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1. Magnanimo signor, se 'n te le stelle
spiran cotante grazie largamente,
piovan piú tosto in me calde fritelle,
che seco i' poscia ragionar col dente;
dammi ber e mangiar, se vòi piú belle
le rime mie; ch'io d'Elicon niente
mi curo, in fé di Dio; ché 'l bere d'acque
(bea chi ber ne vòl!) sempre mi spiacque.
2. Ben trovo ch'un fiascone di bon grego
versi cantar mi fa di vinti piedi;
tanti dottori disputando allego
che a me piú ch'a Tomaso e Scotto credi;
né dirti so cotanti «probo» «nego» Disputazioni de' frati
purché qualche argumento mi concedi;
non parloti cristero né supposta,
ma qualche bon capon o d'oca rosta.
3. Ti accerto ben ch'io canto il Miserere,
né ad «vitulos» son anco giunto mai;
Boezio di trent'anni sul tagliere
mi dà sempre ristor, sí come sai;
però, se vòi ch'i' canti, o bel missere,
da' del fiato a la piva o poco o assai;
fiato di zancie no, ma intendi bene:
mangion e bevon anco le Camene!
4. O tempi grassi, o giorni fortunati, Esclamazione
quando e' poeti si trovorno boni,
mercé Gian Bocca d'or de' Mecenati
ch'ingrossar fenno già molti Maroni! Virgilio
Or non cosí piú, no; ch'oggi piú grati
son gli ubriachi, sguattari e buffoni,
de quelli ch'immortal pon far altrui,
perch'«est» apprezzan piú d'«eram» e «fui».
5. Ma tu, lettor, chi sei? férmati al varco,
anti che 'l mio batell' entrar comince;
tràtti in disparte, se d'invidia carco
guardi cagnesco et hai vista di lince;
tal mercantia, t'aviso, non imbarco,
perché talor la colera mi vince
e la senapra montami sí al naso
ch'io non sto dir: - Va' drieto, Satanaso! - Vade retro, Sathanas
6. Anzi col pugno ti rispondo a l'occhio,
di ciò che parli in questa e quella orecchia.
Poltron che sei, non vedi ch'al ginocchio
rott'ho la calza e la gonnella vecchia?
Non odi tu mia voce d'un ranocchio
quando montar la rana s'apparecchia?
Però, s'io canto male, fia scusato,
ché 'l lupo si pentí cantar famato. Proverbio
7. Ma 'l spirito gentile, qual si sia,
che mosse amore dirmi l'error mio,
ringrazio molto; ch'altra cortesia
non trovo a questa egual, in fé di Dio.
Pur saper dè' ch'io son di Lombardia Lombardi e Toscani
e ch'in mangiar le rape ho del restio;
non però, se non nacqui tosco, i' piango;
ch'anco lo ciatto gode nel suo fango.
8. Però Dante, Francesco e Gian Boccacio
portato han seco tanto che sua prole
uscir non sa di suo propio linguaccio;
ché quando alcuno d'elli cantar vòle,
non odi se non «buio», «areca» e «caccio»,
né mai dal suo Burchiello si distole; Burchiello
e pur lor pare che 'l tempo si perda
da noi, se nostre rime fusser merda.
9. Se merda son le nostre, a dirlo netto,
n'anche le sue mi sanno succo d'ape;
dati perdon al mio parlar scoretto,
ch'in chiaro lume nebbia mai non cape;
e questo voglio ch'a color sia detto
che chiaman: «lombarduzzo mangia rape»; Lombardo mangia rapa
serbo l'onor de l'inclite persone,
ad altri grido: «tosco chiachiarone». Toscano chiachiarone
10. Né alcun di quelli tali m'addimande
di qual auttore questo libro i' tolsi;
rispondo lor ch'un gran sacco di giande
e duo di fabe in quelle bande accolsi,
ove trovai de libbri copia grande,
e parte d'essi aver con meco volsi,
acciò le giande sian de' pari soi;
ch'assai manco son gli uomini ch'e' boi.
