetti. Dalla maledizione nasce la vendetta. Ma l'origine comune è un'altra; l'origine di questa profondità di passione è nel riso del buffone che dovrebbe avere quindi (ma io non l'ho visto) l'eco confusa, quasi triste colore, di ciò che sarà. La contraddizione e la debolezza del dramma sta in questo, che quest'eco non si ritrova che di rado (bellissima, per esempio, appunto per ciò, è l'invocazione al pianto che poi torna ad accompagnare i singhiozzi di Rigoletto). Singhiozzi, risa, pianti, beffe non sono legati dall'umanità profonda e dolorante, che sola li poteva stringere armonicamente in un vero contenuto.
L'altra nota potente è l'amore, ma non si può dire che vinca sulla vendetta. Sono due voci diverse. Il finale dell'atto II (o III se si vuole) che li vuole far nascere insieme nell'animo dei personaggi mi è parso debolissimo. Si resta presi dal turbine di suoni; ma sotto si sente l'artificio, non puoi tremare, e neanche sentire pietà.
Una certa tristezza bella c'è nell'amore di Gilda dove senti a volta a volta il palpito della purezza, dell'innocenza, della passione che non ha fine, della pietà bella ed amorosa, ma tutto questo ha appena un valore di impressione laterale. Come l'amarezza di Rigoletto si soffoca nella beffa della corte (ma ne sorge – non si può negare – una piú viva tragicità) cosí l'amore di Gilda muore nella leggerezza di chi la circonda. La profondità del suo affetto s'incontra con l'esteriorità e superficialità del Duca (La donna è mobile), ma il contrasto penoso e d'effetto talvolta finisce per portare uno squilibrio troppo spesso. Tanto che il Verdi per unificare tutte queste corde deve ricorrere all'artificio del terzo atto dove amore, destino, vendetta, pietà si fondono tutte e si ripercuotono nell'animo di chi sente come dolore infinito, su cui si spande il soffio perturbatore della tremenda tempesta scatenata.
Cosí la ricchezza profonda degli elementi che l'autore aveva profusi nella tragedia, e che era anche riuscito talvolta a fondere sviluppandoli nell'anima dei protagonisti finisce in un rombo di esteriorità, che colpisce l'animo dello spettatore come paurosa esteriorità, ma non piú. Per questo l'opera sarà applaudita sempre da ogni pubblico che sente qua e là ciò che s'aspetta.
E tuttavia oltre a quelli che io ho notato sono ancora visibilissimi altri squilibri, e mancati sviluppi: le passioni si manifestano saltuariamente, non c'è passaggio sentimentale da una gradazione all'altra.
Questo è quanto credo di aver trovato nel R. Queste le mie impressioni di inesperto. Ma una gran fiducia mi pervade che io sia nel vero. Avrò esagerato certe tinte, e tralasciate molte cose. Ma la gioia che provo è di aver conquistato alfine il valore nuovo, sospirato. Stassera io ho sentito palpitare in me ogni accento dell'orchestra. Per forza di volontà non piú. Per intimo affetto. Ai concerti di quest'inverno mi sforzavo di sentire. Oggi ho sentito. E se anche ho sbagliato questo m'importa: che per tre ore mi son immerso nella musicalità di quel teatro: ho dimenticato il tempo e ho pensato solo agli accordi che afferravo. E questo per me, lontano dalla musica, che credevo di non poterla sentire, è già qualcosa. Forse c'è l'influenza della mia fanciulla. Per questo prima di andare a letto voglio pensare a lei. L'ho vista oggi, l'ho sentita in me, mi son sentito nella sua ardente purezza. Che gioia! È tutto un senso di profondo idealismo che mi pervade!
