Teofilo Folengo
Orlandino
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[PRIMO CAPITOLO]

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[PRIMO CAPITOLO]

 

                                 1.    Magnanimo signor, se 'n te le stelle

spiran cotante grazie largamente,

piovan piú tosto in me calde fritelle,

che seco i' poscia ragionar col dente;

dammi ber e mangiar, se vòi piú belle

le rime mie; ch'io d'Elicon niente

mi curo, in di Dio; ché 'l bere d'acque

(bea chi ber ne vòl!) sempre mi spiacque.

 

                                 2.    Ben trovo ch'un fiascone di bon grego

versi cantar mi fa di vinti piedi;

tanti dottori disputando allego

che a me piú ch'a Tomaso e Scotto credi;

dirti so cotanti «probo» «nego»                   Disputazioni de' frati

purché qualche argumento mi concedi;

non parloti cristerosupposta,

ma qualche bon capon o d'oca rosta.

 

                                 3.    Ti accerto ben ch'io canto il Miserere,

né ad «vitulos» son anco giunto mai;

Boezio di trent'anni sul tagliere

mi sempre ristor, come sai;

però, se vòi ch'i' canti, o bel missere,

da' del fiato a la piva o poco o assai;

fiato di zancie no, ma intendi bene:

mangion e bevon anco le Camene!

 

                                 4.    O tempi grassi, o giorni fortunati,                      Esclamazione

quando e' poeti si trovorno boni,

mercé Gian Bocca d'or de' Mecenati

ch'ingrossar fenno già molti Maroni!                 Virgilio

Or non cosí piú, no; ch'oggi piú grati

son gli ubriachi, sguattari e buffoni,

de quelli ch'immortal pon far altrui,

perch'«est» apprezzan piú d'«eram» e «fui».

 

                                 5.    Ma tu, lettor, chi sei? férmati al varco,

anti che 'l mio batell' entrar comince;

tràtti in disparte, se d'invidia carco

guardi cagnesco et hai vista di lince;

tal mercantia, t'aviso, non imbarco,

perché talor la colera mi vince

e la senapra montami al naso

ch'io non sto dir: - Va' drieto, Satanaso! -         Vade retro, Sathanas

 

                                 6.    Anzi col pugno ti rispondo a l'occhio,

di ciò che parli in questa e quella orecchia.

Poltron che sei, non vedi ch'al ginocchio

rott'ho la calza e la gonnella vecchia?

Non odi tu mia voce d'un ranocchio

quando montar la rana s'apparecchia?

Però, s'io canto male, fia scusato,

ché 'l lupo si pentí cantar famato.                     Proverbio

 

                                 7.    Ma 'l spirito gentile, qual si sia,

che mosse amore dirmi l'error mio,

ringrazio molto; ch'altra cortesia

non trovo a questa egual, in di Dio.

Pur saper ' ch'io son di Lombardia                Lombardi e Toscani

e ch'in mangiar le rape ho del restio;

non però, se non nacqui tosco, i' piango;

ch'anco lo ciatto gode nel suo fango.

 

                                 8.    Però Dante, Francesco e Gian Boccacio

portato han seco tanto che sua prole

uscir non sa di suo propio linguaccio;

ché quando alcuno d'elli cantar vòle,

non odi se non «buio», «areca» e «caccio»,

né mai dal suo Burchiello si distole;                  Burchiello

e pur lor pare che 'l tempo si perda

da noi, se nostre rime fusser merda.

 

                                 9.    Se merda son le nostre, a dirlo netto,

n'anche le sue mi sanno succo d'ape;

dati perdon al mio parlar scoretto,

ch'in chiaro lume nebbia mai non cape;

e questo voglio ch'a color sia detto

che chiaman: «lombarduzzo mangia rape»;      Lombardo mangia rapa

serbo l'onor de l'inclite persone,

ad altri grido: «tosco chiachiarone».                 Toscano chiachiarone

 

                                 10.  Né alcun di quelli tali m'addimande

di qual auttore questo libro i' tolsi;

rispondo lor ch'un gran sacco di giande

e duo di fabe in quelle bande accolsi,

ove trovai de libbri copia grande,

e parte d'essi aver con meco volsi,

acciò le giande sian de' pari soi;

ch'assai manco son gli uomini ch'e' boi.

