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1
Giunto a le ripe del Giordan
per bere
del suo bel vivo e lucido cristallo
(lucido piú non giá, ché l’empie fiere
gli hanno de le sacr’onde rotto il vallo),
miro le bianche facce in brutte e nere
cangiarsi tutte, e ’n bruno il verde e giallo,
l’aer in nebbia, il giorno in notte, il canto
de le figliole d’Israelle in pianto.
2
Ombrosi colli e voi,
piaggette amene,
ch’amene però fosti a dí piú grati,
non odo, aimè, piú i vostri fonti e vene
ir mormorando giú per lieti prati.
Monti aspri, orrendi boschi e secche arene
mi veggo intorno e campi abandonati;
e s’un fioretto a caso vi è rimasto,
quel giace chino, impallidito e guasto!
3
Ma quello innamorato e bel
pastore,
che l’armento pascea di tener’erbe,
non par ch’ardendo canti piú d’amore
ver’ la sua sposa e gli agni suoi le serbe.
Ove n’è gito? Aimè! ferito muore,
muore ferito, aimè! da le superbe
lupe distratto, e la dolente madre
cercando il va per selve orrende ed adre!
4
Duri pensieri miei, gelati e
infermi,
ben è omai tempo di sbrigarvi fuora
di questa immonda e ria prigion di vermi,
ché i giorni ad ir sí presti ne divora!
Ite ancor voi piangendo per quest’ermi
e luoghi solitar’ con la Signora
del ciel, ch’or del Figliuol porta ’l coltello
trafisso in l’alma e va cercando quello.
5
Pura giovenca e di candor di
neve,
cui tolto il figlio in sacrificcio sia,
non erba mai, non onda mai riceve,
non tiene errando mai sentier né via,
muggisce al cielo acciò le sia men greve
o impari a tolerar la pena ria;
ma le succede invano un tale aviso,
mentr’ha negli occhi il caro pegno anciso:
6
cosí Madonna, udendo dal
nipote
suo vergine Giovanni la presura
d’un tanto figlio, in parti assai rimote
dagli altri, quanto può, si toglie e fura,
ove rallenta il duol che per le gote
versa gran pioggia al sino: e a la cura,
che cela in gli occhi altrui per gravitade,
schiude ’l materno amor tutte le strade.
7
– Doglia – dicea, – la qual
sí dura mi angi
e di quest’occhi in tutto hai scosso il sonno,
poss’io se non lodarti che mi frangi,
sí ch’altre doglie eguarsi a te non ponno?
Cosí ti prego che non mai ti cangi,
ma del mio cor sii qua perpetuo donno,
fin che la vita in croce adempia e scioglia
il voto amar de la paterna voglia!
8
S’Esso, ch’è vita mia,
sostien martíre
di mille morti, e come mai poss’io
altro che mille volte ognor morire
e nutrir sol di pianto te, cor mio?
Tutte l’onte, gli oltraggi, sdegni ed ire
han congiurato in lui, ch’è fonte e rio
di grazie e di pietá: donde contenta
son di portar quel ch’entro mi tormenta! –
9
Cosí con volontario duol
gemea
l’unica de le donne ragionando,
e con la santa man si sostenea
l’umida guancia a capo chino, quando
Giovanni pien d’affanno v’aggiungea
con Madalena e l’altre, che cercando
la lor Signora quinci e quindi vanno,
ch’esser lei fatta un mar di pianto sanno.
10
La qual si leva e poi, da lor
seguíta,
va verso Gierosolima e ragiona
cose alte a lor, coprendo la ferita
che le dá di martirio omai corona.
– Andiamo – dice – al Largitor di vita,
ch’oggi dal centro tutti noi sprigiona;
andiamo al necessario sacrificcio
del Figlio non piú mio, ma del suppliccio!
Figlio d’obbrobriosi oltraggi
e pene
fatt’è quel mansueto senza essempio;
ma non v’offenda s’oggi egli sostiene
de le sue pure membra il duro scempio,
e s’ai flagelli s’apriran le vene
del precioso sangue al popol empio.
Cosí vuol Esso, ed è bisogno il voglia,
perché de l’alme omai l’error si toglia.
12
Felice colpa, poi ch’un
Redentore
sí degno vien lei tôrre in sul suo dorso!
Felice morte, poi che in esso muore,
il qual muorendo a Pluto dá di morso!
