Teofilo Folengo
La umanità del figliuolo di Dio
Lettura del testo

LIBRO SESTO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

LIBRO SESTO

1

Nel ciel degli piú ardenti spirti adorno
tutte le belle e graziose dèe,
c’ha l’aureo divin seggio, atorno atorno
menan le oneste e sante lor corèe:
vengon spesso, dove fan soggiorno
dipinte forme ed essemplar idee,
che ’l vecchio fato ha sotto a la sua cura
e ne fa norme ad opre di natura.

2

La qual, come d’ocio non amica
e c’ha le man sempr’al martel callose,
un piede sol non forma di formica
(men lo sapria formar), non ch’alte cose,
prima che ’l sommo Padre a lei nol dica,
e che le dia di quelle stampe ascose;
come chi qualch’orto a far si move
non ha le piante e le procaccia altrove.

3

Ma l’alto Imperador però non vuole
ch’ove di grosso mur cerchiò quel barco
altri che le dilette sue figliole
v’abbia, se ben foss’angel, uscio e varco.
Un re terreno cosí far qui suole
d’alcun suo bel giardin, che ne sia parco:
ben fôra temerario chi v’entrasse
se ’l re quant’ i stessocchi non l’amasse.

4

Entran le sante donne a lor diporto
ne le paterne piú rimote case,
ove quel vecchio, non per anni smorto,
anzi fondato in su ben ferma base,
accoglie loro in quel mirabil orto
di piante non piantate ancor, ma rase
di ramuscelli non avuti unquanco,
e chi del ner destino e chi del bianco.

5

Tutte volgendo sotto sopra vanno
quelle nate di Dio, del ciel sorelle.
Èvvi Giusticcia in un fregiato panno
di gemme e d’oro a guisa di fiammelle;
Fortezza e Temperanzia in mezzo l’hanno;
Prudenzia lor maestra dietro a quelle;
èvvi Fede, Speranza, e chi ’n amore
fiammeggia sempre e nutresi di core.

6

Èvvi Misericordia, èvvi Pietade:
non questa mai da quella s’allontana;
con Pudiciccia va Simplicitade;
Concordia va con Pace sua germana;
nel fin èvvi la schietta Veritade,
ch’a l’altre appar degli omeri soprana;
va seco a braccio a braccio una matrona,
ch’è Sapienzia, e mai non l’abandona.

7

Or una di piú volte cosí passo
passo in andando avean quell’alme dive
parlato assai di questo mondo basso
e de le piante morte e de le vive;
quand’essa Veritade ste’ sul passo,
la qual sola taceva, e con furtive
orecchie fin allora il core avea
drizzato al ragionar che si facea.

8

Ruppel silenzio e cominciò: – Gran tempo
fa ch’io parlar doveva, e sempre tacqui:
se dir lo ver non mai tropp’è per tempo,
so che tacendo a tutte voi non piacqui:
or non piú vi son muta, or non piú attempo!
Lo son colei c’ho padre e mai non nacqui:
vòvi giamai aprir (ch’amor mi morde)
moltocchi ciechi e molte orecchie sorde.

9

Voi queste verghe e rami novelletti,
onde a natura un bel poder riesce,
ornate di befrutti , ma schietti
non fian s’un vepre sol tra’ fior si mesce,
perché di vivo umor son intercetti
da quel mal pruno che ’n gran selva cresce;
e questo è Falsitá, che tien ciecati
gli Aristoteli vostri, Omeri e Plati.

10

Prendo a mirar talor le creature,
ma quelle piú di vostre doti altiere:
veggo molti per voi ne l’armature
gir vincitori e carchi di bandere,
altri per voi c’han sparse le scritture
di gran dottrina e d’alto e bel sapere,
ed altri d’altri fregi per voi chiari,
ma statue senza me furon d’altari.

11

Quei vostri Fabi, Scipi e quei Pompei
che d’arme pari e d’onestate andâro,
quei Socrati, Zenoni e quegli Orfei
che ’n varie openion filosofâro,
quei Trismegisti e Febi, ch’esser dèi
(vostra mercé) le genti si pensâro,
or san che ’l suo saper fu poco e nulla
e ch’uom dal ver lontano è sogno e bulla.

12

Ben troppo ebber audaci piedi e mani
per aggrapparsi a l’ardua salita;
ma risospinsi lor come vani
cui sol per gloria fu virtú gradita;
e quanto eran piú saggi, piú lontani
da me tomaron giú senz’altra aita,
ché ’l caso di coloro è sol mortale
che poggiar voglion piú ch’affidan l’ale.

13

La sapienzia (non costei che meco
vedete unirsi come luce al sole,
quella delira e sciocca che d’un greco
nasciuta si fa dir di nostra prole)
infino a qui condotto ha ’l mondo cieco
e fatte in lui d’errori mille scole:
or io le ’mpagherò, pazza solenne,
che volar spera e indarno apre le penne!

14

Da che col Padre fabricai la terra
ch’a sé sostegno sia, ch’a sé sia pondo,
a questi giorni il volto mio si serra,
ché di vederlo non fu degno il mondo
giamai. Voscender giuso infin sotterra
e farmivi vedere a tondo a tondo,
acciò tra gente altiera e troppo arguta
scusa non sia non mi v’aver veduta.