11. Ma se cortesamente alcun sincero
mi 'l chiede, come sempre deve farsi,
ecco la causa, ecco 'l volume intiero
gli areco, acciò ben poscia saziarsi
e chiaramente intenda di liggiero
quai libbri falsi e quai sian veri sparsi;
ma non gli faccia mia lunghezza nausa,
ché lungo dir convien in lunga causa.
12. Signori miei, son stato in Val Camonica Valle bressana
per consultar le strighe di quel loco,
se mi saprebbon di Turpin la cronica
mostrar per forza d'incantato foco;
una vecchiarda in volto malenconica
rispose alor con un vocione roco:
- Gnaffe che sí, tu la vedrai dibboto;
entra qui tosto meco, e non far motto. -
13. I' non mi 'l fei ridir, ma s'un montone
ratto mi vidi al ciel con gran diletto;
poi, vòlto il freno verso l'Aquilone,
discese in Gotia dentro a quel mar stretto;
et ivi di sua man un gran petrone
alzando, aperse un buco sotto 'l tetto;
si trasse dentro et io seguilla apresso,
per meraviglia fora di mi stesso.
14. Cento cinquanta millia e piú volumi Libbri novamente trovati
(già non vi mento!) vidi in quella tomba,
ch'e' Gotti anticamente, coi costumi
de porci e col rumor che 'n ciel ribomba,
trasser per tanti monti, valli e fiumi
d'Italia for, la qual par che soccomba
la causa ben direi, ma temo guai.
15. Di Livio qui le deche sono tutte, Livio
e quelle di Salustio assai piú bone; Salustio
qui di Turpin fur anco ricondutte Turpino
quaranta deche in gallico sermone;
io tre di quelle provo esser tradutte
in lingua nostra per quattro persone;
sol il principio de la prima i' tolsi,
né 'l pargoletto Orlando passar volsi.
16. Sol d'Orlandin i' canto, e nondimeno,
quando Turpino divertisce altrove,
de l'ordinario suo non m'alieno;
ché donde in molti luoghi si rimove,
o quatro o cinque stanze v'incateno,
acciò che 'l libbro mio non si riprove;
e forse fia col tempo chi su questo
dirà diffusamente tutto 'l resto.
17. Di quanti scartafacci e scrittarie
oggidí cantar odo in le boteghe,
credeti a me, son tutte cagarie,
piú false assai de le menzogne greghe;
fatene, bei signori, forbarie,
ch'ognun il naso no, ma 'l cul si freghe;
sol tre n'abbiamo vere in stil toscano:
Boiardo le trascrisse di sua mano. Matteo Maria Boiardo
18. Come l'ebbe non so, sassel Morgana;
ché con le strighe anch'egli ebbe mistade;
di che mi penso ch'entro quella tana
fusse portato a l'ultime contrade,
onde togliesse quella piú soprana
parte che valse a gran celeritade
ma non finí tradurle in nostra lingua,
ché Morte ogni opra pia truncar s'impingua.
19. Però lasciò imperfetta la seconda,
la qual finisce Ludovico a pieno; Ludovico Ariosto
né qui Francesco Cieco piú s'asconda Francesco Cieco
che gli rubbò la sesta, e nondimeno
vi giugne assai per farla piú gioconda,
onde gli vien da noi creduto meno;
l'ultima diede con sua propria mano
20. Polizian fu quello ch'altamente Angelo Poliziano
cantò del gran gigante dal bataio,
et a Luiggi Pulzi suo cliente Alovigi Pulzi
l'onor die' senza scritto di notaio,
pur dopo si pentí; ma chi si pente
po 'l fatto, pesta l'acqua nel mortaio;
sia pur o non sia pur cotesto vero,
so ben, chi credde troppo ha del liggero.
21. Queste tre, dunque, deche sin qua trovo
esser dal fonte di Turpin cavate;
ma Tribisunda, Ancroia, Spagna, e Bovo
co' l'altro resto al foco sian donate;
apocrife son tutte, e le riprovo Apocrifi e autentici libbri
Boiardo, l'Ariosto, Pulci e 'l Cieco
autenticati sono, et io con seco.