Cosí de l’aspra legge e del timore
finisce oggi ne l’alme piaghe il corso,
e de la grazia il regno e de la fede
la squadra oggi d’eletti si possede.
13
Caro Giovanni, acerbo è ’l
duol ch’io porto,
acerbo sí, che chiuso fuor nol piango!
Afflitta madre senza il suo conforto
in questa etá piú estrema i’ mi rimango;
ma seco l’alma pensa e dice: – In corto
abbiamo a uscir di questo mortal fango;
lá su giremo dopo a Lui, ch’or sale
per sciôr le porte in ciel, rifar le scale:
14
rifar le rotte scale d’una
viva
pietra con gradi e faticosi passi.
Ma dolce oh quanto è ’l fine a chi v’arriva
per le ’ntricate macchie e alpestri sassi!
Egli va primo, e d’esta fuggitiva
vita mortal per noi disprezzo fassi,
per noi ch’avemo ad osservar le sante
sue bene impresse e non caduche piante! –
15
Cosí parlando, la sopr’ogni
donna
saggia e prudente a la citá perviene
su l’ora propria che da la colonna
(dura colonna!) sciolto è ’l sommo Bene.
Sciolsel Pilato, ed in porporea gonna,
scorrendo un rio fuor de le aperte vene,
mostrollo al popol che lá giú s’afflige
d’ira, di rabbia, e grida: – Crucifige! –
16
Per scherno una corona
d’aspre e dure
pungenti spine gli han sul capo messa,
le cui mordaci e rigide punture
entran la testa in mille parti fessa;
distilla il sangue per le chiome pure
al petto, a’ fianchi, a spalle ed a l’impressa
faccia di sputi, di guanciate, e quanti
scherni puotêr mai far quei lordi fanti.
17
Tien gli occhi a terra il
dolce nostro pegno
languidi, oppressi e ne la fronte ascosi:
membro non è dal capo a’ piè, che segno
non abbia di flagelli aspri e nerbosi;
spiccia fuor sangue e manca ai piè sostegno,
e vien gran sete dai sospir gravosi;
smarrito è l’almo aspetto, or mesto e gramo,
del cui sparso livor sanati siamo.
18
Ad un sí fier spettacolo non
puote
non cader vinta dal dolor la diva.
Il sangue al cor s’aggela e scure note
di morte lascia ove le vene priva:
col braccio la sostiene il car nipote
c’ha vita sí, ma morta piú che viva.
Le donne ancor si dánno intorno a quella,
c’ha spento il lume, il polso e la favella.
19
Fra questo tanto dal balcon Pilato
l’Agnello addita ed a la plebe vòlto:
– Or ecco – chiama – l’uom c’ho flagellato
per voi gradir, non che ’n error sia còlto! –
Allor de’ farisei l’infuriato
volgo raccominciò gridar piú molto:
– Sia crucifisso il corruttor di legge,
che «re» vuol esser detto, e ancor non regge! –
20
Pilato a lor: – Prendetelo da
voi,
facendone quel strazio piú v’aggrada!
Per me nol danno mai, ché gli atti suoi
smarrita in conto alcun non han la strada. –
Risposer quelli: – Abbiam da legge noi
ch’esso a la morte senza iscampo vada,
perché s’assume il nome sacro e pio
non pur di «re», ma di «Figliuol di Dio»! –
21
A un tanto nominar «di Dio
Figliuolo»
trema Pilato e nel pensier travaglia;
tirasi dentro e, chiuso tutto solo,
Colui che ’l sommo Padre in cielo eguaglia
condurre anti si fa per un usciuolo,
lasciando fuor d’armati una battaglia,
e con intento affetto da lui spia
del suo regname ed ove nato sia.
22
Iesú, che vede attraversarsi
avante
non una sol cagion perché non muoia,
nulla si gli risponde, ma costante
rispinge ciò ch’al suo voler dá noia.
Quel fier dragon, che di tant’alme e tante
non è mai sazio e tutte se le ingoia,
vi pon, com’è proverbio, e man e denti
per suoi ministri, acciò non siam redenti.
23
– Or mi rispondi – parla
quello, ignaro
del ver – né mi star muto in tuo dannaggio!