 

                                 11.  Ma se cortesamente alcun sincero

mi 'l chiede, come sempre deve farsi,

ecco la causa, ecco 'l volume intiero

gli areco, acciò ben poscia saziarsi

e chiaramente intenda di liggiero

quai libbri falsi e quai sian veri sparsi;

ma non gli faccia mia lunghezza nausa,

ché lungo dir convien in lunga causa.

 

                                 12.  Signori miei, son stato in Val Camonica            Valle bressana

per consultar le strighe di quel loco,

se mi saprebbon di Turpin la cronica

mostrar per forza d'incantato foco;

una vecchiarda in volto malenconica

rispose alor con un vocione roco:

- Gnaffe che , tu la vedrai dibboto;

entra qui tosto meco, e non far motto. -

 

                                 13.  I' non mi 'l fei ridir, ma s'un montone

ratto mi vidi al ciel con gran diletto;

poi, vòlto il freno verso l'Aquilone,

discese in Gotia dentro a quel mar stretto;

et ivi di sua man un gran petrone

alzando, aperse un buco sotto 'l tetto;

si trasse dentro et io seguilla apresso,

per meraviglia fora di mi stesso.

 

                                 14.  Cento cinquanta millia e piú volumi                 Libbri novamente trovati

(già non vi mento!) vidi in quella tomba,

ch'e' Gotti anticamente, coi costumi

de porci e col rumor che 'n ciel ribomba,

trasser per tanti monti, valli e fiumi

d'Italia for, la qual par che soccomba

a simile canaglia sempre mai:

la causa ben direi, ma temo guai.

 

                                 15.  Di Livio qui le deche sono tutte,                       Livio

e quelle di Salustio assai piú bone;                    Salustio

qui di Turpin fur anco ricondutte                      Turpino

quaranta deche in gallico sermone;

io tre di quelle provo esser tradutte

in lingua nostra per quattro persone;

sol il principio de la prima i' tolsi,

né 'l pargoletto Orlando passar volsi.

 

                                 16.  Sol d'Orlandin i' canto, e nondimeno,

quando Turpino divertisce altrove,

de l'ordinario suo non m'alieno;

ché donde in molti luoghi si rimove,

o quatro o cinque stanze v'incateno,

acciò che 'l libbro mio non si riprove;

e forse fia col tempo chi su questo

dirà diffusamente tutto 'l resto.

 

                                 17.  Di quanti scartafacci e scrittarie

oggidí cantar odo in le boteghe,

credeti a me, son tutte cagarie,

piú false assai de le menzogne greghe;

fatene, bei signori, forbarie,

ch'ognun il naso no, ma 'l cul si freghe;

sol tre n'abbiamo vere in stil toscano:

Boiardo le trascrisse di sua mano.                     Matteo Maria Boiardo

 

                                 18.  Come l'ebbe non so, sassel Morgana;

ché con le strighe anch'egli ebbe mistade;

di che mi penso ch'entro quella tana

fusse portato a l'ultime contrade,

onde togliesse quella piú soprana

parte che valse a gran celeritade

ma non finí tradurle in nostra lingua,

ché Morte ogni opra pia truncar s'impingua.

 

                                 19.  Però lasciò imperfetta la seconda,

la qual finisce Ludovico a pieno;                      Ludovico Ariosto

né qui Francesco Cieco piú s'asconda               Francesco Cieco

che gli rubbò la sesta, e nondimeno

vi giugne assai per farla piú gioconda,

onde gli vien da noi creduto meno;

l'ultima diede con sua propria mano

al spirito gentil Poliziano.

 

                                 20.  Polizian fu quello ch'altamente                         Angelo Poliziano

cantò del gran gigante dal bataio,

et a Luiggi Pulzi suo cliente                               Alovigi Pulzi

l'onor die' senza scritto di notaio,

pur dopo si pentí; ma chi si pente

po 'l fatto, pesta l'acqua nel mortaio;

sia pur o non sia pur cotesto vero,

so ben, chi credde troppo ha del liggero.

 

                                 21.  Queste tre, dunque, deche sin qua trovo

esser dal fonte di Turpin cavate;

ma Tribisunda, Ancroia, Spagna, e Bovo

co' l'altro resto al foco sian donate;

apocrife son tutte, e le riprovo                          Apocrifi e autentici libbri

come nemighe d'ogni veritate;

Boiardo, l'Ariosto, Pulci e 'l Cieco

autenticati sono, et io con seco.