22. Autentico son io, perché la prima
deca del gran dottore v'antipono;
e benché era misterio d'alta lima,
pur basta assai che 'l vero qui ragiono.
E cominciando de la storia in cima
la corte di re Carlo pria dispono;
poscia diremo come, quale e quando
e di qual padre nacque il conte Orlando.
23. Orlando che non ebbe in terra eguale Orlando
né d'arme né d'onor né di fortezza;
Orlando de gli erranti principale,
ch'usava in l'altrui bene sua destrezza;
Orlando, sotto 'l cui brazzo fatale
andò la fede nostra in somma altezza;
Orlando saggio, Orlando sí gentile
che 'n sue lode vorei d'Omero il stile.
24. Prima vi narro duodeci baroni,
che «paladini» fannosi chiamare;
di Carlo e de la Chiesa campioni,
boni per terra et ottimi per mare;
amore, fede, ragion, arme, ronzoni
erano lor diletto e gioie care;
guerre, duelli, giostre, torniamenti
son proprio pasto de sí fatte genti.
25. Milon d'Angrante era di lor primiero, Milone
poscia duo soi fratelli, Amon, Ottone;
Danese Ugieri e 'l bergognon Rainero,
poi di Bavera Namo e Salomone; Corte vecchia di re Carlo
Rampallo che fu padre di Rugiero;
quel di Bordella, il gran signor Ivvone;
Morando, e d'Agrismonte Bovo, e quello
Ginnamo di Maganza iniquo e fello.
26. Questi dopo Milon pari d'onore
furon in corte e ne' stipendi soi;
non però tutti eguali eran di cuore,
perché sovente tra gli franchi eroi
scopresi qualche ingrato e traditore,
come leggendo intenderete poi;
di quelli dico dal falcon bianco Maganzesi
che 'n frode mai non ebber il cor stanco.
27. Saper vorei, o astrologhi e geomètri
che 'l ciel non che la terra misurate,
di qual violente stella cosí tetri,
cosí maligni influssi a le contrate
piovono di Maganza, o pur quai metri
de' nigromanti et importune fate
ch' un sol non è che traditor non fia.
28. Né ardisca dirmi altrui che Sansonetto Sansonetto
fusse figliuol di Gano o d'altro tale,
perché non venne mai d'un maladetto
falsario ingannator, uomo leale;
il volto, gli atti et ogni bell'effetto,
german il fan d'Orlando naturale;
Turpin ciò scrive, e chi mi nega questo,
nega del detto auttore il fidel testo.
29. Son certi pedantuzzi di montagna,
che, poi c'han letto Ancroia et Altobello
e dicon tutta in mente aver la Spagna
e san chi ancise Almonte o Chiariello,
credono l'opre d'altri sian d'aragna,
e sue non già, ma d'un saldo martello;
le cosí avien che l'asino di lira
crede sonar, quando col cul suspira.
30. Ma poi che furon d'elli parte estinti,
parte stracchi rimaser per tropp'anni,
Carlo si ellesse duodeci de vinti
gioveni forti, ai bellicosi affanni,
e, come era costume, li ebbe cinti
di brando, sproni e militari panni,
ch'oprasser meglio il brando per la fede
che 'l predicar a 'n popol che già crede.
31. Vorrei pur io veder che i nostri tanti
appresentati del Gran Turco innanti,
vellent antiquos patres imitari,
li quali, s'oggi in Cielo sono santi,
non l'han già racquistato con denari,
ma chi col predicar e chi col brando,
sí come fece Paolo e 'l cont'Orlando. Paolo apostolo
32. Orlando fu di quelli capo e guida, Corte nova di re Carlo
poscia l'invitto suo cugin Renaldo,
segue Oliver ove ogni ben s'annida,
Astolfo il bello aventuroso e baldo,
Gano, stirpe di Giuda et omicida, Gano traditore
falso de' falsi, perfido, rubaldo,
figliuol non d'uomo né da Dio creato,
ma il gran diavol ebbelo cacato.
33. Succede a questo lupo la colomba,
colomba non di forze, ma di vita:
dico Dudon, che con sonora tromba
ciascun per santo e forte in terra addita.
