Pietro Gori
Prigioni
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NOTE ALLE PRIGIONI

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NOTE ALLE PRIGIONI

Alcuno troverà strano che le note a queste due parti del canzoniere sieno così abbondanti – quasi strabocchevoli, eccessive; ma potrà, scorrendole, convincersi, che forse, non riusciranno del tutto inopportune, se vorrà considerare l'indole della pubblicazione, scritta principalmente per il popolo che certe concettosità, addensate sui veicoli tirannicamente angusti del verso, non giungerebbe a comprendere così di leggieri.

Per quelle che si riferiscono alla prima parte «Prigioni» potrei anche aggiungere, che, dato l'ambiente speciale e caratteristico, in cui si svolge l'azione di quei bozzetti, l'esuberanza delle dilucidazioni e delle notizie offerte su quel mondo mestissimo – quasi ignoto agli ufficialmente onesti – che è il carcere, non sarà, in ultima analisi, ritenuta affatto inutile.

Perchè il libro presente, più che un pretensioso canzoniere di carcerato, ama essere una raccolta di quadretti di genere e di appunti, in prosa ed in versi – una sintesi del come si vive e come, presso a poco da ognuno, si pensa in prigione.

Il libro, adunque, avrei dovuto intitolarlo più modestamente appunti di vita carceraria, chè tale è infatti, se bene anche possa, e non a torto, sembrare incompleto. Ma forse chi sa che all'impenitente, benchè oscuro, agitatore non fornisca in seguito la solerzia dei patrii poliziotti il tempo ed il modo di completarlo dove è manchevole. E se in questa edizione si trovasse anormale il fatto che le note tendano quasi ad uguagliare in abbondanza i versi, e che alla prefazione, assai diluita in lunghe pagine di prosa, venga ora di rincalzo, con questo fascio di annotazioni, una specie di epilogo in forma troppo dimessa, io dovrei nuovamente ricordare che non ho inteso di scrivere un lavoro con degli intendimenti d'arte pura – nel che sarei riuscito insufficiente – ma più che altro un libro di descrizione, di polemica, di battaglia.

Se altri vorrà insistere che le sovrabbondanti pagine occupate da questa parte dilucidativa, contengono, invece di note, altrettanti veri e proprii bozzetti in prosa, tanto peggio per le pretese letterarie del libro, se per caso ne avesse; e tanto meglio per il buon popolo che vorrà leggerlo, e che potrà così meglio intenderlo.

Ed i signori critici, se vogliono, tempestino pure anche contro questa antiestetica asimmetria. Ho dovuto subire ben altre requisitorie, e bene altre scomuniche!

L'Arresto. – Pag. 35. – Qualunque descrizione resterà sempre lunge dal senso acuto di sconforto, quasi di sgomento, che sorprende l'uomo minacciato nel suo diritto più caro: la libertà. Quegli uomini freddi, impassibili, lugubri che, rivestiti della ufficiale implacabilità della legge, invadono il domicilio privato, lasciano fra i ricordi tristi di quel triste momento, contro tutto quanto sa di polizia giudiziaria, una punta d'odio, che si acuisce tormentosamente – sempre, anche in seguito – alla vista di ogni manetta e di ogni ammanettato. Non ho voluto nei versi che rievocano la nottata del mio arresto analizzare i moti psichici del momento ed il tumulto dei sentimenti interiori; forse neppure lo avrei potuto. Mi sono limitato ad uno schizzo della scena, degli episodii e dell'ambiente, quali restarono infissi nella mia memoria.

I Domenicani. – Pag. 39. – È un vasto, non bello, edifizio, che apparteneva un tempo ad una frateria dell'ordine di S. Domenico. Ora le celle degli anacoreti sono diventate le segrete del carcere giudiziario livornese – e del vecchio monastero non avanzano che il gigantesco crocifisso di legno che troneggia, funebre, di faccia al gran cortile, la chiesa, alta e vasta, dai cui finestroni salgono ai reclusi gli odori dell'incenso e l'uggia stranamente poetica delle salmodìe, di qualche tardo fraticello, che biascica, nei festivi, la messa nella cappella del carcere. In compenso vengono su dalle inferriate, tra il rumore di una catena ed il cigolìo di una manetta, e ascendono, a volute larghe nell'aria, i ritornelli delle nuove canzoni della piazza, con qualche intermezzo di moccoli toscani.

