Teofilo Folengo
Orlandino
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QUARTO CAPITOLO

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QUARTO  CAPITOLO

 

                                 1.    Quel stridulo cantar ch'una cicada

muove quando sul palo il cui dimena,

tal l'arpa mia, ch'assai poco m'aggrada,

mentre m'aggraffio 'l sangue d'ogni vena;

e pur convien tornarmi su la strada

e farvi udir un'altra mia sirena                                   Per gola del villan

ch'un carro sona, il qual mal onto e tardo            la rota stride

si duole che 'l patron gli mangia il lardo.

 

                                 2.    Ma se talor cantando ella scapuzza,

candido mio lettor, qual tu ti sei,

perché dolerti? anch'a' signori muzza

qualche correggia in mezzo a quatro o sei.

S'io mangio male, il fiato poi mi puzza.                Povertade

«Mangiate quae apponuntur, fratres mei»

chiama 'l Vangelo; benché tal precetto

servato vien da molti al suo dispetto.

 

Narrazione

 

                                 3.    Stette Milone solo nel stecato

come tal volta sòl far il leone,                                    Comparazione

che, fra lo stolo d'altre bestie entrato,

o fa o finge far del compagnone;

ma quelle in fuga vòlte gli dan lato,

di qua di cercando alcun macchione;

et egli solo resta in un istante,

quelle mirando a sé scampar davante.

 

                                 4.    Né piffarotrombacornetto

tacquer a la vittoria del barone;

grida ciascuno, e grande e parvoletto,

intorno a lui: - Milon, viva Milone! -

Et ecco di luntan con molto affetto

contra gli vien l'imperator Carlone,

lo quale col gran stolo contra vàlli,

e l'acquistato dono e premio dàlli.

 

                                 5.    Balzato era di sella il cavalliero,

vista la nobil schiera ch'a lui vene,

sciolvesi l'elmo e gittalo al sentiero,

e prono in terra l'alta gloria ottiene.

Cosí la santa umilità di Piero                                      San Piero

mertò 'l papato dopo le catene

e il Ciel dopo la croce; onde mi vanto

ch'io 'l chiamo in veritade «Padre santo».

 

                                 6.    Passato avea già Febo l'orizonte,                              Descrezzione

portandone da l'altra parte il giorno;                       d'una cena regale

lo siniscalco entrato era ne l'onte

e fumide cocquine, ove d'intorno

sguatteri, cuoghi e feminelle pronte

fanno de vari cibi il luogo adorno,

et ove cani, gatte, crudo e cotto

sonano un campo d'arme quand'è rotto.

 

                                 7.    Chi cuoce latesini e chi figàti,

chi volge in speto quaglie, oche, fasani;

qui son caponi a lardo impergotati,

qui taglian polpe e dan l'osse a li cani;

qual macina sapori delicati,

qual fa pastelli et altri cibi strani;

chi 'l foco innanti e chi drieto lo tira;

l'odor del fumo fin al ciel s'aggira.

 

                                 8.    Fra questo tanto cento paggi belli,

de' quali è capo il provido Rugiero,

ornati de costumi, pronti e snelli,

scorren di qua di col piè liggero,

portando banche, scanni, urne e vaselli,

razzi, tapeti, e ciò che fa mistero;

taccio l'argens e d'oro la credenza,

e ciò ch'ogni alto roy non può star senza.

 

                                 9.    Berta che 'l grande onor e pompa vide

fatta per Carlo al suo diletto amante,

pieno d'amar dolcezza e piagne e ride,

or lieta or triste, or molle or d'adamante;

ragion piú nulla può, ch'Amor s'asside

vittorioso in lei, saldo e costante;

però delibra, vòle e ferma il chiodo

parlare con Milon ad ogni modo.

 

                                 10.  De tutti gli animali non è 'l piú

impaziente d'una amante donna,

ch'ogni rispetto lascia e manda giú

di Lete al fiume, ove drento l'assonna.

Poscia 'l desio le sale tanto in su

ch'in capo non si vede aver la gonna;

e tanto il folle suo pensier la punge

ch'al fin si trova da sé stessa lunge.