15

Tu, Caritá, tu, Pace, v’accingete
al venir meco in cosí nuova impresa,
anzi voi, sore tutte, soccorrete
fin ch’onorata palma siami resa:
andiamo insieme unite, che mi siete
non importune ad una gran contesa!
Ver è che ’l tuo rigor, Giusticcia, voglio
sen stia fratanto chiuso in qualche scoglio. –

16

Alzò la fronte allor quella severa
e: – Perché – disse – senza lui ti metti
a voler giú calar tra gente fiera,
tra man rapaci e frodolenti petti?
e perché tu, del ciel somma guerrera,
con esso brando mio non li sommetti?
Esso fa tanto, ch’io non vodir piue:
mister quant’altra cosa a l’opre tue.

17

Ch’io ’l leghi a la catena in cavo sasso
non so veder perché, se mi rimembra
l’antico uman orgoglio, il gran fracasso
di quei ch’avean le gigantesche membra,
quando voltâro al ciel l’audace passo
dove il largo Eufrate un mar rassembra;
ed io, da lor schernita e vilipesa,
lasciai, per cui mandasti me, l’impresa.

18

L’atto però non parveti da gioco,
avendone poc’anzi essempio e norma
d’angeli, ch’èsca son d’eterno fuoco,
mercé ’l rigor ch’or chiuso vuoi che dorma:
veramente non ha teco luoco
ch’allor de la Superbia sparí l’orma;
ché per suo mezzo Atlante, Olimpo e Calpe
nuotâr sott’acqua, e fe’ sbucar le talpe.

19

Mio parer non è dunque (se la voce
ho teco qual sempr’ebbi) che tu vada
piú tosto a tôr che dare altrui la croce,
e pur voler ch’arrugini la spada
quest’uomo, il qual tant’ami, piú feroce,
calca la terra, e nulla il ciel gli aggrada
piú che Bontá gli applaude, e va baldo
che non si duol, ma gode esser ribaldo. –

20

Stette a quel dir giusto Veritade
in vista quasi di cangiar sentenzia;
ma presta il collo abbracciale Pietade,
pregando lei che per sua providenzia
degni del perdutuomo a le contrade
scender non con rigor, ma con clemenzia.
Speme ch’è de’ mortai l’ambassatrice
ascolta piú de l’altre ciò si dice.

21

Ma, non essendo tanta, ch’ardir deggia
mover in propria causa ivi contesa,
spinge la Fede avanti, e le motteggia
ch’ad una simil lor comune impresa
non come neghittosa e tarda seggia
e lasci di pigliar per sé difesa,
però che a lei, secondo il gran dissegno,
di Legge sta promesso e scettro e regno.

22

Fede, ch’a tanto imperio avea da gire,
fa d’occhio a Caritá ch’usi su’ arte;
tien Forza con Giusticcia, né sentire
vuol per niente la pietosa parte;
Tempranzia inversa che far né dire;
Prudenzia con lei tratta s’è ’n disparte:
Concordia e Pace assai tramesse fanno,
or quinci or quindi componendo vanno.

23

Ed ecco stava dietro a due colonne
di quella loggia un’umil feminella,
ch’indegna tiensi usar con l’alte donne,
essa ch’è d’ogni vil servigio ancella,
dolce d’aspetto e povera di gonne,
c’ha pur con seco un’altra sua sorella,
che tacita si batte il petto e mira
con gli occhi a terra e lagrima e sospira.

24

Misericordia corse , ch’avegna
fosser in rotti arnesi non le sprezza.
– Chi siete? – addomandolle – Chi vi degna
puoter di terra uscire a tanta altezza? –
Risponde quella c’ha la guancia pregna
di lagrimose stille: – La bruttezza
di noi, madonna, poco ardir ci dona
venir dove fra voi si questiona.

25

Costei si è l’Umiltade, mia sirocchia,
ed io la peccatrice Orazione:
lasciato abbiamo a l’ago, a la conocchia,
l’odiata Povertá da le persone. –
Cosí parlando acchina le ginocchia,
e brievemente il lor venir le spone
aver sol cagionato donna Spene,
patrona lor, che ’n piede le sostiene.

26

L’intenerita dea, che molto affetto
tiene a Speranza, lor signora, vede
starsi compunzion nel costei petto,
le die’ la mano e sollevolla in piede,
dicendo: – L’umil pianto, al padre accetto,
ottien ciò ch’un contrito cor gli chiede.
Non fuor di quelle porte dunque andrete,
ché vosco a salvar l’uom noi tutte avrete. –

27

Cosí ragiona e torna donde mai
non parte e, benché sappia, saper cerca
per quai ragion dia la sentenzia omai
che data è sempre ovUnitade alterca:
senza contesa avean conteso assai,
ch’ivi ’l suffragio, al ben comun si merca,
e di rissosa pace un stabil moto
de l’inspartite parti adempie il voto.

28

Or quando Sapienzia molte e molte
cagioni addusse del voler paterno,
Giusticcia e Forza s’acquetâro, e sciolte
furon le gare loro in sempiterno:
Giusticcia e Pace in braccio s’ebber còlte
con dolci baci, onde tremò l’inferno;
Misericordia e Veritá scontrate
tolser la croce e poser giú le spate.

29

Fu dunque de l’idee a cotantopra
la maggior scelta ov’eran scritte d’oro
la I, la E, la S, la V dissopra,
e l’altre a lei facean d’intorno un coro:
Natura in questa solo non s’adopra,
ma di vertudi e grazie il consistoro
l’accoglie nel serbato tuo bel fiore,
Virginitá, dondesca il Salvatore.

30

In te la dea verace, la prudente,
la giusta, la fedele, la pietosa,
la forte, la temprata, la clemente
infin con tutte l’altre l’amorosa,
preser magion con la divina mente
fin che fiorí sul ramo intier la rosa;
donde l’odor suave in tanto crebbe,
che il ciel, la terra, il mar, l’inferno n’ebbe.

