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1
Per incitar piú contra sé
l’altiero
mondo, Iesú di tolleranzia essempio
nacque, visse, morí sotto l’impero
de l’uno e l’altro Erode avaro ed empio.
Cosí volse ch’Andrea, Giovanni e Piero
ed altri eroi, ch’a Dio fondâro il tempio
de’ corpi lor, da principi piú acerbi
rotte ne riportasser l’ossa e’ nerbi.
2
Sallo Sisto e Lorenzo; sallo
Egnazzo,
quello che, fra tormenti piú, piú franco
venía d’improverare al mondo pazzo;
quell’altro il sa ch’aperse a Cristo il fianco,
e mille e piú guerreri che nel guazzo
del proprio sangue e negli ardor non manco
porgean al ciel i lieti sguardi e cuori
se fosser stati tra fresch’erbe e fiori.
3
Ma che dir poss’io de le
donne tante
sprezzatrici di fiamme, aculei e croci?
Ben fûr di cor di diaspro e di diamante
contra di quelle i Cesari feroci,
ch’un sí fral sesso al tribunal davante
fra le man de’ carnefici piú atroci
non pure a’ legni e marmi non piegâro,
ma quelle a maggior strazio provocâro.
4
Leggesi che Iacob, sendo in
procinto
per oggimai sbrigarsi a piú serena
vita fuor d’esto nostro laberinto
(donde rar’è chi ben se ne scatena),
da duodeci figliuoli atorno cinto,
con debil voce ed affannata lena
levò la testa un poco ed a ciascuno
lo stato lor predisse o chiaro o bruno.
5
Spedito ch’ebbe Ruben, poi
Simone,
ch’erano i primi, tutto riverente
voltossi a Giuda e con maggior sermone:
– Figliuol mio – disse, – or fisso tienti a mente
quanto di te nel cielo si dispone.
Tu fie lodato da quantunque gente
alberga in terra, e a’ giorni piú felici
le man terrai nel crine a’ tuoi nemici.
6
I figli del tuo padre
adoreranno
chi nascerá di te, possente leo:
costui le nazioni attenderanno;
ma non verrá se non quando l’ebreo
popol sia sottomesso a stran tiranno,
che di regale il faccia vil plebeo.
Qualor dunque ti fia lo scettro tolto,
di’ ch’esso vien perch’abbiati disciolto. –
7
Simil parlar dal padre intese
Giuda,
solo degli altri al gran mistier eletto:
ch’Erode il fier poiché stuprò la nuda
Gerusalem nel scelerato letto,
ed essa tanto bella a cosí cruda
bestia nel santo tempio die’ ricetto,
scese l’alto leon, che ruppe in terra
l’inutil pace, a farne l’util guerra.
8
Inutil fu la pace tra’
mortali,
che sotto empio monarca si nudriva
d’ocio, avarizia e d’infiniti mali,
stando Vertú in disparte sola e schiva.
Ma peggio fu che gli angeli infernali,
ne’ corpi del metallo e ’n pietra viva
adorati da noi, con mille frodi
spenser del divin culto i riti e modi.
9
Né Roma pur, ma tutto ’l
mondo seco
nuotava in questo abominevol puzzo.
Consecrava gli altari l’uomo cieco
a l’Asino, al Montone, al Cane, al Struzzo.
Che dir si può di quel facondo greco
filosofo gentil, che de l’aguzzo
nostro latin, che del savio d’Egitto,
se tutti avean quel scorno in fronte scritto?
10
Sol tu, Giudeo (come che
duro, ingrato
fosti al Dator de tanti beni e tanti),
eri per vano e stolto suggellato
da Roma e da que’ suoi gonfiati manti,
perché tu sol religion, tu stato
diverso avei da Bacche e Coribanti,
perché ’l prepuccio inciso e bagni e dapi
tenesti a piú che Stercoli e Priapi.
Quei Cati, Sergi, Gracchi,
Scipi e Fabi,
nati a dur’elmi piú ch’a molli plettri,
saputamente a greci, parti, arábi,
galli, african tolser di man lor scettri.
Pur non vedean negli occhi a sé le trabi,
dico gli augúri, sogni ed altri spettri,
e givano beffando alcune schegge
nei lumi a chi da Dio preser la legge;
12
come se l’agno in sacrifici
offerto
da Mòse al Conditor di tutt’i regni
(parlo del puro agnel, che ’n sé coverto
mistier tenea d’effetti cosí degni)
fosse d’opra soverchia indicio aperto,
ma ’l gallo no del padre degli ingegni,
gallo che, giunto a morte, l’ammalato
Socrate commandò fosse immolato.
13
Essendo nondimeno sempre
stata
perversa a Dio la schiatta de’ giudei,
fu per divin giudiccio soggiugata
da quei d’Egitto, persi e filistei.
Alfin Pompeio, senza colpo di spata,
fra cento e piú onorati suoi trofei
la trasse catenata in Campidoglio:
sí sempre spiacque a Dio de’ suoi l’orgoglio!
14
Cadder poi sempre mai di male
in peggio,
favola fatti e scherno a tutto ’l mondo.
Marcantonio romano fu chi ’l seggio
regale ornò fra lor d’un porco immondo,
che star potea (se i fatti suoi ben veggio)
a par d’ogni tiranno ch’iracondo
si goda i diti aver sempre mal netti
di sangue, onore e robba de’ suggetti.
15
Questi fu Erode, primo in
quel contorno
u’ Cristo nascer volle: stran tiranno!
Né artiglio mai né dente mai né corno
(se ’l grifo, se ’l cingial, se ’l toro vanno
contra lor aversari), fu sí adorno
d’ira, di rabbia, di furor, d’inganno
come quello spietato e pien d’orgoglio,
se d’orso fosse nato, se di scoglio.