Non sai che di tua vita un sol riparo
pende di me che ’n mia licenzia t’aggio? –
Allor ruppe il silenzio al temeraro
ardir di cotest’uom l’eterno Saggio:
– Non tal balía se non di sopra s’have:
però che mi ti die’, peccò piú grave. –
24
Fermò Pilato allor
proponimento
contra lor volontá lasciarlo asciolto;
ma quel rumor che per tempesta e vento
nasce nel rotto mar sosopra vòlto
incominciò nel stol sanguinolento
de’ sacerdoti e d’esso popol stolto,
gridando tutti: – Se perir nol fai,
certo ch’amico a Cesar non sarai! –
25
Il roman, ch’ode questo, al
re terreno
ebbe risguardo piú ch’al Dio celeste:
s’asside al tribunal, di furia pieno
contra sí alpestri cuor, sí dure teste:
– Ecco ’l re vostro – chiama, – il qual vi meno
davanti acciò ch’onore si gli preste! –
Allor piú che mai forte alzâr la voce:
– Toglielci omai, toglielci, ponlo in croce! –
26
Ed esso a loro: – Ben
ferrigni siete,
ch’al vostro re dar morte procacciate,
dubbio non ha ch’ancor ven pentirete,
ch’io non ritrovo in lui se non bontate! –
Risposer tutti: – Noi, per piú quiete
del regno e d’essa legge per pietate,
non altro re che Cesare appellamo:
se costui campi, a Cesar t’accusamo! –
27
Videsi allor Pilato
ricondotto
esser tra ’l sasso e sacro, e dar si fece
acque a le man, dicendo: – I’ mi sto sotto
contra mia voglia, e faccio quel non lece:
va di giusticcia ogni ordine corrotto
per questi cani, che d’onesto in vece
fanno vendetta di lor odio pravo:
io, ch’innocente son, le man mi lavo! –
28
Cosí non senza gran mistier
purgossi
a sé le mani, a noi gentili l’alme,
che per fallar, non per invidia mossi,
peccando in Dio, bastò lavar le palme.
Ma quei non ignoranti ebrei, ch’ai dossi
s’imposer questa fra mill’altre salme,
si ciberan non piú di manna e starne,
ma, per gran fame, di lor propria carne.
29
Né senza l’imprudente lor
consenso
fôron sospinti a cosí orribil fame,
ché ’l volgo in su la piazza unito e denso
per solo empier d’Agnel l’ingorde brame,
temendo non campasse, ad uno immenso
rumor di voci, ad un tumulto infame,
tutti chiamò: – Sia ’l sangue di costui
sopra nostri figliuoli e sopra nui! –
30
Con sdegno allora il misero
Pilato
(miser, ché ’l giusto per timor condanna)
tra’ di catene il via piú scelerato
ladro che mai portasse laccio a canna,
il qual, dimesso, al popol vien donato;
ch’agnello in prima di bontá s’appanna,
qual lupo poi, cangiando pil, non vezzo,
a l’uso ed arte sua tornò da sezzo.
31
Scioglie Pilato un omicida ed
uno
ch’una non pur, ma mille morti merta,
e, per non far che Cesar in veruno
patto s’adiri, sanguinosa offerta
fa contra ’l dritto al popol importuno
de l’unica Bontá, ch’oggi, coperta
sotto sí puro, bianco e schietto velo,
sen muore in terra e sempre vive in cielo.
32
O sante alme, felici o voi,
che, salde
di nostra fé colonne, giá scriveste
di veritá col vero, e cosí calde
d’amorosa pietá le menti aveste!
Or, se l’ingiurie de le man ribalde
a Iesú fatte in carte non poneste,
mille, mill’onte, dico, ad una ad una
non le poneste in carte o in forma alcuna,
33
se cosí brevemente ven
passaste
in cotest’atto estremo pien di doglie,
quanto fûr péste, lacerate e guaste
l’alte bellezze ov’ogni onor s’accoglie,
e rotto con guanciate, calci ed aste
Chi ’l merto in sé d’ogni fallir si toglie;
che far debb’io? Se dirlo vo’, fia segno
d’uom temeraro e di tal cura indegno.
34
Giust’è dunque ch’io taccia,
non giá, lasso!
per la cagion che voi tacer lo fece:
mia sola indignitá mi chiude il passo,
ché dir sí occulte cose non mi lece;
a voi sola pietá, che non di sasso
aveste cor, com’io, né umor di pece,
ch’io penso quel che ’l sol veder aborre,
né scaldami sospir né stilla scorre.