31

Uom era come noi di carne ed ossa,
non come noi di vita e gesti vani,
ch’un’alma, di terreni affetti scossa,
mostrò di fuor costumi sopraumani:
pose la sua non mai finita possa
Dio padre a lei formar con proprie mani,
per farne un duono al suo par intelletto,
che sol fu sempre e fia del ben suggetto.

32

Or qui l’abbiamo in terra, eccol, signori,
vien come il buon pastor con gli agni drieto;
ecco mirate il volgo ch’entro e fuori
tutto di varia peste immondo e vieto,
esce a lui contra; e quanti e quai langori
sono antiposti al medico discreto,
quai ciechi e sordi e muti, quai sciancati,
quai di demòni e quai d’umor enfiati!

33

Tra’ quali mezzo al monte si gli affaccia,
ecco, chiamando un povero lebroso:
Signordicea – potete (pur vi piaccia!)
mondarmi d’esto mal dispettoso,
deforme , ch’ognun m’aborre e caccia:
la legge, il tempio, il mondo m’è sdegnoso.
Voi, medico gentil, dal ciel disceso,
s’ho punto , levatemi tal peso! –

34

Stette l’Autor del bene in su le piante,
mosso a diletto d’una pura:
non torce il ciglio con altier sembiante,
non come scriba il naso si rattura.
Tosto pietá, ch’è ’n lui, gli mette inante
quella per cui discese creatura,
forma del ciel, peggio di fango avuta;
onde trarlasi appresso non rifiuta.

35

Palpa con mano quel cadaver vivo
e quanto può sommette il nostro orgoglio,
ché non pur non gli è sordo, avaro e schivo,
ma gli risponde, tutti odendo: – Io voglio
quello che Fede vuol; però tu privo
non oltra sei del tatto altrui, ch’i’ toglio
– in questo dire apparve mondo e netto
dal corpo il suo, da l’alma il tuo difetto.

36

Pur non volendo, ancor io potestade
di dar fra lebra e lebra il mio giudiccio
non ti dicchiaro aver la sanitade,
ché ciò de’ sacerdoti è sol ufficcio.
Ad uno d’essi, cui l’impaccio cade,
va palesarti presto e farne indiccio:
dillo a lui solo, al volgo il tacerai,
ch’essendo sano, sano apparirai. –

37

Quivi lasciollo; e, giunto a pié del monte,
ecco la turba intorno si gli addossa.
Son la piú parte quai disfatte impronte
per varie infirmitá, son statue d’ossa;
ma tutti rende a la primiera fronte,
pur ch’abbian fede. Ed ecco in su la fossa
lungo a Cafarnao un capitan di Roma
chino lo adora e per signore il noma.

38

Signordiceva, – un servitor mio caro
paralitico giace ’n casa mia;
non gli son d’èsca e medicine avaro,
acciò che san renduto alfin mi sia;
ma ciò riesce invano, ché ’l riparo
sol è da voi, ch’avete l’arte e via
di risanar ogni diffetto e duolo:
e questo avien che siete a Dio figliuolo. –

39

Iesú, che ’l tenor sente non di bocca,
ma di cor nascer d’uomo a l’arme usato,
in cui la abonda che trabocca,
e l’ha di Dio figliuol giá confessato,
fermossi a lui ché ’l cor pietá gli tocca.
I’ vengo – disse – e fie per me sanato! –
Ma quando egli sentí parlar: – I’ vegno! –
gridò: – Ch’entrate a me? non son io degno!

40

Ch’entrate a me, Signore? indegno sono!
voi santo e margarita, io cane e porco;
voi del Padre splendor, voi sommo buono;
io tenebroso e sommamente sporco!
Di che non merto tanto, e questo duono
s’impetro pur da voi, di tal vigor co-
gnosco vostre parole, che lontano
una si dica: –Il servo mio fia sano! –

41

Che s’io, vil uomo a Cesare supposto,
compitamente i suoi precetti adempio,
né solamente ubedir lui m’accosto,
ma tengo molti servi, c’hanno essempio
da me di far ciò che per me gli è imposto,
piú voi dovete commandar, che ’l tempio
del ciel fondaste e cose tante e belle,
ch’ad ubedirvi son pronte e snelle! –

42

Allor di tal fiduccia il gran prudente,
quantunque pria nel senso impressa l’abbia,
meravigliossi in vista accortamente,
acciò che del giudeo l’enfiata rabbia,
il cuor ciecato e l’ostinata mente
purgasse come morbo, piú di scabbia,
piú di lebra funesto, il qual vedea
fatti degni, e pur non gli credea!

43

Vede l’ebreo superbo, ingrata prole,
al contar gli anni, al real ceppo, ai segni,
esser costui quell’aspettato Sole
che i rai dovea partir del mondo ai regni.
Vede, ma non veder quel falso vuole,
né di voler veder ch’alcun il degni:
però Iesú qui gli ebbe a la sua rete,
non importuni a udir quel ch’udirete.

44

Vòlto dunque di loro a molta copia,
che d’oltraggiarlo per rubar cagioni
seguendo il vanno, disse: – Ahi! quanta inopia
portate voi di fede a’ miei sermoni!
Ecco gli strani erranti, cui la propia
sorte d’esser meno di voi buoni,
men pravi di voi sono e meno assai:
però n’avran la gioia e voi gli guai.