Non manco di esso il gran nome ribomba
pur furon differenti e' santi loro:
angeli questi, diavoli coloro.
34. Poi Vivian suo frate, e Rizzardetto
che volse farsi, e non poté, gigante;
segue Gualtier che fu di piú intelletto
che di fortezza, onde spesso le piante
mostrò co gli altri al ciel; poi Sansonetto,
Ricardo poi, d'ingegno assai prestante;
Angelin manca dirvi et Angeleri, Sottopaladini
Avin, Avoglio, Otton e Bellingeri.
35. Fra' duodici non vengon questi sei,
ma «sottopaladini» son chiamati,
perché nel gran consiglio a quatro, a sei
entran, s'alcun de' primi son mancati;
ebber ne l'armi già molti trofei,
dico col cul in terra scavalcati;
e fu tra loro tanta cortesia
che sempre traboccòr di compagnia.
36. Orlando sol, per sua virtú, di Roma Orlando
e fu sopra di sé la nobil soma
ch'anco portò Milon suo genitore;
egli tenea la terra umile e doma
sol de' soi fatti egregi al gran rumore.
Namo, re Salomone, Gano, Ugieri Namo, Salomone,
furon di Carlo e' quatro consiglieri. Danese, Gano
37. Il gentil Olivier sopra un convito Olivier
sempre fu siniscalco ne la corte;
d'ordir un ballo Astolfo era perito, Astolfo
e l'esservi buffon toccò per sorte.
Turpin fu 'l capellano, et anco ardito: Turpin
a molti Saracin diede la morte;
ma piú del pastorale usò la lanza:
l'una magrisce e l'altro fa la panza
38. Rinaldo, d'ogni bon compagno padre, Rinaldo
benché piú de le volte andasse in bando,
era logotenente ne le squadre
del suo caro cugino conte Orlando;
commerzio ebbe talor de genti ladre;
capo di parte per menar il brando
nel sangue di Maganza, e Chiaramonte
sua prole vindicare di tant'onte.
39. Tal ordine di quella corte altera
pose re Carlo; e qui Turpin la scrive,
acciò ch'abbi, o lettor, la storia vera
e che da sogni e favole ti schive.
Fattime dunque, o gente, intorno schiera
et ascoltate queste rime vive,
vive cosí che forse un gardelino
vi parerò di quelli del molino.
40. Ne l'inclita cità, ch'è capo e fonte Parigi
de l'alma Franza, dicovi Parigi,
col scettro in mano e la diadema in fronte
regnava Carlo Mano e san Dionigi: San Dionigi
questo di Europa regge pian e monte;
quello tira nel Ciel per suoi vestigi
chiunque in l'alta Trinitade crede,
alzando a son di spata la sua fede.
41. Eran di Iano chiuse le gran porte,
e 'l bellico furor post' in catene;
la pace e libertà con bella sorte
ivan d'invidia sciolte e senza pene,
le quali de' tirranni ne la corte
riposto avean lor speme et ogni bene;
ma dove ambizion e 'nvidia regna,
difficil è che mai pace si tegna.
42. Quanto mai cinge 'l mar e vede 'l sole,
tre capi coronati avean diviso:
quinci Mambrino, maladetta prole, Mambrino
tien tutta l'Asia e brama il paradiso Asia
(ché quanto piú s'acquista piú si vòle
e chi non sa rubbare vien deriso);
quindi Agolante l'Africa si gode, Agolante, Africa
e pur non esser Dio del Ciel si rode.
43. Ah maledetta rabbia d'avarizia, Esclamazione
ch'ogn'ordine soverte di Natura,
che per servar tra popoli amicizia
interpose de' regni la sgiuntura
de mari, fiumi e monti; e la malizia
tosto ruppe de' termini le mura!
Però l'Italia non piú Italia appello,
ma d'ogni strana gente un bel bordello.