35
Ma voi, Gianni e Matteo,
venuti al varco
di porre in croce il vostro car Maestro,
non portò amore de le pene il carco,
e ’l cor vi si stupí col braccio destro,
né a Luca il buon Andrea, né Pietro a Marco
puotéol narrar, ché ’n guisa d’un alpestro
e muto scoglio stette e questo e quello,
entrando a dir de l’immolato Agnello.
36
Erasi apena rallentato il
tanto
spasmo del cor trafitto di Madonna,
quando, levati gli occhi, vede, quanto
è volgo in la citá, chi per la gonna,
chi pei capelli e barba trar quel santo
suo dolce Figlio, e ch’ogni onesta donna,
ogn’uom onesto il segue e fa lamento
dirotto sí, che par tempesta e vento.
37
Vede languido e chino andar
l’Agnello
con l’ignominia de la croce in collo;
vede bruttato e spento il volto bello,
ed accosciarsi a ciascun urto e crollo;
vede ogni scriba, a la pietá rubello,
d’improverargli non ancor satollo;
vedel mezzo a duoi ladri, come s’Esso
ne fosse capo e d’ogni colpa impresso!
38
Vede ondeggiar piú torme
armate e ’n loro
volar stendardi e segni assai di guerra,
chiamati sol per téma di coloro
ch’infiniti Iesú levò da terra:
vede Madonna ed ha maggior martoro:
piú che prudente, in sé lo chiude e serra:
stassi di fuor qual marmo e ’l pianto affrena:
tempesta il mar lei dentro e il ciel balena.
39
Le scapigliate madri, a nudo
petto,
battendolsi con man, rompendo il crine,
dicean piangendo: – O santo, o benedetto,
o pio Pastore, o d’alme, pelegrine
parole informatore, o savio, o schietto,
o medico gentil, solaccio e fine
di nostre infirmitá, qual colpa o sorte
di voi ci spoglia e vi conduce a morte?
40
O farisei malvagi, o
sacerdoti
piú che mai pravi, altieri e ’nvidiosi,
colmi di falsitá, di fede vòti,
al cielo, al mare, al centro ingiuriosi!
O fiamme, o toni, o venti, o terremoti,
cosí staran gli effetti vostri ascosi?
Ecco, per odio amor, per mal bontate,
per sola invidia l’innocenzia pate! –
41
Voltossi allora il piú che
mai dolente
de le miserie nostre, affanni e risse,
e con parole stanche, afflitte e spente
del suo vigor: – Deh! non piangete – disse –
sopra di me, figliole, ch’altamente
queste a me care doglie Dio prefisse,
che dánno a me di tolerar virtute,
terrore a li demòni, a voi salute.
42
Ma piagner sol di voi medesme
e d’essi
vostri figliuo’ dovete per gl’instanti
lugubri tempi, e di que’ giorni oppressi
da guerra, peste, fame, orrori e pianti,
quando direte: – O ventri non sommessi
a l’infelice parto e affanni tanti;
o mamme senza latte, voi beate,
voi sol contente in sí maligna etate! –
43
Verranno, dico, a voi quei
duri tempi,
ch’ai monti si dirá: – Cadete, o ripe,
in noi, per non veder satolli gli empi
lupi di nostra carne, e chi dissípe
i nostri beni e faccia crudi scempi,
e stracci d’alme, e nel dolor le stipe;
ché, se tant’onte in legno verde fanno,
or in un secco ed arso che faranno? –
44
Cosí dal Fonte di bontá
predetto
fu di giusticcia il dato allor flagello,
quando, puoch’anni adietro, il non piú eletto
popol di Dio, superbo, ingrato e fello,
da fame, pestilenzia ed arme astretto
fu sí, ch’al suo figliuol come ad agnello
tal madre il petto aprí, né pianse, mentre
smembrollo, cosse e réselsi nel ventre.
45
Stassi da la citá distante
non di
gran lunga un poggio che Calvario ha nome,
luogo d’infamia ed ove i servi immondi
de le carogne tran le brutte some:
tutto biancheggia d’arsi, secchi e biondi
carcami, teschi, gambe e bracci, come
ora si veggon gli ossi umani sparti
de l’infelice Italia in molte parti.
46
Ivi arrivando il Redentor,
giá lasso,
giá debil sí per lo soverchio peso,
che sul montare omai non regge il passo,
né sente l’altrui man se non offeso,
l’accorto allor centurion, che basso
andar lo mira e quasi a terra steso,
fu tócco da pietá, fu mosso a sdegno
fra sé di quel sí grosso e sconcio legno.