 

                                 11Chiama Frosina e tosto le commanda

ch'a sé faccia venir il bel Rugiero:

Frosina l'ubedisce e d'ogni banda

cerca e ricerca il nobile scudero;

ma nulla fa, ché 'l siniscalco il manda

co li altri paggi (e ognun ha 'l suo doppiero)

di ciambra in ciambra, e dan l'acque a le mani

a re, duchi, marchesi e castellani.

 

                                 12.  Berta, che rotto vede il suo disegno,

la cosa in altro tempo differisce,

si crucia fra sé stessa e n'ha gran sdegno,

ch'Amor piú che mai caldo l'assalisce;

onde, fatta per lui pronta d'ingegno,                       Amor fa la persona

trenta belle dongielle a lei s'unisce,                         industriosa

ch'entrar delibra in sala con tal pompa

che, se Milon ha cor di pietra, il rompa.

 

                                 13.  Già mille torzi da gli aurati travi

pendon accesi e fan di notte giorno.

Carlo fra cento capi onesti e gravi

entra ne l'apparato tanto adorno.

Quivi usurari, preti, frati o schiavi

non ponno far un minimo soggiorno:

tutti scacciati sono a la mal ora,

ché 'n ta' luoghi non denno far dimora.

 

                                 14.  Ma Febo e Cintia e tutte l'altre stelle

ecco, da lunge, in l'ampia sala entraro;

Berta e Beatrice son de le piú belle,

che 'l fiato a milli amanti alor cavaro.                    Sospiri

Carlo, venendo incontro, accetta quelle,

al cui commando tutte s'assentaro,

et esso in cima del convito sede,

ove li discombenti al lungo vede.

 

                                 15.  Stanno le donne a petto de' baroni

e sonan gli organetti co' pedali.

Cinto s'avea Cupido a li galoni

duo gran turcassi colmi di piú strali.

Volan e' paggi, e cento bandigioni

de cervi, lepre, vituli, cingiali

portan di su di giú per lunghe scale,

come convien d'un rege al carnevale.

 

                                 16.  Sedea Milon rimpetto a la sua Berta:

pensa qual fogo tra quegli occhi nacque!

Egli di lei, et ella di lui piú certa

si fa, quant'in amarsi ad ambi piacque;

quivi con cenni occulti fann'offerta

de' cuori loro, e questo a quel compiacque;

Rampallo se n'avede, e piú Frosina,

Rampallo a lui, Frosina a lei vicina.

 

                                 17.  Cosí l'uno per l'altro si distrugge

nei cauti sguardi e 'n quel sembiante opposto.

Sponga di sangue che lor vene sugge

son gli occhi loro, il cui lume discosto

giamai non va dal suo voler, né fugge,

ma piú sempre al desio si fa disposto;

e tanto lor instiga et urta Amore                                Proprietà di Amore

ch'ivi non s'ama, anzi pur s'arde e more.

 

                                 18.  O insidioso aspetto muliebre,

quando che piaccia a gli occhi di chi 'l mira!

Ma quanto piú bel pàrti in le tenèbre,

ove 'l splender de li doppier l'aspira!

Vedi le labbra, il collo, le palpèbre

d'Elena, di Faustina o Deianira;                                 Elena, Faustina, Deianira

e chi contempla quelle già non crede

puoter di tal beltade farsi erede.

 

                                 19.  E se risponde mai cotal bellezza

ch'un core l'altro aggrada, e gli occhi gli occhi

(o pensier dolce piú de la dolcezza!),

qual fermo stato ch'ivi non trabocchi?

Non è grata e sovave frezza

che dolcemente in loro Amor non scocchi;

ma non si partan già questo da quello,                   Zelosia

ché non fu mai del suo magior flagello.

 

                                 20.  Era la fame già smarita e persa,

le mense e le vivande son rimosse;

una sonora musica e diversa                                       Musica

di tre laugutti e due viole grosse

trasse al concento ogni anima dispersa

ch'ognun si sente liquefarsi l'osse.

Qui voci umane giunte a quelle corde

mostròr che 'l Ciel di lor men è concorde.

 

Digressione

 

                                 21.  E pur trovo ch'alcuni vecchi padri

biasmòr di concordanze cotal pratica;

non so, lettor, se chiaramente squadri

esser stata la mente sua lunatica.