16
Ebbe costui da cinque o sei
figliuoli,
parte di stupro, parte di non molto
legitimo legame; e quei di doli
e furti l’improntâr piú che di volto.
Ma, da le prime due mal nate proli
temendo non gli fosse il regno tolto,
d’ambi con morte obrobriosa e sozza
fe’ duono a le cornachie per la strozza.
17
Molt’altri uccise, via piú
laido e sporco
del sangue degli suoi che de lo strano:
ché, se mai visser Polifemo e l’Orco,
men di lui si pascean di corpo umano:
tal ch’un altro suo figlio esser un porco
dovea piuttosto (disse Ottaviano),
che di duo anni, al crudo padre inanti,
scannato fusse tra mill’altri infanti.
18
Da la fenestra un giorno
questa fiera,
stando a mirar lá verso, donde ’l sole
esce da mane a ritrovar la sera,
vide con fretta giú de l’alta mole
di Carmel scender lunga e folta schiera
d’uomini, di cavalli e d’altra prole,
come cani, gambelli e dromedari,
lupi cervieri ed anima’ piú rari.
19
Chi sian costor che, neri la
piú parte,
vengon altri a cavallo ed altri a piede,
non sa pensar; e tosto ch’indi parte
per gir lor contra, fra molt’arme siede
come tiran c’ha per usanza ed arte
di sempre aver sospetta l’altrui fede:
però l’astuto vuol che ’l popol stesso,
per un passo che faccia, il segua presso.
20
Da paventosa lepre e da
coniglio
vive (se vive pur) chi signoreggia
con crudeltá, per lo mortal periglio
che nel centro del cor sempre amareggia.
Non ha finito poco piú d’un miglio
che, fra la gente che dal monte ondeggia,
vede lontan tre coronate teste
con lor eburni scettri e ricche veste.
21
Son tre canuti, venerandi e
gravi,
Gasparro, Melchiore e Baldessaro,
giustissimi signori acconci e savi:
sciolti d’ogni pensier crudel e avaro,
han sí le cose a mano, se le chiavi
tenesser di natura e secretaro
fosse del sommo Dio ciascun di loro.
E da suo’ campi vengon gemme ed oro;
22
e gemme ed oro vengon da le
rene
lá ’ve di Febo i rai previen l’aurora:
d’incenso, d’aloè, di mirra piene
son le campagne donde il ciel s’onora;
e, s’ogni fama è vera, ivi conviene
da poi mill’anni si ravivi e muora
ed or ringiovenisca ed or rinvecchi,
unico augello agl’infiammati stecchi.
23
Han d’erbe e piante, han
d’animali e pietre,
hanno di stelle ogni notizia vera:
però son maghi. Non che l’ombre tetre
chiamin con versi da la tomba nera;
par ch’essa Arabia sola un duono impetre
dal ciel, d’oltrapassar l’ottava spera,
e trarne le cagion de venti e tòni,
folgori, piogge ed altre passioni.
24
E perché son confini de’
giudei,
per mastro ebber gli antichi lor Abramo,
il qual gli arabi, persi, afri e caldei
primo adescò de le scienze a l’amo.
Gli onoran dunque o come semidei
o come lor dal cui piú nobil ramo
quel Re nascer dovea, quel tanto saggio
ch’a sue virtú non troveria paraggio.
25
Né questo solamente san dal
libro
di Balaamo e succedenti padri,
ma da’ volumi che Tarquinio al Tibro
comprò da l’una de le diece madri.
Ed oltre a ciò l’ingenioso cribro
distingue in loro i sensi occulti ed adri
degli profeti ebrei; però sen vanno
da loro intender cosa che dir sanno.
26
Voglion spiar da scribi e
sacerdoti,
cui sta di puoter dirlo, u’ Cristo nasce;
ché gli oracol di Dio, del cielo i moti,
quant’occupa natura e quanto pasce,
e quei che giú nel centro stan rimoti,
chiamano ch’è giá nato e dorme in fasce,
ma cercan sol che la citá, che ’l lito,
che ’l tetto proprio sia lor mostro a dito.
27
Erode, ciò sentendo, giá del
regno
non sospettoso men che per usanza,
riporta un petto d’ira e tèma pregno
ch’altri venga occupar la regia stanza.
Tosto di ripararvi fa dissegno:
finge ’mistá, religion, leanza;
raccoglie que’ signori con tal fede,
qual d’un coverto mentitor si chiede.
28
Onda tranquilla e ciel sereno
fuore
mostra nel lieto simulato volto,
ma di veleno e rabbia dentro ’l core
mar tempestoso e grave tien sepolto.
Torna con essi; e tutto quell’onore
che si può fare, in una ebbe raccolto:
concorre d’ogni parte la citade,
sí come a cosa che di rado accade.
29
Un convito s’appara sontuoso,
e tiensi dal tiran bandita corte.
Al luogo piú che mai licenzioso
aperti in questo dí stan usci e porte;
non è pertugio sí nascosto e ombroso
ch’entro a guardare alcun non vi si porte:
altri, tornando, ha gloria e dassi vanto
tócco e palpato aver lo regio manto.
30
Fra tanto che procede il gran
convito,
il re, fatto avisar ciascun dottore,
volea saper da loro il tempo, il sito
ov’ha da nascer quel novel Signore.
Vengono quelli; ma, secondo il rito
ed uso lor, stan del palazzo fuore,
né per alcuna guisa voglion darsi
con forestier, per non contaminarsi.
31
Stanno, dico, da venti mastri
o trenta
fuor del palagio e attendon su le strate
infin che ’l Mòse loro entrar consenta;
che fia poi che le mense avran levate.
Or sendo giá la fame in tutto spenta,
venne dal re chi disse a loro: – Entrate! –
Entrano pettoruti a passi tardi,
parendo lor che ’l mondo fiso ’i guardi.