 

                                 22.  Autentico son io, perché la prima

deca del gran dottore v'antipono;

e benché era misterio d'alta lima,

pur basta assai che 'l vero qui ragiono.

E cominciando de la storia in cima

la corte di re Carlo pria dispono;

poscia diremo come, quale e quando

e di qual padre nacque il conte Orlando.

 

                                 23.  Orlando che non ebbe in terra eguale                    Orlando

né d'arme né d'onor né di fortezza;

Orlando de gli erranti principale,

ch'usava in l'altrui bene sua destrezza;

Orlando, sotto 'l cui brazzo fatale

andò la fede nostra in somma altezza;

Orlando saggio, Orlando gentile

che 'n sue lode vorei d'Omero il stile.

 

                                 24.  Prima vi narro duodeci baroni,

che «paladini» fannosi chiamare;

di Carlo e de la Chiesa campioni,

boni per terra et ottimi per mare;

amore, fede, ragion, arme, ronzoni

erano lor diletto e gioie care;

guerre, duelli, giostre, torniamenti

son proprio pasto de fatte genti.

 

                                 25.  Milon d'Angrante era di lor primiero,                Milone

poscia duo soi fratelli, Amon, Ottone;

Danese Ugieri e 'l bergognon Rainero,

poi di Bavera Namo e Salomone;                             Corte vecchia di re Carlo

Rampallo che fu padre di Rugiero;

quel di Bordella, il gran signor Ivvone;

Morando, e d'Agrismonte Bovo, e quello

Ginnamo di Maganza iniquo e fello.

 

                                 26.  Questi dopo Milon pari d'onore

furon in corte e ne' stipendi soi;

non però tutti eguali eran di cuore,

perché sovente tra gli franchi eroi

scopresi qualche ingrato e traditore,

come leggendo intenderete poi;

di quelli dico dal falcon bianco                                 Maganzesi

che 'n frode mai non ebber il cor stanco.

 

                                 27.  Saper vorei, o astrologhi e geomètri

che 'l ciel non che la terra misurate,

di qual violente stella cosí tetri,

cosí maligni influssi a le contrate

piovono di Maganza, o pur quai metri

de' nigromanti et importune fate

moveno cotesta gente ria

ch' un sol non è che traditor non fia.

 

                                 28.  Né ardisca dirmi altrui che Sansonetto                   Sansonetto

fusse figliuol di Gano o d'altro tale,

perché non venne mai d'un maladetto

falsario ingannator, uomo leale;

il volto, gli atti et ogni bell'effetto,

german il fan d'Orlando naturale;

Turpin ciò scrive, e chi mi nega questo,

nega del detto auttore il fidel testo.

 

                                 29.  Son certi pedantuzzi di montagna,

che, poi c'han letto Ancroia et Altobello

e dicon tutta in mente aver la Spagna

e san chi ancise Almonte o Chiariello,

credono l'opre d'altri sian d'aragna,

e sue non già, ma d'un saldo martello;

le cosí avien che l'asino di lira

crede sonar, quando col cul suspira.

 

                                 30.  Ma poi che furon d'elli parte estinti,

parte stracchi rimaser per tropp'anni,

Carlo si ellesse duodeci de vinti

gioveni forti, ai bellicosi affanni,

e, come era costume, li ebbe cinti

di brando, sproni e militari panni,

ch'oprasser meglio il brando per la fede

che 'l predicar a 'n popol che già crede.

 

                                 31.  Vorrei pur io veder che i nostri tanti

teologi e soldati cosí vari,

appresentati del Gran Turco innanti,

vellent antiquos patres imitari,

li quali, s'oggi in Cielo sono santi,

non l'han già racquistato con denari,

ma chi col predicar e chi col brando,

come fece Paolo e 'l cont'Orlando.                     Paolo apostolo

 

                                 32.  Orlando fu di quelli capo e guida,                           Corte nova di re Carlo

poscia l'invitto suo cugin Renaldo,

segue Oliver ove ogni ben s'annida,

Astolfo il bello aventuroso e baldo,

Gano, stirpe di Giuda et omicida,                             Gano traditore

falso de' falsi, perfido, rubaldo,

figliuol non d'uomo né da Dio creato,

ma il gran diavol ebbelo cacato.