Ver è ch'e' gargionetti assai legiadri                         Notabile

fur grati piú ne la scola socratica

di tante note, ch'appeloron «buse»,

quasi se 'l buco a loro non s'incuse.

 

                                 22.  Dicean che molle, vago, effeminato

l'animo rende questa melodia;

come se 'l pescar fezza in bucco lato

non via piú molle effeminato sia.

Vedi tu quell'ipocrita velato

di santimonia, come va per via?

Non t'accostar, figliuolo, perché porta

nel corno il feno et ha sotto la storta.                     Proverbio

 

                                 23.  Chi danna il canto (vòi che chiaro il dica?),

qualunque biasma il canto ha del coione.

Se grata e grave et utile fatica

fu quella di Virgilio e Cicerone,                                Virgilio, Tullio

già non fia manco, mentre s'affatica

per noi Iosquin comporre e Gian Motone:           Iosquin, Gian Motone

itene dunque, sporchi, al vostro ufficio,

ch'è di sterco purgar l'altrui ospicio.

 

Narrazione

 

                                 24.  Poscia ch'ebber sonato la Stanghetta,

la Mora, il De tous biens del tempo vecchio,

Carlo depose la regal bachetta,

acciò ch'a' rispettosi fusse specchio;

in bel giuppone cavasi con fretta,

dicendo: - Orsú, signori, i' m'apparecchio

voler danzar; cosí mi segua ognuno;

poi voglio che 'l suo ballo aggia ciascuno. -

 

                                 25.  E ciò parlando viene a la regina,

che gravamente alzò prima le ciglia,

poi si rileva et umile s'inchina

a l'alto imperator ch'a man la piglia.

Li altri, che stann'intenti a la rapina,

seguendo lui, ciascuno s'assotiglia

prender il meglio o quel che meglio pare;

e cosí alor cominciasi a danzare.

 

                                 26.  Cominciasi danzare a son de' pifari

con un cornetto fra lor aggradevole,

al cui sòno que' volti, anzi Luciferi,

quel conspetto di donne losinghevole,

que' drappi d'oro larghi et odoriferi,

que' passi, quell'incesso convenevole,

gli occhi de' spettatori teneano

ch'innanimate statue vi pareano.

 

Digressione

 

                                 27.  Quivi ben convenia quel nomato

cornetto padoano, Zan Maria:                                    Zan Maria dal Cornetto

non fu, non è, non mai sarà lodato

meglior di lui, anzi ch'egual gli sia;

lo qual, come si dice, si ha mangiato

le lingue d'ogni augello e l'armonia.

Silvestro vagli appresso e 'n suo germano            Silvestre, Girolamo

e quel trombon venuto di Bassano.                         e Aloviggi

 

                                 28.  Ma per sonar gagliarde e lodesane,

piferi mantovani aggian il vanto!

Tu senti quelle lingue piú che umane

in mille millia R mandar un canto;

tu vedi poscia for di quelle tane

sul Po saltar villane d'ogni canto;

ché per balzar in alto e rotolarsi

ogni altra stirpe a lor non può 'guagliarsi.

 

Narrazione

 

                                 29.  Mentre qui dunque sonano a misura,

Rampallo invita Berta e dàlle mano.

Parve a Milone strana cosa e dura,

e chiamalo fra sé crudo, inumano;

ma Venere, per lui ch'anco procura,

gli pose in cuor un atto assai soprano:

di Berta prese a man la camarera,

dico Frosina, e va co' li altri in schiera.

 

                                 30.  Or nel serrar de mani si comprende,

danzando, s'in amar sperar si deve:

qui de la donna il cuore l'uomo intende,

la qual è di natura dolce e leve.                                 Natura molle de la donna

Se stretta stringer debbia, dubbia pende;

al fin lunga reppulsa le par greve,

temendo che l'amante non si sdegni

e piú non segua gli amorosi segni.

 

                                 31.  Qui gli occhi ambasciatori al tener cuore

dicchiarano lor grazie e lor bellezze;

qui cresce piú l'audacia e piú l'ardore,

quanto piú mancan l'ire e le durezze.