47
Volge lo sguardo altier, da
ver romano,
e vede un uom gagliardo nel sembiante,
che, Simon detto cirenense e strano,
dal suo poder tornava; e ’n quello istante
a sé si ’l chiama, e come capitano
da capo il fa tremar fin a le piante,
perché gli torse gli occhi e minacciollo,
e l’alma croce a lui fe’ porre in collo.
48
Signori miei, questo Simon,
ch’intiero
è di prepuccio né si affá con Mòse,
porta la croce invito, e dá mistero
che l’aspro ed util giovo a noi s’impose.
Ben parve duro il predicar primiero
che ’l gran centurion Paolo n’espose;
ma, tolta poi nel cor la dolce trave,
gustiam non esser cosa piú suave.
49
Come caval che giovenetto
sia,
tolto pur dianzi fuor del rozzo armento,
non vuole il morso e, pien di bizarria,
soffia, nitrisce e dá de’ calzi al vento;
ma poi, ridotto ad altro ch’era pria,
vivace, ardito e sempre al corso intento,
godesi al fren sonoro, agli aurei fiocchi,
né tien le orecchie mai né i piè né gli occhi:
50
piacque non meno al buon
Iesú, per l’atto
de la pietá ch’usò ver’ sé l’umano
gentil centurion, d’averlo tratto
dal suo fallace Tibro al ver Giordano;
sí scossegli di nebbia il cor, che ratto
(allor che sparve il sole) alzò la mano,
al ciel chiamando: – Inver, che costui solo
altro non è se non di Dio Figliuolo. –
51
Commosso era fratanto
d’Acheronte
il tenebroso re, nel cieco fondo;
l’aspre ruine sue giá vede cónte,
ché tolto a sé lo scettro fia del mondo:
ben per due volte la cornuta fronte
con man si batte, altiero ed iracondo,
e fra que’ denti suoi, lunghi una spanna,
l’úmero destro a se medesmo assanna.
52
Fa bandir genti ed arme a
suon di corno
(ché ’l corno è suo, di Michael la tromba);
scuote de l’ombre rie tutto ’l contorno
quell’aspro tuon, che qua, che lá rimbomba.
Vedesi orribilmente d’ogni intorno
sbucar demòn di questa e quella tomba:
convengon tutti a la terribil corte,
fin che fu pieno il nido de la morte.
53
Portano seco l’arme,
ch’infinite
vittorie a loro hann’acquistate in terra;
suoi lacci, panie, reti e calamite,
oncini e lime a noi mortai fan guerra.
A che stupir, se di perdute vite
un mondo ne le grotte lor si serra?
Ma giunti al fine omai son del suo regno:
però di far tumulto fan dissegno.
54
Era degli piú altieri giá ’l
collegio
posto a seder ne’ lor ferrigni scanni:
nel mezzo è Lucifèr, sul trono regio,
con suoi d’ardenti fiamme intesti panni
Costui, come nel ciel fu giá l’egregio
di beltá spirto ed ebbe d’oro i vanni,
or è maggior degli dannati, e sozzo
piú che sozzura nel tartareo pozzo.
55
Vedendosi egli intorno il
numer grande
degli angeli cornuti poco allegri,
l’ale come due vele in largo spande,
e scuopre bianche sanne fra duoi negri
gonfiati labri, e con parole blande
non men d’un rugger d’orso, ai tristi ed egri
soldati, mentre il fuoco acceso il coce,
alzò la piú che mai superba voce:
56
– Non senza maggior mio
tormento eterno
di questo ardor che me crucciar vedete,
odo, soldati miei, che ’l nostro inferno
tutto paventa, e voi cagion ne siete;
come se nulla il nostro gran governo
possuto avesse a romper la quiete
del cielo, e quel sentier, che lá sorgeva,
qua giú voltar con l’appetito d’Eva;
57
come se, dal prim’uomo infino
al caro
nostro vasallo Giuda, le vostr’arti
oprato non avesser che riparo
nullo giamai sia stato, a quanti sparti
uomini nel gran mondo si creâro,
di non cascare in queste basse parti,
ov’altri stridon negli eterni pianti,
altri del dí son privi, benché santi.
58
Dond’ora dunque nascono ’ste
indegne
vostre paure, o forti miei guerrieri?
U’ son l’arme acquistate? u’ son l’insegne?
u’ son gli antichi audaci cuori e fieri?