32
Di questa e d’altre cirimonie
pende
quel sopraciglio lor, quella lor gloria,
per cui tant’alta autoritá si prende
d’esser giudei, che scoppiano di boria:
ma poi che ’l giusto giudice lor rende
a tal ch’ ’i toglie fuor d’ogni memoria,
timida rabbia dentro gli ange e rode
d’esser supposti ad un ribaldo Erode.
33
Quei tre vecchioni
apparescenti, c’hanno
gran tempo fa negli animi concetto
non so ch’onesto error (ché i giudei sanno
quel ch’agli altri saper vien interdetto),
per onorarli s’ergon da lo scanno.
Ma ciò non soffre Erode maladetto,
che sa per lungo isperimento come
l’effetto in quei non corrisponde al nome.
34
Altro ci vuol che dir: –
Prelato i’ sono! –
per servarsi l’onor de’ santi vecchi,
ch’alfin (dov’è ch’intenda) ventri sono
gonfi di vanitá, son fumi e stecchi
(anco le squille ed i tamburri han suono!),
sí aman d’esser nomati e d’esser specchi
di malsan’occhi, e che ciascun gli additi
per dottor gravi e satrapi periti!
35
Però non poco scema e si
diffalca
il grido a la presenzia ed al paraggio;
come van’ombra poi si sprezza e calca
ciò che Fama diceva esser un raggio:
strabbocchevol destrier costei cavalca,
né compie mai l’assunto suo viaggio;
ma sempre intoppa ove l’è rotto il passo
e piú che monta piú ricade a basso.
36
Cosí travenne a quello
ebraico fasto
per troppa openion che fu di loro:
ecco da chi vien ora sciolto e guasto,
ed è di piombo quanto apparve d’oro!
Non ti pensar che faccia il re contrasto
perché s’assida un tanto consistoro.
Seder dovean come lor vista chiede,
ma piú lor vita ’i fa parlare in piede.
37
– Signor – dicean – al vostro
imperio, abbiamo
de le Scritture assai visto e revisto.
Dubbio null’è che del ceppo d’Abramo
di dentro a Bettelem nascerá Cristo;
e, se nat’è, noi dirlo non sapiamo,
però ch’a noi celato ed improvvisto
di voler giú venir parlò piú volte.
Se questo è ver, son giá le carte sciolte.
38
Sciolte le carte son, quando
sia vero;
e vero esser pensiam, ché Dio non mente.
Ma non però rifiutasi lo ’mpero
invitto vostro e piú che mai possente,
che, come fu, sí sempre fia leggero
e comportabil giovo a qual sia gente:
ma ch’or privarne di voi Cristo vegna,
cagion ne fia Colui che lá su regna. –
39
Cosí parlâr quei comici
gnatoni,
c’han piú bugie che scorze le cepolle.
Non che fin da cinedi e da buffoni
non scorti sian per entro a le medolle:
si san le ’nvidie lor, le ambizioni,
l’odio che contra il re continuo bolle,
che mosse allor non so che amar soghigno
al losingar d’un orator maligno.
40
Die’ dunque a lor combiato,
e, vòlto ai maghi,
cosí parlò: – Ch’indicio avete voi
di questo nuovo parto? – E quei, piú vaghi
di sodisfarlo, dan risposta: – Noi
per la sua stella siamone presaghi,
la qual ne scorge dagli campi eoi;
ma prima non toccammo i lidi vostri,
che quella si sottrasse agli occhi nostri.
41
A noi, che sua grandezza e
maiestade
quant’abbia ad esser conosciamo, parse
debito umano e ufficio di pietade
non tardi i piedi aver, non le man scarse:
di che per vostre terre a securtade
gli util passi affrettiamo, ch’abbassarse
ciascun di noi conviene a un Re sí immenso
ed onorarlo d’oro, mirra, incenso. –
42
Erode a questo: – I’ stimo e
laudo molto
il vostro in voi lodevole desio.
Andate a ritrovarlo! che sepolto
stia pregio tal, non è l’intento mio:
veduto voi ch’avrete il santo volto,
piacciavi d’avisarmi, ch’ancor io
adorarlo verrò, se pur gli dèi
voglion ch’ei sia, non io, re di giudei! –
43
Cotal menzogna in atto assai
maturo
pingea negli occhi lor per veritate.
Ma guardi il disleal ch’a lui fia duro
trar calzi a le divine bastonate!
Sol nuoce a sé chi dá le pugna al muro:
scorno ch’a’ pazzi avien le piú fiate.
Alfin non gli varranno mille schermi,
che vivo ancor non sia cibo de’ vermi.
44
Perch’esso, tócco da la man
ultrice
del ciel, se forse ancor si riconosca,
vedendo consumarsi (l’infelice!)
dal tarlo, dal pedocchio e da la mosca,
alfin per lo velen, che la radice
del cor, de’ fianchi e stomaco l’attosca,
quel ferro, che de l’uno e l’altro sesso
macchiò di sangue, volgerá in se stesso.
45
Di che non posso non venire
insano
di stupido furor, s’io ben contemplo
ch’atto di tigre scenda in core umano
(cor fatto a Dio, che gli sia puro templo)
ed oltre a questo ch’armisi una mano
(man fatta ad esser di buon’opre esemplo)
contra tener fanciulli a pena nati,
ché tutti gli ebbe il crudo esterminati!
46
Però che, i re sabei poi che
trovâro
l’investigato infante e, sciolto il voto,
al regno lor per altra via tornâro
lasciando Erode di sua speme vòto,
esso, c’ha di gran sdegno il cor amaro,
quanto può il cela, e poscia fa far noto
che da duo anni addietro sian gl’infanti
di Bettelemme a sé portati avanti.