Amor insegna qui di qual valore,

di qual effetto sono le sue Frezze,                           Cimon Galese: cerca nel

pel cui vigore ogni Cimon Galese                            Decamerone di Boccaccio

di rustico divien dolce e cortese.

 

                                 32.  Speranza è la nutrice de' pensieri,

tanto ch'i guardi e deti gara fanno.

Sotto 'l fallace lume de' doppieri,

doppie bellezze in viso le donn'hanno.

Però piú tira Amor di cento arcieri;

qual empie di allegrezza e qual d'affanno,

e molte un cotal foco hann' a la coda

che 'l fiato l'escie for, non che la broda.

 

                                 33.  O misere dongielle, o stolte madri,

ch'avete le danze a gran diletto,

s'amor d'onor è in voi, questi leggiadri

giochi di cortigian siavi a dispetto!

Un bel rubbar ci fa sovente ladri,

ch'ov'è la causa seguevi l'effetto;

e questo in ballo avien, che ruffiana                      Notando

si fa la madre e la figlia putana.

 

                                 34.  Frosina avea pietà di sua madonna;

or esser tempo d'aiutarla vede;

tira Milone a drieto una colonna,

mentre che 'l gioco libero procede.

- Venite mecum - disse - e non v'assonna

viltà di cuor, ché voglio farvi erede

del piú ricco tesoro ch'aggia 'l mondo,

ché l'occhio di Fortuna vi è secondo. -

 

                                 35.  Egli non sa, ma ben fa coniettura

sopra l'amor di Berta, onde la segue.

Un trepidante affetto, una sciagura

lo batte ch'ei pare si dilegue;

volgesi drieto spesso, et ha paura

ch'alcun osservatore no 'l persegua.

Al fin, giunti a la camera di Berta,

Frosina drento il caccia, pronta, esperta.

 

                                 36.  Benché a Milone un atto temerario

gli paia star di Berta nel cubicolo,

nulla di manco vede necessario

esser a chi ama sponersi a pericolo.

Frosina innante il fa suo secretario,

e senza troppo lungo diverticolo

gli aperse largamente il grande ardore

di sua madonna, e come per lui more;

 

                                 37.  e che continuamente s'ange e lania

per lo crudel arciere che la stimula;

e ch'a le volte vienle tal insania

che a gran fatica in volto la dissimula;

insognasi di notte, langue e smania,

chiamando lui signor e dolce animula;

onde, per rimovérle un tanto assedio,

convien che d'esso lui vegna 'l remedio.

 

                                 38.  Qui ciò ch'ebbe Milone a lei rispondere,

lasciànlo star, ch'ognun il può comprendere;

non molto fiato fa mistier effondere

a chi col solfo l'esca vòl incendere.

Torno a Rampallo, che non puote ascondere

a Berta il tutto, anzi le fece intendere,

cosí danzando e ragionando insieme,

le fiamme di Milon per lei estreme.

 

                                 39.  Berta ch'a l'esca prende foco e vento,

quivi a Rampallo già non vòl celarlo;

narragli accortamente il suo tormento,

e che per prova mai non può scacciarlo.

Ma non finitte il loro parlamento

che la sua danza termina re Carlo,

e vòl che la seguente abbia Milone,

e poi di grado in grado ogni barone.

 

                                 40.  - Milon? ovMilon? - ciascun dimanda;

ma nulla fan, ch'altrove sta rinchiuso.

Ch'egli si trovi Carlo alor commanda,

al cui precetto van chi su chi giuso.

Rampallo astuto e sospettoso manda

(poi ch'ebbe posto giú, come è l'uso,

Berta) Rugier il figlio a ritrovarlo

e dirli che con fretta il chiama Carlo.

 

                                 41.  Lo accortignolo e pratico dongiello

danzar lo vide dianzi con Frosina;

ratto fece un pensier il giottarello

che gito fusse a goder la rapina;

onde correndo va dritto a pennello

dov'erano a la ciambra, e qui s'inchina

per ascoltar a l'uscio, ma non ode

del basso lor parlar se non le code.

 

                                 42.  Urta la porta ben due fiate o tre;

ode Frosina e pallida si sta;

torna Rugiero e scotela col :

Milon temendo sotto il letto va.

