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On
dit: «Triste comme la porte
D'une prison.» –
Et je crois, le diable
m'emporte!
Qu'on a raison.
A. De Musset, Le mie Prigioni.
Pro se et justitia.
Non c'è rimedio – pensavo tra me nei primi giorni di solitudine, entro il carcere giudiziario di Livorno – se la cosa va per le lunghe, sento che qualche delitto finirò col commetterlo da vero. Detto fatto. Il delitto, ormai, è commesso.
Vogliamo muovere in compagnia, o amici lettori, alla ricerca delle responsabilità nel commesso reato?
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Sentite. Il mandato di cattura fu spiccato (oh infame gergo curiale)! dall'ecc.mo signor giudice istruttore presso il Tribunale di Livorno il 12 Maggio 1890, in virtù dell'art. 190 e 63 del Codice Penale Italiano e relative disposizioni di coordinamento, e col pretesto di un'altra mezza dozzina di reati, più o meno politici, che mi si attribuivano. L'arresto avvenne nella notte stessa. Il processo circa tre mesi dopo. Eravamo quindici imputati di ribellione, eccitamento allo sciopero, al solito odio fra le classi sociali ed altre simili diavolerie, rappresentate da una filza di articoli di quell'aureo trattato di moralità ch'è il codice delle pene. Io poi, col vantaggino di rincalzo che mi innalzava all'onore di capo e promotore della grande manifestazione operaia del 1° Maggio in Livorno; ciò nella pia intenzione dell'accusa di farmi regalare qualcosellina di carcere, più degli altri, come supposto istigatore – causa morale dicono loro – della rivolta contro la polizia.
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In fondo, io non era colpevole, che di aver seccato quei miei poveri e valorosi operai di Livorno con delle conferenze. Le chiacchiere, in certe questioni, sono colpe; lo confesso.
Ma allora, per quelli eterni chiacchieroni di Montecitorio non c'è nessuna medicina nel Codice Penale?
Io non fui mai, è vero, un predicatore di mansuetudine, di pazienza. Non credo che la virtù dell'asino tanto raccomandata da altri al popolo, sia una buona panacea per i suoi mali. Quindi agli artieri di Livorno, a quei gagliardi lavoratori di mare, dagli entusiasmi e dalle audacie leonine e dalle gentilezze di fanciulla, a quei contadini dei verdi colli tirreni non ho mai insegnato – milite oscuro ed ignoto qual'io sono – che alla conquista del pane e dei diritti si muova, snocciolando rosarii e biascicando paternostri, od aumentando di qualche grado la curva consuetudinaria del groppone innanzi agli idoli vecchi, e nè anche a quelli nuovi; non ho mai detto che la manna venga dal cielo, come a' bei tempi di Mosè, e non ho mai contato di apologhi bugiardi, come quello di Menenio Agrippa, l'antico mistificatore della tribuna storica di Monte Sacro, nel cospetto della plebe di Roma.
Ma nè anche ho affermato, che pigliare per il collo o per le orecchie una guardia di P. S., anche se è poco garbata, (mio dio, a questo mondo si può essere anche maleducati e guardie di P. S. al tempo stesso) sia po' poi un'azione eroica; e nè anche ho raccomandato di prendere a calci quei poveri salariati, che vestono divisa e portano lucerna, e mettono con tanta delicatezza le manette – perchè credo che le pedate e gli storcidicollo (come dicono a Livorno mangiandosi il secondo c) dati così a casaccio, e non a chi più li meriterebbe, se mai, non sieno le ricette più efficaci a guarire i mali della società.
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Ma in quel buffo processo ci aveva in ogni modo ad essere una causa morale. – Anche perchè un esempio, dicevano, bisognava darlo; e darlo si poteva, interpretando a dovere il nuovo codice-monumento.
Dunque, alla ricerca della causa morale! E tutti, grossi e piccoli poliziotti, istruttori, accusatori, giudici inforcarono occhiali e lenti inverosimili per rintracciare il grosso babau della festa. Il 12 Maggio, di notte, dunque, questa causa morale, incarnata nell'umile scrivente, riceveva la gratuita ed obbligatoria ospitalità dei Domenicani, il vecchio carcere che risente ancor tanto dell'antico monastero; gli ultimi di Luglio cominciò innanzi ai liberi magistrati del Tribunale di Livorno la sfilata dei questurini, dal loro generale in giù – compreso qualche avvocato che dimostrò molta disposizione per quel nobile ufficio – il 1° di Agosto un oculato ed integerrimo sostituto Procuratore del re chiese per me con molta disinvoltura tre anni di reclusione, ed un migliaio di lire di multa; e meno male che l'acquerugiola uggiosa e retorica dell'accusatore fu presto dimenticata, e travolta via dalla fiumana luminosa di eloquenza, di dottrina, e di affetto di tre illustri e benevoli amici miei – Enrico Ferri, Angelo Muratori e P. Francesco Erizzo – e di altri gentili e forti colleghi della curia livornese. Il 4 poi, dulcis in fundo, venne fuori una elaborata sentenza – un giornale cittadino, assai tenero di quei famosi fondi, la chiamò così; Angelo Muratori invece si contentò in faccia ai giudici di dubitare che fosse perfino bell'e preparata, e che l'imbeccata fosse venuta dalle rive del Tevere – quello che di certo si potè constatare, è che, oltre parecchi strappi alla grammatica, alla sintassi e ad altre cosuccie che per dir vero nulla han che vedere con monna Giustizia, quello scrittarello lì mi rubava allegramente, come se nemmen fosse lui, dodici mesi di vita libera.