47
Dice (ma dice il falso!) di
nutrirli
voler col suo figliuol di quella etade;
poscia, giá grandicelli, trasferirli
tutti di Roma a l’inclita citade,
ove potralli alzare, ove arricchirli
di lettre, d’arme e d’ampia facultade;
né per altro gli elegge di quel ramo
che per veri figliuo’ del padre Abramo.
48
Credette il volgo a
l’incredul tiranno
e si fidò d’un corruttor di fede.
Le madri han giá lor peso in collo e vanno
con lieto volto e frettoloso piede:
ciascuna orna piú il suo per suo piú danno;
ché qual Erode molto ornato vede,
tien cor di farne strazio e notomia
perch’ha sospizion che Cristo sia.
49
Dissi che ’l populazzo gli
credette,
il quale a prove tante ben potea
imaginar che ’l lupo aver mal nette
l’unge del sangue altrui sempre godea.
Ma gli animi non ciechi portan strette
le spalle a capo chin, ché non si crea
pensier sí folle in questo petto e in quello
ch’abbian di ciò a sperar se non flagello.
50
Sciocca, per certo, e mal
pensata scusa
fu quella del tiran, re degli scarsi!
E chi non sa che ’n corte mai non s’usa
portar fanciul, che ’n piè non sappia starsi?
E pur, se in questo è sí di mente ottusa,
ch’un spedal vogli di sua corte farsi,
o mille madri o mille balie a loro
faran bisogno e spendervi un tesoro.
51
Chi crede in uomo avaro
splender questo,
cred’anco fuor di fango viver rana:
del lupo il vezzo è troppo manifesto,
non vi si può fondar chi ha mente sana:
ch’esca di sangue un mar credrá piú presto
(cosa che nuova in lui non è né strana),
ed un indiccio a tutto ciò s’aduna,
che fama era di Cristo esser in cuna.
52
Quell’apparir cosí repente e
grande
di tre corone e tanti orientali,
que’ fasti, quegli onor, quelle vivande
(cose che rare sono fra mortali),
quello spiar solecito in quai bande
nascer dé’ Cristo, fêr gli principali
de la citá temer che tal comedia
si scoprirebbe alfine esser tragedia.
53
Perché, s’Erode fu da
tener’anni
di regnar vago (come fenne indiccio)
con impietá piú volte e con inganni,
dandone al proprio sangue amar suppliccio,
giá sperar altro non puotean che affanni
e di suo’ figli orrendo sacrificcio,
i quai senz’alcun dubbio ancideria
per spegner quel, cui non sa qual si sia.
54
Or un fra gli altri accorto,
la cui moglie
il tenero figliuol del re nudriva,
fra sé dicea, mentre se stesso accoglie
in parte ove non è persona viva:
– Da quel proverbio il ver non mai si toglie:
l’acqua ritorna lá donde deriva,
i fiumi al mar, la frode al frodolente,
com’aggio a provar ciò le voglie intente.
55
Quest’empio, avar tiranno,
cagion diemme
di far che nel suo laccio s’avviluppe,
tirán, che ’l ciel, non pur Gierusalemme,
non pur Giudea col guardo sol corruppe! –
Cosí parlando, tolse alcune gemme
del fanciul regio e ne l’albergo irruppe,
ove di quelle vagamente ornollo
e de la donna sua l’impose al collo.
56
– Va’ – disse – in Bettelem
con esso al sino,
ch’ivi le molte madri troverai,
ciascuna de le qua’ tien un bambino;
e tu col tuo fra quelle ti porrai,
acciò se ’l re, ch’or posto s’è ’n camino
sol per lá gire a oprar quanto saprai,
forse lo ricercasse, tu sia presta
offrirlo a lui: se non, fra lor ti resta. –
57
La buona donna, mentre ch’ad
effetto
vuol ciò mandar che l’uom sí la consiglia,
mena d’ancille seco un drapelletto
e quanto può secreto il calle piglia.
Va’ dunque, aventurato pargoletto,
va’, che del sangue tuo farai vermiglia
la man paterna che t’uccise in vece
di chi geloso del tuo regno il fece!
58
Per non perder un regno sol
di terra,
ove tu poi gli succedessi erede,
ei stesso te ne priva e l’empia guerra,
per te commossa, contra te succede:
ma l’unica bontá non sí ti serra
di chi rival tuo padre esserti crede,
ch’esso non pur non brama il seggio tuo,
ma seco regnator ti fa del suo.
59
Né ’l padre tuo né qual si
sia tiranno
sospettan giá ch’ei discacciar lor vegna;
anzi le voglie sue lontane vanno
sí da coteste cure, ch’ove spegna
la sete pozzo, ch’ove seggia scanno,
ch’ove riposi letto, chi ’n ciel regna
non averá fra noi, ma tien in core
sol d’esser di nostr’alme imperadore.
60
Giá vien di qua di lá piú
chiaro il suono
del venuto Messia scotendo i cuori;
ma non però di parlamenti sono
se non sepolti e taciti rumori,
promesso a larghe lingue e largo duono:
frutto ch’hanno le corti de’ signori.
Non osa il citadino aprir la bocca
che mille strali vede in su la cocca.
61
Madonna con Ioseppe il suo
tesoro
tien quanto può dagli occhi altrui distante:
non de le verghe, dico, e duon de l’oro
ch’offerto gli hanno i magi poco avante,
ma quel figliuol s’è la ricchezza loro.
Né sanno ancora del periglio istante;
onde sicuri al tempio se n’andâro
e de le non sue macchie si purgâro.
62
La legge a questo far gli
astrinse, non che
bruttasse lor qual sia picciola macchia.
Ma tutte fôr le occasioni tronche
al mal giudeo, di campanil cornacchia:
ch’ov’esso gremir voglia con le adonche
sue branche il carnal senso, abbaglia e gracchia:
qual cane abbaglia, e gracchia qual cornice
di retro a l’armelino e a la fenice.