45

Perché v’affermo, e siatene pur certi,
che voi, figliuoli, al Padre contumaci,
duri, malvagi, sonnachiosi, inerti,
dal patrimonio vostro e da feraci
empirei campi agl’infimi deserti
sarete messi, e quelli fian capaci
del ben da voi perduto e fatti eredi
godran di veder voi sotto lor piedi.

46

Sotto lor piedi avranno voi, leggiadre
del mondo genti come v’estollete,
poi su dal sin d’Abramo vostro padre,
donde altieri a voi stessi piacete,
giudicheranno ad esser fra le squadre
de’ maladetti spirti, dove avrete
da star con essi eternalmente in fuoco,
e del vostro vantar faransi giuoco. –

47

Poscia, converso a quel centurione:
Va’, figliodisseva’, ché la tua fede
ti rende salvo il servo, ma le buone
anch’opre giunte a lei da Dio si chiede.
Giá senza quelle alcuno guiderdone
non unque avrá chi solamente crede,
come a simil segno l’opre vane
van senza , son fra lor germane. –

48

Pietro, che mira l’eccellenti prove
succeder del maestro ai documenti,
alquanto il suo fratel dagli altri smove,
seco alternando bassi parlamenti:
quindi vorian conducerlo dove
la socera di Pietro batte i denti
d’una continoa febre, ma rispetto
han d’invitar tant’uomo a l’umil tetto.

49

Non spiacque al Regnator de’ sensi allora
de’ duo german la semplice viltate,
che suol proceder da chi molto onora,
tal che sen perde l’util piú fiate.
Movesi verso il luoco ove dimora
la famigliola lor con povertate;
non ch’a Simon quel proprio albergo fusse,
ma d’indi giá la moglie sua condusse.

50

Ad amboduoi nel petto il cor saltella
di timidallegrezza e pia vergogna,
quando su l’uscio d’essa capanella
pervenne l’aversario di menzogna.
Or chi vedesse il gentil Pietro in quella
divina entrata come si vergogna!
Pur mette in opra ognun, ch’assai gli pare
lui seco aver chi empí de’ pesci il mare.

51

L’inferma donna dal suo letticiuolo
a l’apparir del medico rivisse;
cognobbel ch’era di Maria figliuolo,
la cui gran fama tanto ben le disse:
al tatto de la man divina solo
la febre, che piú notti e l’afflisse,
partí col suo ribrezzo e di galoppo
cercando iva fra noi chi beve troppo.

52

Iesú, che freddo e caldo, fame e sete
sostenne come noi mentre qui apparve,
domanda il cibo; e Pietro, con la rete
in collo, al vicin lago ratto isparve,
e, mentre Andrea non so che d’orto miete,
riporta d’indi alcune forme parve.
La pronta feminella il pesce adorna
e apporlo al suo Galen non piú soggiorna.

53

Tu dunque, o Creator, tu Re del mondo,
fra cosí bassi cortigian discombi?
Ove le gemme, ove de l’oro il pondo,
ove l’argento pien di tòni e rombi?
Ma perché d’umiltá peschi nel fondo,
a la bassezza quanto puoi soccombi?
Per vivo essempio a’ tuoi vicari darne
d’amar le scardovelle, odiar le starne.

54

Giá Febo va corcarsi e dietro lascia
le vaghe stelle del suo lume accese;
giá Morfeo a l’ombre e sogni fa la lascia
ed ha piú sonnacchiose menti prese.
Iesú, ch’avea come fanciul di fascia
la gente a poppa sempre, quindi ascese
con lei per collocarla tutta insieme;
ma non può gir, tant’essa il calca e preme.

55

Per trarne sanitá si fa contrasto
invan, ché senza porvi od occhio o mano
risana qual si sia distorto e guasto,
abbialo pur vicino, abbial lontano;
anzi, di popolar preconio e fasto
sempre nemico, a piú d’un paio sano
rendette il corpo di color che fuore
l’avean di vista, ma di nel core.

56

Fra molte accolte vidue fuvi quella,
di cui stillava il vivo sangue a tale
che, per guarirne, la piú buona e bella
sua facultá, gli armenti, il ben dotale,
ogni poder, l’argento, l’òr, l’anella
gittato avea, fin che il protervo male,
poi che del sangue l’ossa ebbe discusse,
a somma povertá la ricondusse.

57

Or si conforti dunque, or stia gioconda,
ch’un sol rimedio al suo penar si trova!
Abbia pur fede che ratto monda
sará! Chi a chieder sanitá si mova
non ha per che dubbiando si confonda,
sendo in palese giá piú d’una prova.
Beata lei, beato sangue, poscia
che trarla vien tal medico d’angoscia!

58

Passava Cristo appena, tanto è folta
la plebe che ’l circonda, e piú e piú cresce:
costei si caccia dentro, e per la molta
voglia ch’ha di salvarsi non le ’ncresce
d’esser rispinta ed appellata stolta,
infin che ’l suo dissegno le riesce.
Giunse a Iesú di retro, e come volle
col dito lo toccò, poi via si tolle.

59

Tolsesi via poi ch’ebbel tócco, e seco
sen porta sanitá furtivamente;
ma Quel, ch’agli atti nostri non è cieco,
vòlto domanda in quella spessa gente:
– Chi m’ha toccato? la virtú, che meco
dimora in terra e ’n cielo eternamente,
sentii ch’uscita va: chi la furommi?
Altri che Fede lei rubar non pommi! –

60

Pietro, ch’era degli altri piú animoso,
risponde: – A che, Maestro, ciò chiedete?
La gran pressa del volgo baldanzoso
vi spinge ed urta, e pur gliel concedete! –
La donna, che ’l suo furto star nascoso
piú non puoter cognosce a la magnete
dei cuor, s’aventa avanti e d’esser essa
che gli rubò tal grazia si confessa.