La Sveglia. – Pag. 40. – In tutte le carceri di Italia l'ufficio di dare i segnalisveglia, minestra, aria, medico, silenzio – è assegnato alle campanelle. La sveglia nel carcere, manco a dirlo, obbliga il detenuto a saltare dal pagliericcio e a dar sesto alla cellaa fare la pulizia, per dirla con gergo carcerario. L'ultima terzina del sonetto allude alla consuetudine del saluto mattutino tra i carcerati, tollerato solo nel carcere giudiziario di Livorno, a causa del carattere ribelle del buon popolo, livornese, a dirittura refrattario a tutto quanto sa di disciplina e di regolamento.

L'Aria.Pag. 41. – Non in tutte le carceri, per verità, l'aria viene data ai reclusi in anditi coperti, come nel carcere giudiziario di Livorno.

Nel Penitenziario di Lucca, per esempio, l'ora di aria libera non è, come nel carcere di Livorno, una mistificazione. Quivi le piccole chiostre, in cui il detenuto vien portato a respirare l'aria aperta sono proprio allo scoperto, sotto la cappa del cielo. Sarà anche quello il supplizio di Tantalo per chi, oltre che d'aria, ha sete di libertà; ma in ogni modo è un supplizio fisiologicamente igienico.

In compenso però, a Livorno, nell'ora cosiddetta dell'aria, il naturale istinto umano di socievolezza si trova in qualche modo soddisfatto dalla comunanza che si accorda agli inquilini del carcere, i quali si mettono al passeggio a tre celle per volta, consecutivamente.

Il che non avviene nei carceri giudiziarii a sistema cellulare.

La Visita. – Pag. 42. – La chiamano con linguaggio espressivo la battuta, perchè consiste appunto nella percussione dei ferri, di cui i guardiani carcerarii, a turno, tentano il suono nel modo descritto; mentre il sotto-capo guardia, circondato dal suo stato maggiore, ispeziona, per ogni verso, la cella.

Il Parlatorio. – Pag. 43. – Una delle più feroci delusioni, che amareggino chiunque è nuovo alla vita carceraria, riesce il parlatorio, la prima volta che il novizio, dopo il primo periodo d'istruttoria, può essere ammesso a goderne.

Il babbo, la mamma, gli amici e quante persone care giungano ad ottenere il permesso settimanale di visitare il loro prigioniero, non possono fruire della sua compagnia e presenza, che attraverso un doppio ordine d'inferriate, a distanza l'una dall'altra, e ciò per brevi minuti, contristati dalla presenza di un guardiano, che deve intendere il colloquio.

A me, per precauzione speciale, la regia procura infliggeva l'onore di aver presenti ai colloqui famigliari il capo od il sotto-capo delle guardie.

Onori questi, del resto, che non toccano se non ai malfattori più pericolosi.

Santa Giulia. – Pag. 44. – Non so come questa poesia, potesse, alla vigilia dell'onomastico materno, uscirsene dal carcere, proprio per il tramite legale della regia procura, onde pervenire alla sua destinazione, senza urtare la suscettibilità di quei solerti magistrati. È vero che di questa longanimità si rivalsero in seguito sequestrando lettere a colleghi ed amici. La Procura Generale di Lucca poi, per dimostrare forse la completa indipendenza della magistratura dalla polizia, giunse perfino a spedire direttamente al Questore di Livorno alcune mie cartoline indirizzate a varii amici di quella città, ai quali annunziavo semplicemente una visita nel giorno della mia liberazione dal carcere.

Era giusto. Così almeno il sagace Questore, dopo aver ben bene strapazzato e minacciato i destinatarii, a cui recapitò le disgraziate cartoline, potè prendere le sue brave precauzioni; ed anche questa volta, grazie al valoroso Bancheri, la società fu salva.

La Messa. – Pag. 47. – Mentre i regolamenti carcerarii si preoccupano assai poco della triste carne umana affidata alle ruvide cure dei poveri secondini, provvedono, invece, prudentemente alla salvazione delle anime, condannate ormai od in via di essere condannate dalla legge terrena. Se la minestra quotidiana al lardo è un po' rancida, pazienza; la messa dei giorni festivi può far dimenticare le miserie.... carcerarie con la speranza dei godimenti celesti. Oh sagacia amministrativa del volterrianismo borghese!

L' unico vantaggio sensibile di coteste messe per i detenuti miscredenti è quello di procurare un po' più d'aria alla cella, restando gli sportelli – o bocchetteaperti durante tutta la funzione, ed anche di porgere in tal modo ai reclusi il destro di intendersi e di scambiare le loro idee per mezzo di un sistema completo ed ingegnoso di gesti e di segni convenzionali. Cotesto è il vero e proprio volapuk della prigione.