44. Sol de l'Europa Carlo si contenta, Carlo Europa
e lei diffende da que' crudi cani;
ché, se di guerra alcun di lor il tenta,
mostrali tosto c'ha l'ungiute mani;
tanto li batte, tanto li tormenta
che i fa morir ne' fossi e ne' pantani;
e pur sovente provano lor sorte,
tornando in Franza ad incontrar la morte.
45. Stavasi dunque Carlo in festa e 'n gioco,
novellamente imperator creato;
papa Adriano primo in tanto loco
l'avea meritamente sollevato;
donde per tutta Europa si fa foco,
et odesi 'l rumore d'ogni lato;
ma Franza piú de li altri regni gode,
né altro che trombe, corni e canti s'ode.
46. Anco di novo l'alta Imperatrice
dal regno ispano venne, Galerana; Gallerana
piú de le belle bella e piú felice,
era costei d'ogni virtú fontana;
fra cento dame vergini pudice,
parea fra cento stelle una Diana.
Pensate che triunfo Carlo face,
che 'l Ciel cotante grazie gli compiace!
47. Tutto Parigi sona d'istrumenti
per danze, gioghi, salti e per coree;
diverse foggie fanno et ornamenti
gioveni arditi e vaghe semidee;
onde gli ardori crescon e' lamenti
de li affocati amanti e amate dee;
ma piú de l'altre Berta, ch'è sorella Milon e Berta
di Carlo, per Milone si flagella.
48. Flagellasi d'ognora nel tenace
amor c'ha preso al capitan Milone;
non mai ritrova posa, non mai pace,
non mai gli scopre tanta passione;
troppo l'aspetto altier, troppo le piace
l'onor, le forze, gli atti del barone;
egli nol sa, ma sciolto va sicuro;
però da lei fi' detto alpestro e duro.
49. Piú de le care cose cara tene,
questa donna gentil e bella, Carlo;
altra sore non ha, per che gran bene
le vòle e falle onor quanto può farlo;
pur, s'egli mai sapesse le catene
ch'avinta l'hanno e l'amoroso tarlo,
penso contrastarebbe a tal amore;
ché piú alto maritarla tien in cuore.
50. Dunque una giostra nova fu contento
per lei, ch'assai pregollo, di bandire: Natura di Amore
a ciò la move l'aspro suo tormento
e 'l sfrenato desio c'ha di nodrire
l'occhio de folli sguardi; ma 'l talento
d'un cibo tal non sa se non mentire;
ché quanto mangi piú, piú senti fame, Fame amorosa
né dramma pò scemar di quelle brame.
51. Di Franza tutta, Spagna, d'Ingleterra,
d'Italia bella, Grecia e d'Alemagna
vengon già tanti cavallier di guerra
che l'alpe ne son carche e la campagna.
La grande piaccia d'un steccato serra
Milon d'Angrante, e nulla vi sparagna,
perch'era il mastro et orditor del tutto,
in fin ch'a l'esser suo l'ebbe costrutto.
52. Stavasi Berta sola e pensorosa
guatando su la piaccia dal balcone;
e mentre s'una man la guancia posa
et al pigior de' soi pensier si spone,
ecco in un manto d'incarnata rosa
vide l'obbietto del suo cor, Milone,
che vien luntano sopra un bel destriero;
fallo boffare e tien nullo sentiero.
53. Niun sentiero quel balzano tene,
balzano d'un sol piede estremo e manco; Bellezza d'un cavallo
stellato in fronte, e con sottili vene,
ha largo petto e rotondetto 'l fianco;
alza le piante e gioca de le schiene;
qual nevo, qual carbon, qual corvo è bianco;
bell'è 'l cavallo e bono, ma chi 'l regge
piú bello e bono il fa, mentre 'l corregge.
54. Muovel a 'n tempo al corso, a 'n tempo il frena; Arte di cavalcare
quello, che 'ntende, or salta or corre or gira,
boffa le nari e foco ardente mena,
tutto in un groppo e capo e coda tira.
Ciascun s'allarga, ch'un destrier tien piena
la via capace, e scampavi chi 'l mira.
Berta ciò vede, onde nel cor l'abbraccia,
ché, come neve al sol, convien si sfaccia.