63
Cadde la legge in l’uomo,
acciò madrigna
gli fosse mertamente acerba e dura,
perché l’ingrato, essendo de la vigna
eletta fatto erede a gran ventura,
fe’ come bestia nel desio maligna,
che sprezza l’orzo e segue altra pastura;
e questo avien, ché troppa morbidezza
fa calcitrando romper la capezza.
64
Però n’ebbe gran scorno e tal
emenda,
che di sí bel, che di sí altier corsèro,
levatagli l’usata sua prevenda,
discese ad esser brutto e vil somèro.
Ma perché men difficile s’intenda
quel che le rime dicon men intiero,
risposta mi sovien, che ’l Salvatore
giá fece a non so qual falso dottore.
65
Un uom scendea da l’inclita
cittade
Gierusalemme a Ierico per gire;
e mentre vavvi, traviando, cade
tra malandrini u’ non si può schermire:
l’han giá spogliato, e con pugnali e spade
di qua di lá sí ’l presono a ferire,
tal che, di piaghe tutto impresso e carco,
esso di morte si trovò sul varco.
66
Scorre di sangue a vene
sciolte un rivo
e l’alma per migrar venuta è al manco.
Arriva un sacerdote e mezzo vivo
il vede ansar con volto afflitto e bianco:
via se ne passa, come quel ch’è schivo
mirare altrui morendo trar del fianco;
ed un levita similmente aggiunge,
che quanto fuggir può sen fugge lunge.
67
Manca la voce al petto e ’l
lume agli occhi
onde veda chi passa, e chiami e preghi
che d’una ripa giú sí lo trabocchi
o per pietá quel mar di sangue leghi.
A fin d’amor fu l’alma e i sensi tócchi
d’un pio samaritan, che, senza preghi,
per sé, quinci passando, sollevollo
e non lontan sul suo ronzin portollo.
68
Nel primo albergo che gli
occorse il pose;
e come pria di vino e d’olio presto
fugli a lavar le piaghe, strepitose
pel soffio che n’uscia torbo e funesto,
cosí rimedicollo; e quelle cose,
ch’eran salute al caso manifesto,
disposte onestamente con l’ostiero,
gli diede l’arra e ciò che fu mistiero.
69
Cosí travenne a l’alma
nostra, quando
da l’alta e somma vision di pace,
donde le risse han sempiterno bando,
calossi in questo nostro men capace
terreno cerchio, dove travagliando
si va sott’altri rai nel ben fugace.
Qui l’ombre de l’inferno al passo intente
lei vider sola errar né furon lente.
70
In quella guisa che saltar si
vede
semplice capriuol di macchia o sasso
per girsi al mar vicino, né pur crede
né pensa pur che sia trarotto il passo;
ed ecco in fuga paventoso riede
per gli appostati veltri, che, giú a basso
precipitando in lui, giá in mezzo l’hanno
e fra lor morsi lacerando il vanno:
71
cosí gli neri spirti
s’avventâro
a l’uom ch’iva sicur senza sospetto.
In prima del gran senno lo spogliâro;
poi gli fiaccâr la testa, il fianco, il petto.
Misero lui ch’adultero, ch’avaro,
che falso, ch’empio e d’altre piaghe infetto,
nel cor, ne la ragion, nei sensi offeso,
pasto di lupi giacque in terra steso!
72
Passa la legge, passa ogni
profeta;
non è chi ’l miri pur, non pur chi l’erga,
non è chi almen d’intorno l’erbe mieta
e fattone un viluppo il sangue terga.
Stride l’alma perduta, ed a la meta
vien de la morte, e sta chi omai l’immerga
ne le perpetue fiamme di Geenna
cui dir qual è né lingua val né penna.
73
Vinta natura dal carnal
costume,
altro non è di noi che morte interna:
passata l’alma di Caronte il fiume,
non è piú alma no, ma un’ombra eterna.
Trarne lei, dunque, fuora chi presume
se non amor, se non bontá superna?
né di profeta né di legge possa
tant’è che le sue piaghe saldar possa!
74
Dal ciel ove de l’uom custodia
s’have
l’apportator vien certo di salute.
Quasi che spento il trova e ’n guisa grave,
ch’omai non v’è piú polso di virtute:
col vino del timor, poi col suave
olio d’amor gli bagna le ferute;
poi, toltolsi di croce in sul giomento,
dállo del tempio a chi hanno il regimento.
75
Quei duoi liquori tutto che
sian tali
ch’altrui possian guarir senz’altre cure,
vuol nondimeno il Salvator che i mali,
nel ciel rimessi a noi sue creature,
narrati mondi sian da’ principali
de la sua Chiesa, e che da lor si cure
che d’ambo e’ Testamenti l’arra ferme
le medicate piaghe in terra inferme.
76
Ma parmi udir (che fia
cotesto, Euterpe?)
voci di pianto e suon di man con elle.
Ov’è fuggito il giorno? e donde serpe
la notte, che ci tolle cose belle?
Veggo con capo d’uom non so qual serpe
che si tra’ dietro un stol di feminelle.
E chi è? del crudo ed omicida Erode
la mal coperta e simulata frode.
77
Eran da poco men di mille
donne
con egual numer di fanciulli ascese
del fier palazzo avanti le colonne
ove ’l ribaldo re l’aguato tese.
Ecco vien fatto un segno, e per le gonne
e per le trecce son l’incaute prese
da cento armati, c’han, le nude spate
insanguinate, giá prese le strate.
78
Dico che a suon di tromba
quelle fiere
(ch’uomini dirli fôra disonore),
come d’un grosso esercito le schiere
pensasseno d’entrar, van con furore
per stare a’ paragoni ed a frontiere
di feminucce colme di terrore:
trannole a terra, e ciò che di conigli
farian cento mastin, fan di que’ figli.