La Fruga. – Pag. 48. – Sentii dare questo nome caratteristico alle perquisizioni che settimanalmente ed all'improvviso, in un giorno qualsiasi, vengono praticate nella cella e sulla persona del detenuto.

È una vera e propria fruga. Nel carcere dei Domenicani son sette od otto le guardie guidate dall'ormai classico Bondi – un vecchio secondino che conosce non so quante mai generazioni di grandi e piccoli criminali suoi concittadini – che vengono incaricate di tale spinosa incombenza. Nulla sfugge all'occhio scrutatore del vecchio guardiano, il più piccolo frammento di matita nascosto in una midolla di pane, il più breve stornello o il più microscopico viva od abbasso, tracciato in un angolo di muro.

La Cella (N. 32). – Pag. 49. – Non è una cella speciale. Tutt'altro. A bancarottieri fraudolenti, coi milioni in riserva, si era accordato, poco tempo innanzi della mia detenzione, e nel carcere stesso, cella e vitto speciali. All'anarchico pericoloso fecero bene a dare una celletta comune. In compenso gli fu – di specialeimposto una segregazione cellulare continua, contraria alle consuetudini dello stabilimento, per le quali non si tiene isolato, come nei cellulari, ogni singolo detenuto.

Il Transito. – Pag. 50. – Le celle terrene del Carcere Giudiziario di Livorno sono riserbate alle ciurme dei forzati, che a ondate lugubri e periodiche riempiono di passaggio i Domenicani, avanti di riversarsi nelle varie colonie penitenziarie dell'arcipelago Toscano e nei diversi bagni penali della costa. Questo passaggio, questo flusso e riflusso sinistro di carne bollata dalla legge, nel linguaggio ufficiale del carcere prende un nome unico e comprensivotransito. Il qual nome per traslato si adopera anche per indicare gli androni oscuri, in cui quella misera carne, che passa, viene gettata a rifascio nei giorni di sosta. Questo triste flusso e riflusso avviene, per lo più, sull'alba o sul far della notte.

Il Silenzio. – Pag. 51. – Come il cuoprifuoco del medio-evo ed il silenzio militare odierno che n'è il barbaro avanzo, secondo la disciplina del carcere, il segnale della campanella, che impone il silenzio, nelle prime ore della sera, obbliga il detenuto ad assestare immediatamente il letticciuolo ed a coricarsi.

Uxoricidio. – Pag. 54. – Era un onesto operaio dello Stabilimento Metallurgico. Si chiamava Poncet. Aveva sposato una bionda e bella ragazza. Dopo breve fedeltà e brevissimo amore allo sposo, la bella donna si dette liberamente ad altri amori. Il pregiudizio matrimoniale, l'indissolubilità del nodo civile, nel quale il povero operaio aveva creduto di trovare qualche cosa che gli garantisse l'amore della donna amata, e l'indifferenza con la quale costei si abbandonava ad altri amplessi lo trascinarono ad una disperata risoluzione.

Una mattina la bionda adultera fu trovata morta per soffocazione violenta nella camera in cui aveva passata, col marito, la notte. Il marito, l'operaio francese, fu arrestato sotto l'imputazione di uxoricidio. Il comitato degli operai, suoi compagni, mi aveva incaricato di prepararne la difesa, alla quale avevo già interessato Enrico Ferri.

La mattina stessa che fui trasferito ai Domenicani era morto per avvelenamento. Benchè in compagnia, aveva trovato modo di ingoiare una quantità di zolfo e fosforo, raschiato da fiammiferi.

Suicidio. – Pag. 55. – Per una strana coincidenza, nella cella ove era stato pochi momenti prima raccolto moribondo l'uxoricida, fu posto chi avevano i compagni chiamato a difensore del disgraziato, come sopra ho detto. Ricordo anche, che nelle prime notti della mia prigionia riluceva ancora per terra, come una gran chiazza fumante, la traccia del fosforo quivi lasciata dal vomito dell'avvelenato, benchè si fossero bene spazzati i mattoni sporchi presso il pagliericcio.

NostalgiaPag. 58. – Inutile, forse, avvertire come il più piccolo incidente – la cantilena di un prigioniero, lo stridore di una catena, il battere delle orediventi un episodio importante nella monotona vita del carcerato.

Passerotti. – Pag. 64. – Dovevo bene questi poveri versi di gratitudine agli unici e fidi compagni della mia prigionia.