Sí veramente un Cristo sí vi spegne
il consueto ardir, gli animi altieri,
ch’un sol non sia che quinci uscir piú voglia
per lui, che d’arme e d’animo vi spoglia?
59
Concedo ch’egli sia per tôr
possesso,
oltra gli ebrei, di tutte l’altre genti,
e Dio gli l’abbia (tolto a noi) concesso:
dite, son forse i nostri fuoghi spenti?
Tengasi a piene brame il cielo e appresso
la terra, il mar, ché siamone contenti:
sará giamai (nol credo) ch’uom sicuro
sia di campar dal nostro regno scuro?
60
Se pur costui, com’è la fama,
schiude
le chiuse cotant’anni empiree porte,
se atterra i falsi dèi per gran virtude,
né valor è che ’l suo valor supporte,
non rimaran perciò le stanze nude
di voi, miei duci e baronia di Morte:
staran, come fûr sempre, a l’ombre certe
le bocche piú che mai del centro aperte.
61
Anzi, se de’ peccati a
l’abondanza
la grazia di quest’uomo sovrabonda,
le genti tanto piú faran mancanza
sendone ingrate, sí che l’iraconda
del ciel vendetta, ch’ogni pena avanza,
lor caccerá, sí come turba immonda,
del terzo cielo in questi bassi nostri
eternamente a noi fondati chiostri.
62
Non dunque avemo a dubitar
che fine
sian per aver, mentre giusticcia dura,
queste magioni, u’ l’anime tapine
piangon sopposte a nostra eterna cura.
Non sia di voi chi piú a viltá s’acchine;
sará di vincer degno chi sol dura:
se sotto legge aveste gran mercede,
maggior l’avrete sotto grazia e fede.
63
Qual peggior colpa in uomo
cader puote,
se poi la grazia volge a Dio le spalle?
A lui quindi fará vostr’arme note,
ché di qual tempre sian né ve’ né salle.
Itene dunque in l’aria e con gran rote
volando empiete ogni sentiero e calle,
diritto al ciel, d’intrichi, aguati, insidie,
sdegni, odi, avarizie, orgogli, invidie! –
64
Cosí parlò quel re degli empi
cani,
sputando fuor le sanguinose schiume.
A ferri, a fiamme dan le adonche mani
com’è del nigro exercito costume,
stridi, urli, rugiti e suoni strani
turban di Stige i monti ed ogni fiume;
sgombran l’inferno e fin sotto la luna
poggian le ordite squadre ad una ad una;
65
serrano i passi tutti e
traversate
tengon le vie, ch’alma non voli al cielo.
Ed ecco a l’ora sesta il Sol l’aurate
corna si cuopre in tenebroso velo;
piagne Natura, e tutta sua beltate
nasconde a l’uomo e col fulmineo telo
vorria l’ingrato dismembrar; ma stassi
vedendo il Crucifisso ai lidi bassi.
66
Pendea dal legno con le
aperte braccia
quel divin corpo lacerato e pesto;
cade la smorta e sanguinente faccia
su l’omer dritto, e con afflitto e mesto
caduco sguardo vede chi ’l minaccia,
chi tuttavia gli è rigido e molesto,
chi l’inconsutil vesta gli divide,
chi con mordace improverar l’ancide.
67
Vede la madre in grembo a
l’altre starsi
col cor piagato e d’un color di morte;
vede l’amato suo Giován ritrarsi
lontan dagli altri alquanto e piagner forte;
vede se stesso, e del suo sangue sparsi
del lido i sassi, né esser chi ’l conforte:
onde, levati gli occhi al ciel un poco,
cosí parlò con alto suono e fioco:
68
– Deh! Dio, Dio mio, per qual
cagione
cosí lasciato m’hai? vedi la sete,
Signor, c’ho di salvar queste persone,
ch’or sonomi tant’empie e sí ’ndiscrete!
Padre, ti prego, fa’ che a lor perdone,
perc’hanno l’alme cieche, lorde e viete
d’ogni peccato; e a me, ch’io forma porto
di servo e pendo in croce, dá’ conforto! –
69
Mosso a pietá, l’Altissimo
giú volta
quel suo, che tutto vede, orribil sguardo.
Turbasi ’l ciel, trema la terra, e in volta
fugge l’inferno col suo ner stendardo.
Giá l’Alma santa, omai dal core sciolta,
vien per lo petto ai labri, ove col dardo
uccide Morte, e, uscendo, con gran voce
lasciò vittoriosa il corpo in croce.