61

Fatti poi segni molti, non pur anco,
come che l’aer sia notturno e cieco,
si partono da l’uno e l’altro fianco,
ch’oltra l’amore, han l’util star con seco,
sperando infin che l’emisfero bianco
ritorni, ch’ivi debbia ’n grotta o ’n speco
o sé ritrare in pastorale albergo;
ma nol fará, ché s’ode i lupi a tergo.

62

Odesi a tergo un grave urlar, e vede
misti a l’armento farisei non pochi,
non agni come gli altri, no, ma prede
venuti a fare o incender molti fuochi.
A le maliccie lor luogo e cede,
lasciandoli col volgo in secchi luochi,
acciò cagion non piglien di dar fama
ch’ei per regnar le turbe adietro chiama.

63

Ecco, signori miei, de le figliole
di Dio che sopra dissivi, la prima
Iesú s’aggiunse per cavarne prole
degna d’ir seco de la croce in cima.
Or chi mi crederá che, ’l divin Sole
mentr’ama la sua donna e la sublima
sul candelier, tolta dissotto al modio,
essa, ch’è veritá, partorí l’odio?

64

Come fu questo? e chi è di alta mente
ch’intenda ben la man di questa briglia?
Quella gentil virtú che mai non mente,
sposa del Figlio e bella a meraviglia,
come produsse un tal brutto serpente,
un mostro tal, che il diavol rassomiglia?
Ma sudditiccio è quello, il vederete,
ché di buon gran tal frutto non si miete.

65

Però Iesú, de Veritá consorte,
sottrarsi fu constretto alquanto lunge
da l’odio de’ giudei, che dargli morte
tengono in cuor, s’altrove non si sgiunge:
non che ’n lor fosse un animo forte,
che fra le turbe insanguinarsi l’unge
punto bastasse, ma col tempo vanno
cercando il luoco e via di fargli danno.

66

Va tutta notte col suo drapelletto
quanto mai può nascosto da la plebe.
Non creder giá che facciano dispetto
a’ piedi lor le macchie o dure glebe,
però ch’a quel divin lucido aspetto,
a lato il quale il raggio del sol ebe,
splendetter l’ombre infin che ’l rinacque
ch’apparve lor de le maritimacque.

67

Qui per levarci quel dubbioso velo
de l’odio, figlio sudditiccio e strano:
Simil è – disse – il regno mio del cielo
a chi la terra sparge di buon grano.
Ma, sciolta poi la spica in su lo stelo,
come suol sbrigarsi a man a mano,
ecco ad un servo parve cosa strania
che ’l gran non era grano ma zizania.

68

Corre al signor del campo e gli domanda
se bello era quel seme o brutto e misto;
e quel rispose: – A che cotal domanda
mi fai, se tu sincero l’hai previsto? –
Ahi, di zizaniadisse – in ogni banda
s’imbosca il tuo poder; donde m’attristo
di tanta novitá, ch’ove ponesti
buon grano, or di zizania i fior son dèsti. –

69

Esso si turba al portentoso mostro,
non ch’a pensar l’autor di ciò s’inganne.
– Or – disse – io so che l’aversario nostro
di notte ha sopra sparse le zizanne;
ma seguirete voi l’ufficcio vostro,
bianche che fian le spiche in su le canne;
ché, s’or voleste in erba ripurgarle,
potreste col mal frutto eradicarle.

70

Venuta la stagion conveniente
che l’util con l’inutil s’ammaturi,
io voglio che ’l mal seme leggermente
svelto dal buono in fiamme si comburi;
poi raccorrete l’altro agiatamente,
come da le mal erbe omai sicuri,
ed il granaro mio rempierete,
ch’al molto carco scoppi ogni parete. –

71

Cosí la mala sudditiccia pianta
dicono partorir la Veritade.
Non è cosí, non è che Cristo pianta
in core uman sol frutto di bontade;
ma vien Satán di notte e sovrapianta
le rissose zizanie d’impietade:
e quest’è l’odio il qual per lo verace
Verbo celeste ingombra chi mal face.

72

luogo dunque a l’infernal megera,
e sul lido natal d’Elisa viene.
Albergo a lui vicino alcun non era;
ma cosí ragionando il passo tiene
in ripa a un fiumicello a la costera
d’alcun poggetti e due vallette amene,
ove passando sentesi da spalle
guai di dolor, che fa suonar la valle.

73

Sa ben ch’è quello, e seppel giá millanni;
ma serba l’uman stil come solea.
Volgesi adietro e vede che li panni
al petto e de la testa il crin s’avea
squarciato e rotto e fatti maggior danni
con l’unge al viso donna cananea,
che vien correndo e ’l ciel con urli fende,
tanto ch’a’ piè del buon Iesú si stende.

74

Miserere di me, Signor, – gridava
miserere di me, scontenta madre:
quel fonte sei ch’ogni bruttezza lava,
tu sei Iesú, figliuol di regio Padre;
la fede tua commove, sgiunge e cava
da le cittá le genti a squadre a squadre:
tu salvi ognuno avendo in te sol fede,
donde mi fido anch’io d’aver mercede!