Campane. – Pag. 66. – Uno solo avevo dimenticato di ricordare fra gli avanzi dei monastero ancora sensibile e visibile nella nuova destinazione del vecchio edifizio dei Domenicani. Un avanzo sensibile, ed oh come seccante! è il campanello della chiesa, che affligge, col suo tormento perpetuo di campane dondolate ora a gloria ed ora a requie, i poveri carcerati.

Odio. – Pag. 68. – Alle giornate lunghe di nostalgìa ed alle ore eterne di mestizia succedono, nella solitudine della cella, i momenti tempestosi dell'ira e dello sdegno contro tutto e contro tutti. La presente poesia è il prodotto di una di coteste procelle psicologiche.

Fuga. – Pag. 73. – Anche questa è una delle poche poesie, che poterono trovare modo di esser trafugate dal carcere, e pubblicate mentre ancora durava la mia detenzione.

Comparve nell'Agosto dello stesso anno sul Corriere dell'Elba di Portoferraio.

Incubo. – Pag. 78. – Fra gli incubi, che afflissero le notti tormentose ed insonni di quella estate, per me trascorsa senza letizia di mare e di libertà, ho riportato in rudi esametri solo questo che si riconnetteva ad una brutale realtà – il transito dei forzati, che partivano, a due a due, sconsolati, per l'isola d'Elba, ch'io non ho potuto ancora – dopo tutto questo – rivedere, altro che da lontano.

Manette. – Pag. 80. – L'amico valoroso e gentile, che per tre volte innanzi a giudici togati e popolari mi difese da imputazioni, a gruppi di cinque o sei reati per volta, perdonerà a questi miei versi quanto di meglio non seppero dire sui gentili strumenti, di cui egli, criminalista e poeta, fece la geniale demolizione in una di quelle sue liriche difese, che non si dimenticano più, anche se non si ascoltarono precisamente dal banco degli accusati. A chiunque si ritrovi torno ai polsi di simili braccialetti capiti almeno la fortuna di imbattersi in un difensore affettuoso e potente come Enrico Ferri.

Triste viaggio. – Pag. 83. – Come è accennato nella prefazione, dopo che il giornale battagliero Sempre Avanti ebbe pubblicata una scapigliata poesia da me inviatagli di carcere ed intitolata Giustizia, in cui davo qualche frustata, che pare arrivasse a colpire, e qualche bene assestato buffetto ai miei accusatorimagistrati e poliziotti – una mattina, all'improvviso, il classico Bondi venne ad avvertirmi, che per un ordine improvviso della procura i carabinieri erano venuti a prendermi per condurmi al Penitenziario di Lucca. Vestito in un modo abbominevole, dovetti salire sulla vettura, che mi attendeva, e, scortato dai carabinieri, e debitamente ammanettato, dovetti intraprendere, in così tristi condizioni, l'identico viaggio, che, durante quattro anni di spensieratezza, era stato allietato dai canti, dalle discussioni, dai litigi dei compagni di studio, che frequentavano meco la Università di Pisa.

A questi viaggi ed a cotesti ricordi si riferisce la poesia composta durante il mesto tragitto per la compiacenza dei bravi carabinieri e del loro brigadiere, che io avevo abbastanza catechizzati lungo la prima parte del viaggio, e che minacciavano, in atto di amicizia, di togliermi le manette.

San Giorgio. – Pag. 86. – Il penitenziario di S. Giorgio, a sistema cellullare coll'obbligo del lavoro è un edifizio austero e grandioso che raccoglie parecchie centinaia di reclusi.

Corrisponde esattamente all'istituto penale chiamato dal vecchio codice toscano «Casa di forza» e fa assai onore al suo nome.

Il genere dei lavori, che ivi si eseguiscono, consiste quasi completamente in tessuti; e dalle prime ore del mattino alle più tarde della sera il vasto edifizio è rintronato da un romorìo di telai in movimento, e da uno scotimento continuo di macchine grandi e piccole.

Nei primi giorni cotesto rumore fa l'effetto del battito sordo delle eliche in un potente piroscafo transatlantico, e, chiudendo gli occhi, si ha come la impressione di trovarci in alto mare, lanciati a tutto vapore.

Giustizia. – Pag. 87. – Nel processo per i fatti del Maggio in Livorno, pei quali fui accusato e condannato come istigatore principale, il poliziotto che accusava, e il magistrato, che sosteneva l'accusa, sentendo la debolezza degli indizi e degli argomenti che stavano contro di me, congiurarono per proiettare, se fosse stato possibile, una luce sinistra sulla mia persona.