 

                                 33.  Succede a questo lupo la colomba,

colomba non di forze, ma di vita:

dico Dudon, che con sonora tromba

ciascun per santo e forte in terra addita.

Non manco di esso il gran nome ribomba

di Malagigi, pallido eremita;

pur furon differenti e' santi loro:

angeli questi, diavoli coloro.

 

                                 34.  Poi Vivian suo frate, e Rizzardetto

che volse farsi, e non poté, gigante;

segue Gualtier che fu di piú intelletto

che di fortezza, onde spesso le piante

mostrò co gli altri al ciel; poi Sansonetto,

Ricardo poi, d'ingegno assai prestante;

Angelin manca dirvi et Angeleri,                              Sottopaladini

Avin, Avoglio, Otton e Bellingeri.

 

                                 35.  Fra' duodici non vengon questi sei,

ma «sottopaladini» son chiamati,

perché nel gran consiglio a quatro, a sei

entran, s'alcun de' primi son mancati;

ebber ne l'armi già molti trofei,

dico col cul in terra scavalcati;

e fu tra loro tanta cortesia

che sempre traboccòr di compagnia.

 

                                 36.  Orlando sol, per sua virtú, di Roma                        Orlando

era confaloniero e senatore,

e fu sopra di sé la nobil soma

ch'anco portò Milon suo genitore;

egli tenea la terra umile e doma

sol de' soi fatti egregi al gran rumore.

Namo, re Salomone, Gano, Ugieri                           Namo, Salomone,

furon di Carlo e' quatro consiglieri.                         Danese, Gano

 

                                 37.  Il gentil Olivier sopra un convito                              Olivier

sempre fu siniscalco ne la corte;

d'ordir un ballo Astolfo era perito,                          Astolfo

e l'esservi buffon toccò per sorte.

Turpin fu 'l capellano, et anco ardito:                    Turpin

a molti Saracin diede la morte;

ma piú del pastorale usò la lanza:

l'una magrisce e l'altro fa la panza

 

                                 38.  Rinaldo, d'ogni bon compagno padre,                   Rinaldo

benché piú de le volte andasse in bando,

era logotenente ne le squadre

del suo caro cugino conte Orlando;

commerzio ebbe talor de genti ladre;

capo di parte per menar il brando

nel sangue di Maganza, e Chiaramonte

sua prole vindicare di tant'onte.

 

                                 39.  Tal ordine di quella corte altera

pose re Carlo; e qui Turpin la scrive,

acciò ch'abbi, o lettor, la storia vera

e che da sogni e favole ti schive.

Fattime dunque, o gente, intorno schiera

et ascoltate queste rime vive,

vive cosí che forse un gardelino

vi parerò di quelli del molino.

 

Narrazione

 

                                 40.  Ne l'inclita cità, ch'è capo e fonte                            Parigi

de l'alma Franza, dicovi Parigi,

col scettro in mano e la diadema in fronte

regnava Carlo Mano e san Dionigi:                         San Dionigi

questo di Europa regge pian e monte;

quello tira nel Ciel per suoi vestigi

chiunque in l'alta Trinitade crede,

alzando a son di spata la sua fede.

 

                                 41.  Eran di Iano chiuse le gran porte,

e 'l bellico furor post' in catene;

la pace e libertà con bella sorte

ivan d'invidia sciolte e senza pene,

le quali de' tirranni ne la corte

riposto avean lor speme et ogni bene;

ma dove ambizion e 'nvidia regna,

difficil è che mai pace si tegna.

 

                                 42.  Quanto mai cinge 'l mar e vede 'l sole,

tre capi coronati avean diviso:

quinci Mambrino, maladetta prole,                          Mambrino

tien tutta l'Asia e brama il paradiso                          Asia

(ché quanto piú s'acquista piú si vòle

e chi non sa rubbare vien deriso);

quindi Agolante l'Africa si gode,                              Agolante, Africa

e pur non esser Dio del Ciel si rode.

 

                                 43.  Ah maledetta rabbia d'avarizia,                                 Esclamazione

ch'ogn'ordine soverte di Natura,

che per servar tra popoli amicizia

interpose de' regni la sgiuntura

de mari, fiumi e monti; e la malizia

tosto ruppe de' termini le mura!

Però l'Italia non piú Italia appello,

ma d'ogni strana gente un bel bordello.