75

L’unica mia figliola, deh, Signore,
perché non m’odi, perché non sovieni?
perché da me ti parti? perché ’l core
non ti si rompe a’ miei lamenti pieni
d’intensa passion? Quei di dolore
l cor m’han stretto, che giá vengon meni:
l’unica mia figliola è fra le sanne
d’un fier porco infernal, che strazio fanne.

76

Deh frena il passo e non sdegnar mia speme,
o porto di speranza, o amor di pace!
Non ti s’ammolla il petto, non ti preme
l’affanno mio, ch’udirmi ti spiace?
Schiudi le orecchie, prego, a queste estreme
parole mie, ch’omai la lingua tace:
tace la lingua mia, ché ’l cor è stretto;
giá sol pregar ti posso con l’effetto! –

77

Signori miei, dirammi alcun di voi,
lasso! ch’io pecco gravemente e molto.
Dite: chi è giusto in terra? Ma tu vuoi
giustificarti? non tener sepolto
l’interno fango de’ peccati tuoi
a chi con potestá te n’abbia sciolto!
Conosci pur te stesso e di’: – Peccavi! –
Giá non è macchia ch’esso non ti lavi.

78

Ecco donna ch’è capo di maliccia,
spada di Satanaso, rio d’affanni,
seme d’errori, morbo di tristiccia,
corrutela di leggi, arca d’inganni:
ecco vien arrogante a la Giusticcia,
teme lei che a morte la condanni.
Oh meraviglia! fuggono gli ebrei;
seguon gl’incirconcisi e cananei.

79

– Abbi di me pietá! – seguendo chiama
so che bontá non vien degli atti miei,
che téma e vergogna mi richiama
dal tuo conspetto, perché giusto sei:
ma d’esser pio cotanta è la tua fama,
ch’i’ vegno e dico: Miserere mei,
i’ non so chi sia legge, e nondimeno
so che diceste ch’ogni carne è fieno.

80

Férmati, Signor, dunque, e miserere
di me, Figliuol di David, ch’io son frale:
non voglio, no, e men saprei volere,
altri che tu mi franchi dal mio male:
giá non mi fa l’altrui favor mistiere,
dove tu di pietá mi spieghi l’ale.
Miserere, Signor, che discendesti
acciò che de le gratie tue ci presti! –

81

Or Cristo benedetto non l’attende,
favvi alcun segnal d’udir quei prieghi:
men perdesi la donna e non si rende,
piú che par ch’esso d’aiutarla nieghi.
C’hai? – disse Pietro. – Gran dolor mi prende!
Taci, non vedi ben che non lo pieghi?
Spero piegarlo – Come? – In dirgli spesso:
Miserere, Signor, del fragil sesso!

82

Dico: la figlia mia, Signor clemente,
l’anima mia, il core, l’unica prole,
m’è tormentata da quel frodolente,
da quel ch’è privo de l’eterno sole.
A ciò il condanna l’ostinata mente,
ch’esser salvo da te giamai non vuole:
non cosí noi, Signor, non cosí noi!
Abbi, dunque, mercé, che siamo tuoi! –

83

Cristo pur tace, né anco ferma il piede,
che d’altro aver pensier mostra sembiante.
Allor mossi a pietá, colmi di fede,
li discepoli suoi gli vanno inante,
dicendo: – Abbiate omai di lei mercede!
Ecco, ci chiama a tergo, né, per quante
ville stan qui d’intorno, è per cessare
di sempre dietro a noi forte chiamare. –

84

Iesú risponde: – Or non v’è noto come
le pecore sol guardo d’Israelle?
– Non – disse quella, – non, Signor, ché ’l nome
sol tuo sperar mi fa ch’ancora quelle,
che non han legge, come bestie indome
o come senza guida pecorelle,
salvar venesti e le novantanove
lasci per una errante, acció la trove.

85

Se nasce il sole tuo, se la tua pioggia
generalmente sovra tutti nasce,
se nuota pesce in mar, se ’n aria poggia
veruno augel, se ’n terra armento pasce
non senza tuo volere, or in che foggia
esser può, Signor mio, che mai tu lasce
cura di riserbar qual uom si sia
o di Giudea o Grecia o Tartaria? –

86

Risponde il Salvator: – Come star poscia
non so, che giusto sia me dar lo pane,
che racquistato s’ha con molta angoscia
per gli figliuoli cari, a un lordo cane! –
Allor la cananea tutta s’accoscia
distesa in terra e grida: – Né da mane
né da sera giamai verrá ch’io resti
di chiederti ch’aiuto in ciò mi presti!

87

Ché se d’un popol duro, ingrato e cieco,
crudel, micidial cosí ti cale,
che ’l Tiro, l’Indo, l’Africano e ’l Greco
non vuoi gli sia de le tue grazie eguale,
né che comercio alcuno tenga seco,
perché ciò piace a te (né che sia male
questo tuo parteggiar è da pensarvi,
che troppo a tua grandezza siamo parvi);

88

se, dico, de’ tuoi vasi, o Creatore,
incomprensibil, smisurato e giusto,
disponi e tratti come t’entra in core,
senza ch’alcun ti dica: – Questo è adusto,
quest’è mal cotto, un altro ha bel colore,
pallido un altro e quel mi pare ingiusto, –
consente almen che noi di tuoi figliuoli
siamo, non dico servi, ma cagnuoli! –

89

Grato fu sopra modo al Verbo eterno
trovar tal fede in una feminella.
Donnadisse, – nel cielo e ne l’inferno
s’apprezza i buoni e i mali si flagella:
mitracappelmanto esterno,
sangue, altar, torriboli e coltella,
ma speme, caritá, fede, timore
fan parteggiar l’universal Fattore.