Bussa il fanciullo, e chiamavi: - Chi c'è? -

Frosina disse alor: - Chi batte ?

- Io son Rugiero; è qui signor Milone?

Ditegli che lo chiama il re Carlone.

 

                                 43.  Di su, di giú lo cerco in ogni loco,

né in ciel né in terra possio ritrovarlo;

a la regal famiglia sin al cuoco

imposto fu che debbian dimmandarlo.

Di che, se indizio n'hai, dimmil un poco,

ch'instantemente chiedelo re Carlo.

Io che danzar con teco in sala il vidi,

mi penso te saper ove 'l s'annidi. -

 

                                 44.  Non men Frosina pronta che sagace,                      Ogni barone avea la camera

risponde: - Va, dongello, e dilli presto                   sua nel regal palazzo

come Milone nel suo letto giace,

ché per la giostra d'oggi è franto e pesto. -

Alor Rugier non fe' del contumace,

ritorna in sala e con volpino gesto

parla ch'ognun intende aver trovato

Milon stracco nel letto suo corcato.

 

                                 45.  Tal scusa accetta Carlo e chi chi sordo

non è a saper il marzial costume,

perché le bastonate del bagordo

caccian sovente a l'oziose piume.

Dunque la festa seguesi d'accordo,

la qual non finirà che 'l bianco lume

del giorno trovaralli anco saltare,

come ben spesso in Corte solsi fare.

 

                                 46.  Frosina timedetta, che non save

come la sorte di Milon succede,

chiudalo in ciambra e seco tien la chiave,

poi su la danza occultamente riede.

Berta che quinci spera e quindi pave,

quando tornar a sé Frosina vede,

fatta zelosa, disse in voce piana:                              Zelosia di Berta

- C'hai fatto con Milon, brutta puttana? -

 

                                 47.  Risponde a lei Frosina sorridendo:

- So ben che zelosia vi fa ciò dire;

non, come imaginate, condescendo

largamente al dolce proferire!

Mai non provai, ma ben provar intendo,

farsi dal nostro medico guarrire;                               Medecina de le donne

però, se star con lui mi cale e giova,

a che portarne invidia di tal prova?

 

                                 48.  Non dubitate, o credula patrona,

del vostro mal non è lunge 'l remedio.

Pur tutto questo ch'ora si ragiona

porria col tempo farci qualche tedio,

ché forse alcuna incognita persona

ci tenderia ne l'ascoltar assedio.

Meglio sarà ch'andiamo a riposare,

ché l'alba già comincia roscigiare.

 

                                 49.  - Ove parli ch'andiamo? - disse Berta;

quella rispose: - A letto, che 'l n'è l'ora;

mi fa mistier il vostro ben adverta,

ché 'l vegliar troppo il viso vi scolora. -

Disse la dama: - Questa è cosa certa:

vengan le torze! - e quindi senza mora,

facendo al re Carlone e 'gli altri inchino,

verso la stanza prendon lor camino.

 

                                 50.  Rampallo già non pote piú induggiare;

si mise raggionando a compagnarla.

Fu sempre in Franza l'uso di parlare                       Costume de Franza

ciascun con qualche dames e basciarla:

né qui maliziasospetto appare,

pur che non voglia ad altro provocarla;

onde tal atto molto par di strano

in queste nostre parti al Taliano.

 

                                 51.  Lo qual, vedendo in casa sua volere

basciar alcun Francese la sua moglie:

- Che fai, - tosto gli parla - o bel missere?            Costume de Italia

Perché farti signor de l'altrui spoglie? -

Cosí dicendo, col pugnal il fere,

togliendogli non pur l'accese voglie,

anzi la vita istessa; perché mecco

lo Talian vòl esser, e non becco.

 

                                 52.  Or dunque vedi se di Cipria il figlio                  Venere cipria

conduce ben la tramma e non si 'ntoppa:

quantunque porti un drappo avolto al ciglio,

pur l'arte e la malizia non gli è stoppa;

l'arte ch'in navigar ogni periglio

sprezza de l'onde, quando Amor è in poppa.

Milon, Rampallo e Berta nulla sanno,

et ecco insieme al fin si trovaranno.