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Ora, in coscienza, mi avrei a male, se qualche lettor maligno pensasse, che io racconti queste cose per circondare d'un po' d'aureola di martirio questi miei versucciettacci.
È vero che, per i soliti difensori del trono e dell'altare, chi si trova in queste pèste per delle idee così strampalate deve battere il mea culpa. Ricordo anzi, che il fante di picche in quel famoso giuoco, che terminò con la mia condanna, il pezzo più grosso della polizia, che figurò in quel mio processo, ebbe la faccia tosta di dire che certe idee – scusi, o i processi che esse mi tiran dietro, ogni tanto, perchè no? – io le professavo... per speculazione.
Hop la, signor commendatore, io non difendo principii che mi assicurano una pagnotta, o mi consentano di razzolare in bassi... fondi.
Da ragazzo – per dio, come la pigliate lontano voi – ho battuto parecchie volte le mani alla marcia reale; che seria professione di fede politica! Mio dio, sì, ho perpetrato qualche rugiadoso telegramma al re; e, guardate che solenne monellerìa, ho fatto anche degli altarini fra le ragnatele d'un sottoscala nella mia vecchia casa, all'Elba; ed ho fatto – oh indizio di precoce malvagità rivoluzionaria! – perfino alle sassate sui poggi solitari e solenni della Maremma.
E che razzìe per quegli orti, e che scalate su per quei ciliegi carichi, e che scorpacciate di susine acerbe nei giovedì scintillanti del giugno, quando la scuola del vecchio prete faceva vacanza, e le cicale strillavano sui pioppi e per le olivete, e i pini stormivano, col romore di mare burrascoso in lontananza, e le raganelle gracchiavano in fondo ai botri serpeggianti fra l'erba. – Oh primi soavissimi schiaffi al codice penale innanzi a tanta serena onestà della natura!
E quando il proprietario, armato di una pertica ci dava dietro in nome della sua plena in re potestas, doveva essere un gusto veder me coi miei piccoli complici, sgattaiolarcene in cima al poggio, e di la sù, trafelati, fuor di tiro della pertica sguaiata, poggiando il polpastrello del dito pollice sulla punta del naso, agitare le altre quattro dita, in atto di sfida, mentre la sinistra, dimenando l'altro pollice tra l'indice ed il medio, rispondeva fico alle sfuriate dell'inviolabile, benchè violato istituto della proprietà nei suoi legittimi rappresentanti: pertica e proprietario.
Vede? Proprio così, signor commendatore.
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Chi volesse poi affermare, che in carcere si stìa molto bene, direbbe proprio una bugìa grossa. Senza dubbio i primi giorni sono una novità per l'osservatore sereno dell'ambiente e dei tipi che vi s'incontrano. Ma poi cominciano, lungo le serate eterne, al tremolìo di un lumicino a olio, le veglie solitarie, le insonnie angosciose, gli incubi crudeli. Durante l'istruttoria del processo l'ufficio della procura del re si diverte un mondo a punzecchiare in mille modi l'inquisito – c'è per qualche cosa un primo stadio inquisitorio nei procedimenti. Oggi un colloquio negato a persona cara, domani una lettera sequestrata, specie se si tratta d'un imputato politico.
O mio secondo fratello, che dormi nel bel camposanto, innanzi al quale tante volte passammo giovini e lieti di speranze battendo la bianca via Maremmana, o mio buon Luigi, tu lo misurasti il cuore di quella gente lì, quando – presago quasi del fine immaturo che ti aspettava – domandavi di vedermi almeno una volta. E non ti fu concesso. Io nè pur morto ti vidi.
Quante folate di poesia gentile e fresca e quanti sbuffi di polvere scura passavano tra i rami intristiti delle memorie in quei pomeriggi accidiosi e cocenti di Luglio! Ricordo: un giorno – c'era gran festa in quei dì, mi dicevano i secondini, per le vie della città; dentro i Domenicani, saettati dal solleone, c'era, in vece, una gran mestizia quel giorno – avevo dovuto inghiottire una paternale (cosa ferocemente ipocrita di capo carceriere beneducato a detenuto facinoroso) per una poesia "Giustizia" che fa parte della presente raccolta, e che io avevo trovato modo di far pervenire alla redazione d'un giornale battagliero il "Sempre Avanti" che si pubblica, a sbalzi, ma da non pochi anni, in Livorno. La poesia era la mia risposta alle basse accuse, di cui mi avevano gratificato in processo accusatore e denunziatori... ex officio. – Fu pubblicata, e, senza esser colpita di sequestro – sfido io, avevano con chi pigliarsela di sotto mano quei signori – mi procurò così lunghe noie e punzecchiature, per le quali mi sono persuaso che qualche ammaccatura buona, quella poverina venuta sù senza pretenzioni, ed uscita dal mio carcere parecchi mesi avanti di me, deve averla pur fatta nel grugno di chi m'intendo io. Il torto suo, con le piccole seccature che mi tirò addosso, fu quello di mettermi nel cervello così come un tarlo roditore, l'idea di pubblicare questo libro: di perpetrare, con esso, qualche cosa che avesse il sapore di una frustata, e, magari, di una cattiva azione per gli uni, gli avversarii; affinchè gli altri – gli amici ed i benevoli – alla estetica, più o meno negativa del lavoro compiuto, non stessero poi a guardare con tanta sottigliezza, pensando ai botoli rabbiosi, che mi ringhieranno dietro le spalle, e perdonando molto a chi molto ha amato. E molto, anche, odiato, e con ragione.