90

Via piú senza pareggio a core i’ tegno
sotto cotesta tua pannosa gonna
l’animosa pietá, l’umile ingegno,
che né dorata travecolonna
di quanti templi pommi far lo regno
di Salomon; e qui t’affermo, o donna,
che tua , tua constanzia mi piace,
che sana ti è la figlia. Or vanne in pace! –

91

Cosí parlando in un deserto arriva,
ove, del camin stanco, a l’ombra siede.
Ma non fratanto cessa dar la viva
sua voce a lodar l’uomo ch’abbia fede,
perché ’l suo Padre non aborre e schiva
qual che si sia ribaldo, se ’n lui crede.
Cosí, nutrendo lor di giorno in giorno,
facea per piagge inospiti soggiorno.

92

E poi che ’n queste ripe un tempo stette,
parte con loro, parte con lui solo
(perché piú giorni libertá lor dette,
spartendo a duoi a duoi quel picciol stolo
per predicar le cose a lor giá dette,
poi da demòn sciôr l’ossa e d’ogni duolo),
tutti gli accolse in un drapello e disse:
– S’appressa il tempo che ’l mio Padre affisse.

93

A la citá giremo de la pace
per soffrir de la guerra il gran flagello.
L’uman Figliuolo, come agnel che tace
in potestá di chi gli tonde il vello,
fia mutol a lo strazio del rapace
stolo de’ lupi, al quale il suo fratello,
ch’or prende i cibi dolci seco a lato,
darallo ad esser vinto e flagellato.

94

Quel gioco fia di lui, quel scherno e strazio
ch’è de la lepre in bocca del leone,
ch’un scherno se ne fa per lungo spazio
quando con dente quando con l’ungione,
ma, di piú macerarlo fatto sazio,
stringe il fier morso e ’n ventre si ’l ripone;
cosí, poi le guanciate, sputi e piaghe,
convien che di sua morte altri s’appaghe.

95

Ma duro non vi paia di patire
l’atto che da mortai dett’è «fortuna»:
non va per caso ciò che Dio fa gire,
né sta ciò che fa star per sorte alcuna.
Qual è dunque del Padre tal desire
in questa vita abbiate o chiara o bruna,
ch’andati sian tre , tal, sendo morto,
vedrete ravvivato e ’n piè risorto. –

96

Non dette prima fôr queste parole,
allor niente, nonché poco, intese,
ecco la turba, che non sa né vuole
viver senz’esso, in vista si gli rese.
O sia la terra senza o sia col sole,
di verno, state o temperato mese,
non cessa d’irgli dietro; e se talora
schivata vien da lui, se ne martora.

97

Qual spirito la stringa a questo fare,
oltre ’l disio d’udirlo e l’util trarne,
non sa, perché ’n lei dorme il singolare
lume de la ragion, sepolto in carne:
pur, desta da natura, par che stare
non possa senza lui, donde portarne
bisogna l’esser suo, per cui diviso
l’uomo dagli animaporta alto il viso.

98

Iesú, che le create sue bell’alme
da sette millia vedesi negli occhi
languir dei corpi sotto gravi salme
e star di senso in guisa d’arsi ciocchi,
giunse con alta voce al ciel le palme,
dicendo: – Oh quanto è il numer degli sciocchi!
soperchio è il grano e chi di noi sel miete?
Però convien ch’i’ spegna quella sete. –

99

Cosí ragiona, e, l’invisibil croce
tolta sul core, affretta il passo e tace;
la grave turba, che ’l suo gir veloce
non sa che importa, si consuma e sface,
seguendolo tre giorni; né fu voce
che ’n lui garrisse mai come ’l fallace
popolo ingrato nel deserto fece,
che bestemmiollo, di lodarlo invece.

100

Giá de la terra incominciâro a poco
a poco l’ombre ad ingrossar la notte;
tornasi ogni animale al proprio luoco,
chi a la cittá, chi al bosco, chi a le grotte;
la pazza farfarella corre al fuoco;
s’appresta il pelegrin, ché non s’annotte.
Cosí Iesú, per acquetarle omai,
piega le turbe a la citá di Nai.

101

Qui, mentre i citadin gli apron le porte,
come a lui c’ha quanto vuol potere,
ode voce donnesca pianger forte
mezzo a gran copia d’allumate cere;
però che l’aspra ed implacabil Morte
mort’ha non so qual gioven, che dolere
non pur la madre fa ch’è vidovella,
ma vien piangendo il popol dietro a quella.

102

Quattr’uomini del corpo sotto il fasce
stêro ad un cenno sol del Re de’ santi,
il qual, volgendo a quella sol d’ambasce
nudrita madre, disse: – Or questi pianti
voglio, donna, ch’ai morti eterni lasce,
anzi covivi eternamente canti! –
Poi con la voce giú nel centro udita
quell’alma rivocò dondera gita.

103

Come, dal suo legame sciolto il core
ed aperta la via del senso agli atti,
alcun ch’abbia dormito da settore
movesi in prima, e poi mentre gli estratti
vaghi pensier da l’oblioso umore
riduce al seggio del lor re contratti,
stropiccia gli occhi e quanto può si stende,
indi si leva, ed opra quanto intende;

104

cosí quel morto damigel pian piano
s’erge a seder su la funèbre bara;
mostra che non pur vivo, ma che sano
era del mal dond’ebbe morte amara.
Passa Iesú, da cui l’enfiato e vano
fumo di lode a ben sprezzar s’impara:
lasciò la turba e sul Taborre ascese
ove tutta la notte orando ispese.