 

                                 53.  Non perché fusse in lor patto veruno:

Cupido sol è il mastro, sol il guida.

Frosina tiensi certa ch'in niuno

tal secretezza, for ch'in lei, s'annida.

Credesi anco Rampallo esser quell'uno,

in cui sol Berta e sol Milon si fida.

Voria Frosina che Rampallo andasse;

egli, che Berta lei licenziasse.

 

                                 54.  Or giunti a l'uscio, per entrarvi drento

apre Frosina, onde tremò Milone.

Berta diede congedo a piú di cento

fra paggi, fra dongelle, fra matrone;

ma per sfogar in parte il suo tormento,

guida con seco in camera il barone.

Frosina chiude l'uscio, e quivi Berta

fra l'uno e l'altro sede a lingua aperta.

 

                                 55.  A lingua aperta e faccia vereconda,

un petto de sospiri e pianti sciolse.

Rampal stupisce ch'ella non s'asconda,

perché Frosina in terzo luogo volse.

Milon ascolta il tutto sotto sponda

e sue dolci parole ben raccolse.

Or qui Frosina et or Rampallo parla,

cercando con speranza consolarla.

 

                                 56.  Milon comprende l'amistà rara

del suo Rampallo e l'animo di Berta,

la qual dicea ch'avrebbe morte amara,

se non le fia concesso far offerta,

dovendo maritarsi, di sua cara

virginitade a quello che la merta;

e se colui che già l'ha tolto il cuore,

anco non tolga il resto, il frutto e 'l fiore.

 

                                 57.  Né al sòno di tal voce, né a l'invito

di tal dolcezza puòte star Milone,

che ratto di sotto, bello, ardito

non apparessi in un d'oro giuppone.

- Eccome - disse; alora scolorito

stette Rampallo in gran confusione.

Berta sol fece un grido, e poi si tenne,

compreso in parte il bene che a lei venne.

 

                                 58.  - O sola, - Milon disse - o sola quella,

c'hai posto il freno a 'n cuore superbo!

Cosí volse non so che bona stella,

ch'essendo al sesso vostro iniquo, acerbo

e d'una mente a me stesso rubella,

or sol per tuo vigor mi dissacerbo,

e tanto in me la tua sembianza valse

ch'in ghiaccio m'arse il core e 'n foco m'alse. -

 

                                 59.  Poscia a Rampallo vòlto et a Frosina,

mille grazie lor rende e poi li abbraccia.

Berta, che a morte quasi s'avicina,

mira lui fiso e par che si disfaccia

qual cera al foco e qual al sole brina;

non puote star, ma, sparse ambe le braccia

(perché in Amor non cape alcun rispetto),

cinsegli 'l collo e strinsesil al petto.

 

                                 60.  - Ormai, - disse - ben mio, dispona il Cielo

di me come gli giova, e la Fortuna:

sue stelle, influssi, punti, caldo e gelo

non temo piú, quando questa sol una

grazia ch'or tengo in l'amoroso velo

non mai tolta mi sia, perché niuna

altra non voglio eccetto che vederti

et a mia vita e morte sempre averti.

 

                                 61.  Perché già non potrebbe piú addolcirme

la morte in altro tempo, che s'io moro

in queste voglie mie stabil e firme.

Morir per te, mio spirto, mio tesoro!

Qual esca dolce può meglio nudrirme

di questo pianto e grato martoro?

Io mi consummo, e ciò mi piace e giova,

pur che 'l mio ben da me non si rimova.

 

                                 62.  Itene, prochi, omai; mi sète a noia:

destina il Ciel ch'i' sia d'un tanto eroo.

Tal nasca d'ambi noi ch'unque non moia             Profezia d'Orlando

sua fama da l'occaso al sin eoo;

tal fia quel figlio, qual mantenne Troia

mentre che visse o qual vinse Acheloo;                Ercule

nasca di noi tal Cesare, tal Marte

che de' soi fatti s'empino le carte! -

 

                                 63.  Milon ai dolci accenti per rispondere

de la sua diva già movea la bocca,

quando a la porta venne a lor confondere

non so qual voce, e chi repente chiocca.