79
Ahi veramente svergognata
prole!
Qual è sí vil viltá che non t’avanze?
Voi con conocchie dunque, voi con spole
avete a maneggiare e stocchi e lanze?
Potretevi lodar che mille gole
di teneri fantin, che mille panze
apriste per serbare il re, c’ha sdegno
ch’un fanciul nudo debbia tôrgli il regno!
80
Levasi un pianto al ciel
dirotto e strano:
il re stassi a mirar dal crudo soglio.
Quel veder presso, quel sentir lontano
so ben che di pietá romprebbe un scoglio:
e pur quel core altier, quell’inumano
s’enfia piú d’ira e scoppia piú d’orgoglio;
mira d’infanti nudi far quel strazio,
ma di mirar non vien però mai sazio.
81
Or Petronilla (ché cosí si
noma
la vicemadre del figliuol d’Erode)
non sa le furie de la bestia indoma,
anzi va lieta, ed infelice gode:
giá s’avicina con l’amata soma,
e sta sovente al suon di voci ch’ode;
ma non distingue s’è dolore e pianto
de la citade, o s’è letizia e canto.
82
Passa piú oltre e viene
insino al varco,
dove gran voglia di campar la tenne:
volta le spalle qual saetta d’arco;
ma fu chi, lei seguendo, ebbe le penne.
Un moro, ancor che d’arme fosse carco,
cacciolla sí ch’al passo la ritenne;
la qual, con quanta voce in petto avea
gridando, esser figliuol del re dicea.
83
Giá non intende ebraico un
africano,
perché sceglier si debbia il regio pupo:
stringelo al collo con l’audace mano,
e fa di lui quel che d’agnello il lupo.
Né questo assai gli fu, ché l’afro insano
in un pozzo vicin profondo e cupo
gittò la donna, e per suo mal destino
rubò le perle al morto fantolino.
84
Le triste madri scapigliate
vanno,
chi qua fuggendo via, chi lá seguendo:
fuggon, chi ’l dolce pegno in sino anc’hanno
o tutto o mezzo morto o intier vivendo:
seguon chi l’han perduto, e piagner fanno
le asciutte pietre al pianto lor, vedendo
chi ’l suo troncar per mezzo, chi scannarlo,
chi come vetro al marmore schiacciarlo.
85
Vedesi alcuna d’esse con man
destra
strigner quella d’un uomo armato presa,
ma dietro il figlio tien con la sinestra,
e quanto donna può fa sua difesa.
Si vede un’altra come lonza destra
pel morto leoncin pigliar contesa
con chi l’ha spento a pugna, calci e denti;
né foggia di mort’è che la spaventi.
86
Tal è che, la ferita d’una
spanna
mirando in ventre al suo, quel corpicello
afferra dal duol vinta, e come canna
il va spezzando in capo a questo, a quello;
tal che co’ denti un di que’ cani assanna,
e mentre l’una man vieta ’l coltello,
l’altra nel collo il tien fin che rimaso
lascialo senza orecchie o senza naso.
87
Ma la piú parte a suon di man
e petti,
errando di qua e lá com’ebre bacche,
tornan urlando ai viduati tetti
ove di lacrimar non son mai stracche:
altre fuor la cittade per negletti
sentier van via muggiando come vacche,
ch’essendo prive di lor care salme,
non han piú in petto cor, non han piú alme.
88
Or che facean gli amaricati
padri?
givan taciti, soli, afflitti e tócchi
da orribil duol, per luoghi alpestri ed adri;
duol che gli accora e scoppia fuor per gli occhi.
Oh qual tragedia piangon lá le madri!
qua giacion morti i figli, e de’ ranocchi
dal pescator mal conci in guisa stanno.
Pensi chi è padre, s’è tal altro affanno!
89
E ben l’oracol del profeta
quivi
se ne riman disciolto quando chiama
ed alza quanto può gli accenti vivi,
dicendo: «Voce fu sentita in Rama!
Rachelle, i figli suoi di vita privi
piangendo, non mai cessa, afflitta e grama,
di sollevare al ciel lamenti ed urli,
perché non son né in vita può ridurli».
90
Pur l’incarnato Verbo, che ’n
Egitto
fuggí dapoi l’andata de’ sabei,
dovendo far di terra in ciel tragitto
al tempo suo con splendidi trofei,
qui rotto il mondo nel primier conflitto
furò mill’alme dagli spirti rei
per riportarle trionfando al Padre
quando vi salirá fra squadre e squadre.
91
Itene dunque, o leggiadretti
spirti,
itene ai padri vostri ad aspettarlo!
Da questo mar d’orrendi mostri ed irti
sciolti oggimai, non dolgavi lasciarlo!
Itene agli orti ameni, e di que’ mirti
e di quei lauri non suggetti al tarlo
tessetevi fratanto ghirlandette,
ché d’esse ornati andrete a l’alme elette.
92
Il vostro comun Padre di lá
suso
ben ha qua giú notato chi v’offese.
A lui sta la vendetta, a lui sta ’l chiuso
furore aprir, c’ha l’arme in man giá prese:
scemata è la conocchia e colmo il fuso:
troppo a tagliare il filo Cloto attese;
anzi non tagliarallo, quando ch’esso
Erode fia la parca di se stesso.
93
Pensossi forse il pazzo esser
da tanto
ch’a l’alta novitá potesse opporsi;
ma degnamente un stomacoso manto
di tristi vermi se gli mise a’ dorsi.
Or vada l’infelice e diasi vanto
de le stelle aver vòlto adietro i corsi!
Mugge qual toro e contra sé adirato
l’armata man si volge nel costato.
94
Ricorre al ferro ne l’estremo
vuopo,
però ch’impiastro alcun, ch’alcun violeppe
di medico africano od etiòpo
non mai l’interno ardor spegner gli seppe.