105

Il suscitato giovene, che franca
sentesi la persona in ogni parte,
dubita se da lei che i visi imbianca
fu sciolto o per miracol o per arte.
Non mago, non astrologo vi manca,
che saper vuole, qual con Giove o Marte
fu l’ascendente ed altri effetti molti,
c’han loro il capo scemo e i sensi tolti.

106

Il fisico, ch’avea l’assunto in prima
di risanar l’infermo e non puoteo,
vuol che Chiron di Pelio giú da cima
venuto sia ne l’orizzonte ebreo:
il van poeta scioccamente estima
col suon ir suscitando i morti Orfeo;
ed affacciato al vivo che fu morto,
gli addomandò gran cose in tempo corto.

107

Ma che direte, o signor miei, s’io volgo
dal suo candor la musa del Vangelo?
Cotesto faccio per dar anco al volgo
non so qual cibo sotto istrano velo,
ed, a ben far per adescarlo, involgo
nel mèl l’assenzio, e quanto so gliel celo,
ch’avendo a dir d’un non corporeo effetto,
forz’è stampar un corpo a l’intelletto.

108

Interrogollo dunque de le strate
donde non lice rivocar piúl passo,
poi de le porte non giamai serrate
c’hanno intagliato un metro tal nel sasso:
«Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate»,
e del nocchier barbuto, che mai lasso
non è di navigar per l’onde nigre,
battendo il remo in capo a l’ombre pigre;

109

oltre di ciò de l’ampia orribil orna
di Radamanto che gli spirti annoda,
e dei mastin che su l’entrar soggiorna,
ch’apre tre gole e move una sol coda.
– Com’esser denno, aimèdicea – le corna
d’Alchin, Satám, Falsetta e Malacoda?
e quei che giran sempre or alti or bassi,
spingendo e rispingendo i gravi sassi?

110

Che dicer possi de l’ardente torre
sul primo entrar de la citá di Pluto?
Di qua, di degli demòn concorre
ivi sempre lo stol dal ciel piovuto,
né molto di legger si vien asporre
le tre sirocchie c’hanno il crin tessuto
d’implicati scurzon, ceraste e bisce,
donde convien che tutto ’l capo fisce.

111

Mi meraviglio come in duro smalto
non ti cangiò di Forco la figliola:
so che di quella torre suso d’alto
entrar ti vide di Pluton la scola:
o come non ti fe’ l’usato assalto
e t’ingoiò ne la vorace gola
quel disonor di Creta orribil mostro,
c’ha di toro le groppe e ’l volto nostro?

112

Corre quel Nesso con piú di un compagno
con l’arco in mano e la saetta a cocca:
ombra non s’erga giá del rosso stagno,
che ’n un peluzzo, a voglia sua, l’incocca.
Corron mille centauri intorno al bagno,
e d’altrotanto numer d’archi scocca,
dardeggiando qual alma il capo drizza
fuor di quel sangue, ove qual pesce guizza.

113

Quell’altre arpie quanto son brutte e lorde,
che ’n sommitá de la spinosa selva
stridon forte, che l’orecchie sorde
aver voria chi ’n suo martír s’inselva!
Taccio di Gerione il qual non morde,
dolce d’aspetto e mansueta belva;
ma da la coda quanto poi sta’ lunge,
ch’amor e morte con men duol ti punge!

114

Vedestu forse ancor Nembrotte il grande,
Tifeo e gli altri, donde per lor colpe
la bella etá fu spenta de le giande,
c’han si grossossa e smisurate polpe?
Circe vedestu l’anime nefande
degli uomini sformare in lupo e volpe?
men Demogorgon le donne matte
batter con coda e trasmutarle in gatte?

115

E tu, Prometeo, che ’l rapace becco
de l’impetrato tuo fegato nutri,
né a voi mai viene il puro fonte secco,
Belide stolte, empiendo le rottutri,
né a Tantal giá per sete fatto un stecco,
che i frutti veder brama immondi e putri,
rivolge d’Ixion la rota il doppio
e parmi d’ossa udir sin qua lo scoppio.

116

Non ti domando del piú basso chiostro
ch’ivi non cadon mai se non tiranni:
spento carbon non è negro e inchiostro,
com’han lor visi affumicati e panni.
Quell’odioso e puzzolente mostro
d’ambizion qui, d’Icaro sui vanni,
sopr’essi vola e tal puzzo gli fonde,
che meno assai son le latrine immonde. –

117

Cosí d’insogni fuor sputava un seno
colui ch’affrena il pegaseo cavallo.
Un altro, che di lui pazzera meno
(dubbio s’è di Zenone oppur vasallo
del d’ogn’error dottamente pieno),
omai col contradire entrava in ballo:
se non che da quel lauro non l’attese,
ridursi con lui volse a le prese.

118

Ma veggo che ’l parlar di loro aggrava
quella sinceritá che ’l falso aborre.
Ritorno al mio Signor ch’orando stava,
tra Pietro ed altri duoi, sul gran Taborre.
Con tutto il resto il popol s’appiattava
presso il torrente Ciso, che discorre
fra il detto monte ed Endor lungo a Sina,
cui non lontano Gelboè confina.

119

Or Giacomo, Simone e ’l buon Giovanni,
ch’eran degli altri forse i piú capaci,
stavan col suo Maestro e star millanni
avrian voluto in quei piacer vivaci;
perciò che vider la sua faccia e’ panni,
questa qual sole sparger mille faci,
quelli risplender di bianchezza quale
fiocca la neve al fiato boreale.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License