Lo dico subito, e a fronte alta: di un lievissimo fallo commesso da ragazzo, come socio di un circolo ginnastico – una indelicatezza insignificante da tutti conosciuta e da tutti dimenticata – si volle fare un punto d'appoggio per una infinità di insinuazioni, sbrodolanti giù giù per una grottesca requisitoria, contro il mio passato, nel quale, fruga e rifruga, non si era trovato che questo neo, e perfino contro la serietà e la buona fede delle mie convinzioni.

Quando il grosso poliziotto formulò questa infame accusa, dichiarando che le idee, che io mi onoro di professare, da uno venuto dalla borghesia non potevano esser bandite e propugnate, se non per suoi fini personali e per speculazione, io scattai; so più quello che dissi, so quello che avrei fatto, se le sbarre della gabbia non mi avessero separato da quell'uomo.

Io credo che tra le più raffinate crudeltà patite per opera di cotesta gente, la grassazione premeditata ai miei più gentili affetti, ai miei sentimenti più cari subìta in quel giorno per l'odio mercenario di chi aspettava, e li ebbe, ciondoli e promozioni, lascierà il solco più sanguinoso e profondo nella memoria dei miei odii e de' miei dolori.

Ricordo che tornato alla prigione dopo quella udienza tempestosa, mentre il sangue mi bolliva ancora nel cervello, buttai giù, in un foglietto, senza cancellature, senza esitanze, vertiginosamente, le strofe di questa poesia.

La feci poi recapitare alla redazione del Sempre Avanti che pubblicava un numero unico, stigmatizzante i miei accusatori ed i miei giudici. Che un prigioniero, guardato così rigorosamente come io ero, mandasse fuori dal carcere e potesse ottenere la pubblicazione di versi così ribelli, parve cosa tanto enorme alla Procura del re, che, perduta affatto la bussola, lasciò circolare, senza sequestro, il numero unico, che pubblicamente schiaffeggiava gli organizzatori del processo, e sfogò il suo odio in minute e interminabili rappresaglie contro di me, cui essa avea sempre sotto mano, e che fui sottoposto ad una vigilanza più rigida di prima.

Giustizia fu riprodotta immediatamente dal Combattiamo di Genova, dalla Giustizia di Reggio Emilia e da altri giornali.

Ad alcuni sembrerà eccessiva; a me pare anche troppo cavalleresca, e non corrispondente affatto alla suprema viltà di chi l'ha provocata.

Nenie. – Pag. 97. – Di coteste ottave, sullo stile del rispetto toscano, avevo riempiti i muri della cella. Qui ne ho riportate solamente alcune che mi erano restate nella memoria.

A quest'ora l'arte semplice ed onesta di qualche imbianchino lucchese avrà già cancellato sotto l'oblio di brave pennellate quelle traccie delle mie malinconie solitarie.

Chi sa se qualche altro imbianchino non farebbe davvero opera meritoria per me e per gli amici miei, dando di frego a queste pretensiose traccie del peccato, che non mi contentai ahimè! di lasciare in consegna ai muri soli confidenti di quelle ore meditabonde, ma che volli configgere sulla croce della pubblicità, dove, può darsi, riescano, ai più, strane ed incomprensibili.

Il Canto della prigione. – Pag. 103. – Coteste strofe mi furono suggerite da una serie di stornelli improvvisati, sul far di una sera, da un recluso, e dei quali giungeanmi le imprecazioni roventi sulle cadenze strascicate di una melodia popolare volgarissima, che avevo tante volte udita per le vie e sulle piazze delle città di Toscana. Il triste cantore, era stato condannato, pochi innanzi, all'ergastolo per omicidio premeditato.

A mio padre. – Pag. 108. – Al vecchio soldato, che per oltre trent'anni servì la patria, in momenti in cui l'ufficialità non tirava, come ora, la paga solo per strascicare la sciabola fra i tavolini dei caffè o adoperarla sulle schiene dei cittadini inermi, al mio buon babbo più che i poveri giambi, qui riprodotti, e ch'io gli mandai di prigione, sono bastate le condanne di cui i liberi magistrati Italici mi hanno fatto bersaglio, per spengere nel suo cuore ogni fiamma per il suo vecchio ideale patriottico. Dopo l'ultima mia condanna di Livorno, anche i giudici sentirono una sua frase rovente: giustizia croata!... Babbo, potevi dire semplicemente: giustizia.... Italiana! Ed era detto tutto.


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