55. Amor, ch'è spirto inquieto e mai non dorme,
qui l'attendea già lungamente al varco;
vede natura in lor esser conforme, Conformità di sangue
onde non gran tirar fu uopo d'arco;
ché, quando cessa il mondo esser deforme
pel fredo e vien d'erbette e fiori carco,
quando 'l Sol entra l'aureo Montone,
nacque la dama, nacque il gran barone. Primavera
56. Leva dunque la fronte a l'improviso
et accocciò co gli occhi a gli occhi d'ella:
scendeli un colpo d'un modesto riso
che quasi trabuccollo for di sella;
concorre il sangue, e spento lascia 'l viso;
e 'n mezo al petto il freddo cor saltella;
bassa la vista, e poi mirar vols'anco:
alor ne venne, al doppio colpo, manco.
57. Pallido e smorto, volta il fren altrove,
ch'un strano caso e novo l'addolorra;
i' dico novo, quando che mai prove
non fatto avea d'amore fin ad ora;
vorebbe irsene a casa, e non sa dove
prenda 'l sentiero, tant'è di sé fora;
pur tanto de' stafier segue la traccia
che trova l'uscio e dentro vi si caccia.
58. In quella fretta ch'uomo, pria gagliardo, Comparazione
da fredda febbre vien ratto assalito,
corre a corcarsi, e pargli troppo tardo
ogni presto servir, tant'è 'nvilito;
perde la forza e cangiasi nel sguardo,
cresce la nausa e fugge l'appetito:
cosí Milon, cangiato in un momento,
tutto che corra, il corso gli par lento.
59. Salta d'arzone, in gesto qual non sòle,
ché 'n mille parti ha vòlto lo 'ntelletto;
chiavasi solo, e quanto può si dole,
trovando di sospiri colmo il letto;
quivi si cruccia e sfoga tal parole
che 'ntenerir potria d'azal un petto.
- Amor, - dicea - crudel Amor protervo,
m'hai còlto pur qual sempliciotto cervo!
60. Per far una leggiadra tua vendetta
e punir in un dí ben mille offese,
celatamente l'arco e la saetta
tua man spietata in mia ruina prese.
Ah punto infausto! ah stella maladetta, Lamento di Milone
che contra te mi tolse le diffese,
alor ch'io vidi quella faccia infusa
di tal beltade, a me sol di Medusa!
61. Misero me, che 'ndarno esser sperai
di sí onorevol giostra vincitore!
E tu, cieco fanciullo e nudo, m'hai
gettato fuori non del corridore
in terra, ma di gioia in tanti guai,
di bella libertade in tant'errore!
Deh! Dio, se de' mortali unqua ti cale,
dal cor mi sferri questo ardente strale!
62. Pazzo che sei, Milon! come non vedi
che non sei pare al grado imperiale?
Se di tal vischio non ritrago e' piedi,
che possione sperar altro che male?
E posto che 'l suo amor ella mi credi,
non l'averò però, ch'i' non son tale
cui la Fortuna un tanto ben dar voglia; Natura di amante
e pur Amor di lei seguir me 'nvoglia! -
63. Mentre solingo crucciasi Milone,
e mille fiate vòle e mille svòle
quel che consiglia Amor, quel che ragione,
facendo come foglia al vento sòle,
tra le Colonne il già straccato sole;
surge la notte da la parte adversa;
ciascun in preda al sonno si roversa.
64. Et io dico ch'Amor è un bardassola
piú che sua madre non fu mai puttana;
chi 'l chiama «dio» si mente per la gola,
ché 'n Dio non cape furia e mente insana.
Amor è un barbagianni che non vola,
bench'abbia l'ali et usi in ogni tana;
guardativi da lui, ché 'l ladro antico
lascia la porta et entra nel postíco.
65. Questo ben sa mia diva Caritunga,
quando talor col sguardo torto addochia
qualch'asinello da la coda lunga,
che falla porre a canto la conocchia.
Ma lui convien che poscia si compunga
di l'error suo, perché qualche pannocchia
vi studia sempre, e fassi bon platonico;
e chi non ha dinari è malenconico.