L’angel allora prestamente, dopo
l’estinto rege, dissonnò Ioseppe,
il qual giaceva in quello istesso luoco
dove giá vide Mòse il rubo in fuoco.
95
Vide ’l rubo che, in fuoco e
viva fiamma
mentr’arse, e de la bella sua verdura
e del natio suo bel cespuglio dramma
non perdé mai, mostrò l’alta figura
di donna tal, che di sua vergin mamma
ivi nutrí Chi nutre la natura,
chi (vero Mòse!) noi d’Egitto trasse
di latte e mèle a le contrade grasse.
96
Andiam de le Scritture omai
nel porto,
ch’ivi, dapoi diversi corsi e piagge,
gli tropi e sensi come in lor diporto
tengon ridotte l’alte menti e sagge.
Sol fra le secche de la lettra morto
riman chi da lo spirto si sottragge,
il qual da l’uno e l’altro Testamento
a chi ben poggia spira dolce e lento.
97
Temette Faraone re d’Egitto
che ’l volgo ebreo si gli torrebbe il regno:
di che molti e molt’anni l’ebbe afflitto
(ché di farlo perir tenea dissegno),
e fe’, sott’aspra pena di delitto,
bandire a l’ostetríci che di pregno
ventre chi chi nascesse maschio infante,
da loro fusse morto in quell’istante.
98
Quinci gran doglia, ch’entro
al petto tace,
consuma notte e dí gli afflitti padri
perché constretti son (quel ch’anco spiace
a tigri e lupe!) i figli lor leggiadri
precipitar nel fiume, il qual, vorace,
ratto gli assorbe, ch’escon da lor madri.
Onde, se mai d’uom pianse il crocodilo,
pianse piú allor che ’n vide colmo il Nilo.
99
Or un di loro, Amarami chiamato,
spera nel Re de’ re, ch’ascolta e vede;
ascolta i lai, vede l’iniquo stato
di quel ch’ogn’altro popol antecede.
Costui (come da l’angel suo portato
nunzio gli fu) produce un figlio erede,
ma occulto il tien, perché non ha pensiero
d’ubedir un tiran spietato e fiero.
100
Per spazio di tre mesi vivo
il tenne,
ma cento volte l’ora esso morio.
Dir non si può quant’émpiti sostenne
da sorte, ch’odia il buono ed ama il rio:
la qual stancò pur tanto a sé le penne
sopr’esso, ch’uscí fatto il suo desio.
Però che con minacce di terrore,
che non fallisca al re gli mette in core.
101
Tesse ’l buon uom di scirpo
angosta cesta,
e l’ugne e stipa in torno di bitume;
chiudevi dentro il figlio e sotto vesta
raccolto il porta, e fanne un duono al fiume.
Vassi giú Mòse, e la sua sore presta,
mentre ’l seguía, non mai gli torce il lume:
Maria costei fu detta, com’è scritto,
Maria fu chi servò Iesú in Egitto.
102
Mirate, signor miei, mirate
dove
vengonsi ad affrontar la forma e ’l vero,
parlo come le carte antiche e nuove
concorron di diversi in un sentiero!
Avete di duo re le infande prove,
tanti fanciulli uccisi a loro impero:
sol campa Mòse, d’Israel rettore;
campa Iesú, del mondo redentore!
103
Ioseppe, desto in su la prima
aurora,
coglie gli arnesi e adorna l’asinello;
gli pare ogni quantunque picciol’ora
mill’anni di tornarsi al dolce ostello.
Siede nel vil giomento la Signora
degli angeli col suo leggiadro e bello
Figliuol nel lembo de la vesta involto,
tenendolsi ben stretto volto a volto.
104
Ma, perché stia fra le due
man con agio
il fabro ha tolto cura del capestro;
ed anco, acciò non pátano disagio,
sempr’è lor pronto servitore e destro:
e s’han talor camino, il qual malvagio
o sia per densa valle o monte alpestro,
non tende ad altro e d’altro non gli cale
ch’agevolare il passo a l’animale.
105
Pur star non volle il giá
cresciuto Infante,
agli quattr’anni, sempre in braccio a lei:
piacquegli su le sue divine piante
gire a le volte o cinque miglia o sei;
e, come andando a lui cascâro avante,
cosí cadder tornando i falsi dèi,
adempito l’oracol, ch’era scritto
che i simulacri mossi fian d’Egitto.
106
Mercurio non v’è piú che ’n
cane abbagli,
non Sol che muggi in bue, non Luna in vacca:
quegli adorati porri, cepe ed agli
tutti Iesú passando rompe e fiacca.
Or fa mistier che ’l mondo si travagli
de le menzogne quante Grecia insacca,
ed un fanciullo tenga per la chioma
mille, se mille son, non ch’una Roma!
107
Ove stan oggidí quei folli
riti
osservati da Numa e d’altri saggi?
quei Marti, Giovi, Bacchi, Febi e Diti?
e quegli dai cornuti lor visaggi,
Arpie, Demogorgoni, Ermafroditi,
ninfe di monti e fiumi, d’olmi e faggi,
dove son giti? ahi pazzo mondo, quanto
di saper nulla può donarsi vanto!
108
Come in un orto vidi errar
talotta
le capre, o se son bestie piú importune,
se ’l pastor viene, tutte in una frotta
scampano, ma pasciute e non digiune;
trova ogni pianta o tronca o svelta o rotta,
né ramo vi è da’ morsi lor immune,
cacciale quanto puote a gridi, a sassi
fin che le vegga giú nei fossi bassi:
109
in tal sembianza gl’infernali
bruti,
pascendo di nostr’alme nel giardino,
venutovi Iesú, lasciaron muti
quei dèi, qual d’alabastro qual d’òr fino:
sparse trovovvi e guaste le virtuti
e starse le buon’opre a capo chino:
fuggîro al basso i maladetti cani,
lasciando i lor metalli e sassi vani.