 

                                 44.  Sol de l'Europa Carlo si contenta,                            Carlo Europa

e lei diffende da que' crudi cani;

ché, se di guerra alcun di lor il tenta,

mostrali tosto c'ha l'ungiute mani;

tanto li batte, tanto li tormenta

che i fa morir ne' fossi e ne' pantani;

e pur sovente provano lor sorte,

tornando in Franza ad incontrar la morte.

 

                                 45.  Stavasi dunque Carlo in festa e 'n gioco,

novellamente imperator creato;

papa Adriano primo in tanto loco                           

l'avea meritamente sollevato;

donde per tutta Europa si fa foco,

et odesi 'l rumore d'ogni lato;

ma Franza piú de li altri regni gode,

né altro che trombe, corni e canti s'ode.

 

                                 46.  Anco di novo l'alta Imperatrice

dal regno ispano venne, Galerana;                           Gallerana

piú de le belle bella e piú felice,

era costei d'ogni virtú fontana;

fra cento dame vergini pudice,

parea fra cento stelle una Diana.

Pensate che triunfo Carlo face,

che 'l Ciel cotante grazie gli compiace!

 

                                 47.  Tutto Parigi sona d'istrumenti

per danze, gioghi, salti e per coree;

diverse foggie fanno et ornamenti

gioveni arditi e vaghe semidee;

onde gli ardori crescon e' lamenti

de li affocati amanti e amate dee;

ma piú de l'altre Berta, ch'è sorella                          Milon e Berta

di Carlo, per Milone si flagella.

 

                                 48.  Flagellasi d'ognora nel tenace

amor c'ha preso al capitan Milone;

non mai ritrova posa, non mai pace,

non mai gli scopre tanta passione;

troppo l'aspetto altier, troppo le piace

l'onor, le forze, gli atti del barone;

egli nol sa, ma sciolto va sicuro;

però da lei fi' detto alpestro e duro.

 

                                 49.  Piú de le care cose cara tene,

questa donna gentil e bella, Carlo;

altra sore non ha, per che gran bene

le vòle e falle onor quanto può farlo;

pur, s'egli mai sapesse le catene

ch'avinta l'hanno e l'amoroso tarlo,

penso contrastarebbe a tal amore;

ché piú alto maritarla tien in cuore.

 

                                 50.  Dunque una giostra nova fu contento

per lei, ch'assai pregollo, di bandire:                       Natura di Amore

a ciò la move l'aspro suo tormento

e 'l sfrenato desio c'ha di nodrire

l'occhio de folli sguardi; ma 'l talento

d'un cibo tal non sa se non mentire;

ché quanto mangi piú, piú senti fame,                   Fame amorosa

dramma scemar di quelle brame.

 

                                 51.  Di Franza tutta, Spagna, d'Ingleterra,

d'Italia bella, Grecia e d'Alemagna

vengon già tanti cavallier di guerra

che l'alpe ne son carche e la campagna.

La grande piaccia d'un steccato serra

Milon d'Angrante, e nulla vi sparagna,

perch'era il mastro et orditor del tutto,

in fin ch'a l'esser suo l'ebbe costrutto.

 

                                 52.  Stavasi Berta sola e pensorosa

guatando su la piaccia dal balcone;

e mentre s'una man la guancia posa

et al pigior de' soi pensier si spone,

ecco in un manto d'incarnata rosa

vide l'obbietto del suo cor, Milone,

che vien luntano sopra un bel destriero;

fallo boffare e tien nullo sentiero.

 

                                 53.  Niun sentiero quel balzano tene,

balzano d'un sol piede estremo e manco;             Bellezza d'un cavallo

stellato in fronte, e con sottili vene,

ha largo petto e rotondetto 'l fianco;

alza le piante e gioca de le schiene;

qual nevo, qual carbon, qual corvo è bianco;

bell'è 'l cavallo e bono, ma chi 'l regge

piú bello e bono il fa, mentre 'l corregge.

 

                                 54.  Muovel a 'n tempo al corso, a 'n tempo il frena;    Arte di cavalcare

quello, che 'ntende, or salta or corre or gira,

boffa le nari e foco ardente mena,

tutto in un groppo e capo e coda tira.

Ciascun s'allarga, ch'un destrier tien piena

la via capace, e scampavi chi 'l mira.

Berta ciò vede, onde nel cor l'abbraccia,

ché, come neve al sol, convien si sfaccia.