Milon temendo tornasi nascondere;

Rampallo, che lo vede in fida rocca,

apre la porta; et è chi 'l chiama presto,

ché a sorte gli toccava il ballo sesto.

 

                                 64.  Partisi dunque tosto il cavalliero

per non fallir di Carlo a l'ordinanza.

Frosina vagli dianzi, e col doppiero

la semplicetta fin ove si danza

accompagnollo insieme col scudero.

Rampallo se ne ride, ché 'n la stanza

di Berta era Milon restato solo;

pensate se star puote il rosignuolo!

 

                                 65.  Or ivi dunque Amor in un stecato                            Metafora

ha ricondotto quelli gladiatori;

ma innanti ch'al duello insanguinato

si vegna da quei duo feroci tori,

assai vi fu che dire; al fin cascato

l'un sopra l'altro, vi convien che mori;

e quelle bòtte fur di tal possanza

che Berta ne portò piena la panza.

 

                                 66.  O Ciel benigno, assai qui ti conviene

esser gagliardo in fabricar Orlando,

lo qual non sol si cria de' lombi e rene,                 Criazione d'Orlando

ma l'alto Genitore vòl che, quando

scorre 'l vivace sangue da le vene,

forma nel vaso matrical pigliando,

ogni tua stella di benigne tempre                              Fama

s'inchini a lui, ch'in gloria duri sempre;

 

                                 67.  forza, bontà, prudenzia e cortesia                            Virtú ch'ebbe in

scendano in lui su da l'eterne idee,                          desertar le fate

che, discacciando l'orco et arte ria

de strige e fate e innumere Medee,

formino il corpo et aprine la via

ove quell'alma in mezzo a le tre dee                       Grazie

infonda, per ristor di tutto 'l mondo,

alto inteletto e imaginar profondo.                           Sapienza

 

                                 68.  Santificato dunque, e non fatato,

fu Orlando ne le viscere materne,

ch'esser non puote da ferro impiegato,

come ordinòr in lui le menti eterne;

quantunque i' poscia dal celeste fato

fatato nominarlo, ché l'inferne

fate non l'affatòr, ché d'affatare                               Orlando fatato

forza non han, ma sol di affaturare.

 

Conclusione

 

                                 69.  Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo

e piú sboccato assai d'un bergamasco;

grosso nel proferir, nel scriver tardo,

però dal tosco facilmente i' casco.

Io ti rispondo che se l'antiguardo

e retroguardo mio, ch'è 'l sacco e fiasco,              Pan duro

non fusse la fortezza di Durazzo,                            Vin forte

forse sarei Petrarca e Gian Boccazzo.

 

                                 70.  Io qui non cerco fama, e men la fame

quella mi fugge, e questa mi vien dietro,

anzi m'entra nel ventre e fa letame                          Chi mal mangia

duro cosí ch'io canto un strano metro;                   duro caca

e, se mai vien che presto alcun mi chiame,

quando quel sasso for del buco i' spetro,

mi levo amaramente con la coda

smaltita in quatro giorni ferma e soda.

 

                                 71.  Non cerco fama, no, ch'io n'ho pur troppo,

e tal mi crede questo, ch'io son quello.

Guardativi dal sguerzo, gobbo e zoppo,                Enigma

signori mei, che l'è di Dio rubello.

Benché 'l zoppo non corre, va galoppo,

in fin ch'intenda il nome mio novello;

ben maladico lui, che, se 'l mi scopre,

da voi, signori mei, non mi ricopre.

 

                                 72.  E se pur noto fia, perché scontento

viver mi deggia causa non ritrovo;

anzi di superstizia il guarnimento

ho riprovato e tuttavia riprovo.

E chi m'addimandasse s'io mi pento

cangiar il basto vecchio per il novo,

io ratto gli rispondo: - Domine, ita,

mi doglio esser mai stato a cotal vita. -

 

                                 73.  La causa dir non voglio, anzi m'incresce

che tutti omai siam figli di puttana;

e benché mi vien detto che qual pesce

io son for d'acqua e talpa for di tana,

questo parlar non oggidí riesce,

ma meglio assai quod scriptum est de rana,

la qual non viver sa for del pantano,

come senza robbar n'anche 'l villano.


 


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