Ioseppe, dopo lunga e
alpestra via,
pervenne a la sua patria in Israelle;
ma tosto il dolce incarco altrove invia
per tal che portò a lui triste novelle,
ch’ivi Archelao teneva signoria,
non men del padre astuto e versipelle.
Però quel buon nutriccio fu costretto
di Bettelem girarsi a Nazaretto.
111
Ivi appiattò la dolce
famigliola
e quanto può con loro stassi occulto.
Fra tanto, alcun mi chiede se a la scola
andò Iesú giá ne’ cinqu’anni adulto.
Rispondo ch’un tal fatto in mente sola
di quei, ch’erano allor, riman sepulto:
ben crederò che ’l Dio quando co ’l padre,
che l’uom quando parlava con la madre.
112
Non vo’ pensar che ’l sol
d’ogni scienza
e Lui, che ’l tutto sa, parte apparasse:
ver è che ne’ prim’anni ebbe avertenza
ch’esser qual era punto non mostrasse.
Con altri usò talor; però non senza
che la diletta madre lo lasciasse:
tant’ebbe sempre a cor, tanto gli piacque
viver suggetto a lei dal dí che nacque.
113
Cresciuto a duodeci anni,
savio, umano,
bello, gentil, cortese, umil e schietto,
al tempio il piede, al povero la mano,
l’ingegno avea veloce al santo effetto:
atto che fosse puerile o vano
non si vedendo in lui, nascea sospetto
fra gli uomini saputi che ’l Messia
foss’esso, cui tant’anni ognun desia.
114
Madonna, ch’ode il tutto, sa
tacere
o ricoprire, a chi ne chiede, il fatto.
Pur mal si può celar quel che vedere
ciascun potea, da sí bel corpo tratto.
Giá non mancò chi con parole vere,
alquanto dal volubil volgo estratto,
dicesse al suo fedel: – Se non vaneggio,
in quel figliuol divina essenzia veggio. –
115
Or una de le molte volte
avenne
ch’esso con essa madre e piú cognati
al tempio in Gierosolima sen venne,
ch’eran non so che giorni a l’ocio dati.
Quivi, con apparecchio piú solenne
d’ogn’altra festa, sonsi raggunati
dottori, scribi, mastri e sacerdoti
per trar da le Scritture i sensi ignoti.
116
Al santo damigel graditte un
puoco
furarsi da la madre, ché ’l celeste
suo Genitore il tiene in simil luoco,
dove fra crespe fronti e bianche teste,
che piene esser dovean del santo fuoco,
sedette a interrogarli con le preste
sue vive parolette, a tal ch’ognuno,
stupendo, stava di parlar digiuno.
117
Fratanto a sua citá Madonna
arriva
con l’altre due Marie di lei germane;
non vi ritrova il Figlio e, piú che viva,
morta nei sensi e nel color rimane.
Duro cordoglio ingombra quella diva,
cui gli occhi son giá fatti due fontane;
credea che con Ioseppe o Zebedeo
fosse arrivato inanti e con Alfeo.
118
Non punto sta, ma cerca nei
propinqui
castelli e borghi; a quattro, a sei domanda;
ed in quel tempo in luoghi piú longinqui,
per tutta Galilea, quel, questo manda:
– Tapina me! – dicea – perché relinqui
lo mio tesoro, ch’or da questa banda,
ch’or da quest’altra sempre l’ho tenuto,
ed è per mia sciocchezza a me perduto? –
119
Passa quel giorno, passa un
altro appresso,
e cosa non ne ponno intender anco.
Chiama Ioseppe ultimamente, ed esso
(del qual non altri fu sí fido unquanco)
investigar vuol sí da lunge e presso,
ch’alfin sel veda ritornato al fianco.
Va con Madonna, e per voler divino
piegâro al tempio il lor primier camino.
120
Giunti a le porte veggono la
gente
addossarsi l’un l’altro per sentire
quell’Unico garzone, ch’eloquente,
grave, leggiadro e singolar, e in dire
senza gener, suggetto ed accidente,
sa molto ben proporre ed arguire:
ma quando a sé venir la madre vede,
piglia da lor congedo e a lei sen riede.
121
Madonna, incontro mossa, il
prende a mano
e con ragionar basso dice: – Ahi, Figlio,
perché voi feste a noi cosí? qual piano,
qual monte non cercammo? qual exiglio
a noi saria piú acerbo, che lontano
dagli occhi nostri avervi un mezzo miglio? –
Iesú risponde: – A che cercarmi tanto?
a che co’ passi ancor gittate il pianto?
122
Non sapevate voi che ’n
quelle cose
che sono del mio Padre esser mi lece?
Non tal promette Abramo, non tal Mòse,
perché mi debbia star d’un ceppo in vece!
Giá gli anni si son giti de le rose
gli anni de l’òr, c’hanno da l’uno a diece;
ho da pensar giamai nel remanente
stoltizia farmi a la futura gente. –
123
Cosí favoleggiando passo
passo
al pover tetto loro se n’andâro,
dove piú giorni, mesi ed anni basso
e sottomesso a lor star ebbe a caro
fin a quel tempo che, di sopra un sasso,
in ripa del Giordano incominciâro
le orrende voci di Giovan Battista
giá farsi udir di tutto ’l mondo in vista.
124
Ma veggo Apollo a l’orizzonte
nostro
volger le spalle polveroso e stanco;
veggo ’l caprar de la sua mandra il chiostro
serrato aver co’ fidi cani al fianco.
Adio, signor devoti, adio! ché ’l vostro
udir col mio cantar giá venne al manco,
e l’ombra de la terra e l’ore corte
ne chiaman tutti a l’ombra de la morte.