26-VIII
È vero. C'è tanta instabilità, tanta mobilità di situazioni e di azioni, che la vita appare talvolta come pauroso enigma, come tremendo destino che ti perseguita e non ti lascia fermo. Nella vita non c'è posto per i deboli. O si è vinti, e allora bisogna scomparire, e si scompare lentamente, passivamente, anche se non si muore. O si è piú che uomini e allora si vince. Ma per esser piú che uomini bisogna sapersi plasmare mirabilmente l'anima senza pietà e senza paura, bisogna saper essere uomo ad ogni istante e cioè saper essere un uomo sempre diverso, sempre presente a se stesso, sempre domatore, che non s'arresta di fronte a nulla, perché sa riconoscersi ad ogni momento e non ha altro scopo, altra vita che la sua spiritualità. Questo io mi sforzo di raggiungere ad ogni momento, e mi ci sforzo torturandomi, talvolta senza nemmeno avvertire, perché nella tortura c'è anche la vita. Bisogna non lasciarsi dominare da ciò che è esterno, non credere se non a ciò che può diventare nostro palpito e nostro ardore – nostro perché profondamente umano e solo umano. C'è in noi la nostra negazione, il nostro demonio, che noi vinciamo diventando eroi attraverso la vittoria. E questo è bello: saper avvertire come cosa nostra il male, nostra proprio mentre lo cacciamo da noi. Giungere a questa profonda autocoscienza che ci fa distruggere il dolore appena lo sentiamo, perché la nostra onnipresenza è onnipresenza di soggetti, e il dominare dello scoraggiamento, del male deve essere avvertito da me, cioè da un nuovo elemento, che diventando soggetto e attore crea il nuovo bene. E cosí in processi successivi di autocoscienza noi conquistiamo la verità sempre nuova. Questo mi è venuto fatto di pensare dopo una giornata di tormento e di attività: di attività tumultuosa, che mi ha messo a fronte con nuovi uomini, a me sconosciuti, che mi ha fatto vedere altri interessi, altra vita. E accade spesso cosí. Che il nostro centro vitale pare spostato, pare non piú chiaro e vero e nel turbinare dell'azione, che tu piú non comprendi, perché non sai piú a qual io corrisponda, ti viene un desiderio di seppellimento, di apatia, di morte mistica. E ti par dolce assaporare la fine. E se tu superi questo momento, se tu stanco, soffocato, abbattuto, sai vincer ancora, la vita è per te. È una delle piú rare conquiste perché passi insieme dal Nirvana al scintillare ardente dell'azione. E se solo si agisse, se non si raggiungesse anche il cielo e le tenebre con umiltà, non sarebbe piú bella l'azione. Perché sarebbe limite. E il limite lo voglio posto da me istante per istante come voglio, perché voglio. Ma neanche a questa conquista è stata indifferente la mia eterna bimba. Ho sentito nella fredda profondità della superba disillusione il suo ridere e il fremere dei suoi riccioli. Oh viva l'illusione, se è illusione questa! Però oggi sono molto stanco. Potrei continuare a lavorare, ma sarebbe sfoggio di potenza inutile. Non dilaniamo la nostra capacità di trasfigurazione. Nel fervor dell'azione è dolce conquista anche il riposo. Il sonno, il sogno. È problema che mi agita spesso : quando lo risolverò? Bisogna conquistare altra serenità e altra gioia. Un pensiero ancora a Didí. Mi voglio addormentare meditando sulla sacra purezza di Carlo Stuparich. Non dimentichiamo questo nome di bimbo [?]. È l'ardore di un poeta. Qualcuno lo potrebbe dire fallito. Ma che è fallito. Anche lui sentiva ogni giorno il bene nuovo, il rinnovamento che non si arresta. Con meno serenità, con meno calma. Autocritica spietata che non permette l'avanzar di un passo nel progresso individuale e a tutto chiede Perché? Come mai? Che hai fatto? Non è filosofo; non si interessa della verità. S'interessa dei palpiti che ha provato nel vederla. Pensava troppo al passato, troppo al futuro. Come i poeti. E si sforzava invano di sentire il valore dell'azione di ogni momento. Ma io lo amo come un fratello. È triestino, come Slataper, sai, Didí?
28. VIII
Due giorni di tortura, di strazio, di disperazione. Assistevo allo sfarsi dell'anima mia, inerte. Il tormento dell'autocritica. Non riesco piú a dominarmi. Lascio perché analizzarmi non posso. È pericolo da cui potrei non più rialzarmi. Torno all'azione, che ieri mi pareva inutile, sciocca. La sfiducia nell'azione nell'attività si vince solo lavorando.
La Traviata stassera mi ha fatto un'impressione completamente contraria al Rigoletto. Certo c'è un certo progresso rispetto a questo, c'è sopratutto maggior respiro (il preludio e il preludio all'ultimo atto) e una grande forza di elementi musicali condensati in poche frasi (Croce e delizia al cor) e la forza mesta profonda dei frequenti gioia, gioire quasi un transumanarsi.
Ma il dramma non c'è e lo si vede anche negli artifizi messi su per farlo forzatamente, come sulla fine dell'ultimo atto dove la conclusione solenne quasi un'eco non è preparata abbastanza. In Rigoletto avevamo elementi non fusi. Qui elementi troppo poco sviluppati. Non c'è comprensione tra i personaggi. Ognuno recita la sua lirica. Gli stessi elementi tornano all'infinito. Violetta ride sospira, spasima in ansia ad ogni momento: non c'è progresso da stato d'animo a catarsi.