 

                                 55.  Amor, ch'è spirto inquieto e mai non dorme,

qui l'attendea già lungamente al varco;

vede natura in lor esser conforme,                          Conformità di sangue

onde non gran tirar fu uopo d'arco;

ché, quando cessa il mondo esser deforme

pel fredo e vien d'erbette e fiori carco,

quando 'l Sol entra l'aureo Montone,

nacque la dama, nacque il gran barone.                Primavera

 

                                 56.  Leva dunque la fronte a l'improviso

et accocciò co gli occhi a gli occhi d'ella:

scendeli un colpo d'un modesto riso

che quasi trabuccollo for di sella;

concorre il sangue, e spento lascia 'l viso;

e 'n mezo al petto il freddo cor saltella;

bassa la vista, e poi mirar vols'anco:

alor ne venne, al doppio colpo, manco.

 

                                 57.  Pallido e smorto, volta il fren altrove,

ch'un strano caso e novo l'addolorra;

i' dico novo, quando che mai prove

non fatto avea d'amore fin ad ora;

vorebbe irsene a casa, e non sa dove

prenda 'l sentiero, tant'è di sé fora;

pur tanto de' stafier segue la traccia

che trova l'uscio e dentro vi si caccia.

 

                                 58.  In quella fretta ch'uomo, pria gagliardo,               Comparazione

da fredda febbre vien ratto assalito,

corre a corcarsi, e pargli troppo tardo

ogni presto servir, tant'è 'nvilito;

perde la forza e cangiasi nel sguardo,

cresce la nausa e fugge l'appetito:

cosí Milon, cangiato in un momento,

tutto che corra, il corso gli par lento.

 

                                 59.  Salta d'arzone, in gesto qual non sòle,

ché 'n mille parti ha vòlto lo 'ntelletto;

chiavasi solo, e quanto può si dole,

trovando di sospiri colmo il letto;

quivi si cruccia e sfoga tal parole

che 'ntenerir potria d'azal un petto.

- Amor, - dicea - crudel Amor protervo,

m'hai còlto pur qual sempliciotto cervo!

 

                                 60.  Per far una leggiadra tua vendetta

e punir in un ben mille offese,

celatamente l'arco e la saetta

tua man spietata in mia ruina prese.

Ah punto infausto! ah stella maladetta,                 Lamento di Milone

che contra te mi tolse le diffese,

alor ch'io vidi quella faccia infusa

di tal beltade, a me sol di Medusa!

 

                                 61.  Misero me, che 'ndarno esser sperai

di onorevol giostra vincitore!

E tu, cieco fanciullo e nudo, m'hai

gettato fuori non del corridore

in terra, ma di gioia in tanti guai,

di bella libertade in tant'errore!

Deh! Dio, se de' mortali unqua ti cale,

dal cor mi sferri questo ardente strale!

 

                                 62.  Pazzo che sei, Milon! come non vedi

che non sei pare al grado imperiale?

Se di tal vischio non ritrago e' piedi,

che possione sperar altro che male?

E posto che 'l suo amor ella mi credi,

non l'averò però, ch'i' non son tale

cui la Fortuna un tanto ben dar voglia;                  Natura di amante

e pur Amor di lei seguir me 'nvoglia! -

 

                                 63.  Mentre solingo crucciasi Milone,

e mille fiate vòle e mille svòle

quel che consiglia Amor, quel che ragione,

facendo come foglia al vento sòle,

ecco nel mar ispano si ripone

tra le Colonne il già straccato sole;

surge la notte da la parte adversa;

ciascun in preda al sonno si roversa.

 

Conclusione

 

                                            64.     Et io dico ch'Amor è un bardassola

piú che sua madre non fu mai puttana;

chi 'l chiama «dio» si mente per la gola,

ché 'n Dio non cape furia e mente insana.

Amor è un barbagianni che non vola,

bench'abbia l'ali et usi in ogni tana;

guardativi da lui, ché 'l ladro antico

lascia la porta et entra nel postíco.

 

                                 65.  Questo ben sa mia diva Caritunga,

quando talor col sguardo torto addochia

qualch'asinello da la coda lunga,

che falla porre a canto la conocchia.

Ma lui convien che poscia si compunga

di l'error suo, perché qualche pannocchia

vi studia sempre, e fassi bon platonico;

e chi non ha dinari è malenconico.


 


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