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Prima di quel giorno afoso di Luglio, senza sapere il perchè, avevo pure composto dei versi; e mi pareva, che in quel modo, confidando i miei pensieri a un pezzettino di carta, strappato a qualche lettera paterna non scritta per intiero, od a qualche spaziuccio di muro bianco, potessi anch'io darmi l'aria di non essere più tanto solo. Avere pur l'aria soltanto d'essere in compagnia di alcuno, visibile od invisibile, muto o chimerico, è già qualche cosa che rasenta il lusso in quella esauriente solitudine del carcere. Dunque avevo scritto parecchi versi. Qualche cosa avevo composto, col semplice uso della memoria, da prima con fatica indicibile – non essendo mai stato, per fortuna mia e degli amici, che il destino da ciò preservi, poeta estemporaneo. Poi, a poco a poco, esercitandomi di continuo, nei giorni, in cui la vigilanza del corpo carcerario era maggiore, o quando imperversavano le perquisizioni, mi accorsi, che i versi mi cominciavano a sfilare con assai disinvoltura per la mente, come soldati di buona volontà contro il nemico; e già mi era messo l'animo in pace, perchè mi pareva, che anche con quei sistemi non indicati dalla scienza ufficiale, ma imposti dalle necessità della guerra spicciola, i movimenti fossero regolari, e che nessuno dei miei soldatini zoppicasse. Anche ora, pur troppo, ho questa pia convinzione. Chi sa, che qualche critico maligno in nome della strategia ortodossa, non se la rida oggi sotto i baffi insegati di feld-maresciallo della repubblica... letteraria, di tali mosse forzate del mio piccolo esercito; ora che, ahimè, quelle guerriglie di endecasillabi, e di settenarii, quelle scaramuccie di esametri e di pentametri sono riprodotte ed inchiodate lì sotto il naso arricciato del buon pubblico, che paga, e che ha ben diritto, sicuro è un vero e sacrosanto diritto cotesto, di fischiare, e di far calare la tela.
E fischiate pure, signori, fischiate di buzzo buono. Ciò non esclude che non avesse ad essere gradevole alla mente, assorta nel silenzio infinito della cella, questo tremolìo di cellule nel cervello solitario, questo brusìo di atomi, che pareanmi suoni, strofe, idee assumenti perfino l'aspetto di concezioni nuove e fresche innanzi alla interna fantasia.
Il lettore non le sa queste cose, non le può, forse, nè meno comprendere; ed io non ho il tempo, nè la voglia, nè l'abilità di maneggiare qui il pericoloso coltello delle anatomie psicologiche, per comodo del buon pubblico che ha comprato il libro, il quale d'altronde (il pubblico non il libro) se vuol levarsi il gusto di far uno studio obiettivo su questo teatro sanguinante di tragedia e di realtà che è il carcere, può ben pigliarsi il disturbo di recarvisi in persona... per uno di quei tanti modi indicati, se bene negativamente, dal Codice Penale.
A questi lumi di luna e di governi, una ricetta sicura per andarci infallibilmente, almeno una volta l'anno, eccola: essere amante, e non pur burla o per solo platonismo, del popolo e della sua rigenerazione completa, senza restrizioni mentali o patriottiche; mescolarsi alle sue agitazioni, unire la propria voce al brontolìo della gran pentola in bollore, e la propria penna al fascio di quelle, che non parteggiano per alcuna chiesa e per alcun pontefice, ma dicono la verità nuda e cruda sul muso ai pontefici scomunicatori, ai capoccia, che fanno la voce grossa per ogni atto di ribellione vera e ardita di coscienze e di braccia, ai pappagalli rossi, che sbrodolano della retorica secentista, ed agli ufficii del Fisco, (diamogli pure l'f maiuscolo) i quali credono di salvare la società barcollante, col gridare l'alto là a chiunque esca un tantino fuori dalle tonalità serafiche ed argentine della stampa usuale, con le audacie e con i clangori burrascosi di un po' di musica... dell'avvenire.
Quando poi uno è conosciuto un zinzino fazioso, tutto ciò può essere anche superfluo.
Basta che costui faccia una conferenza, in cui anche per semplice fioritura d'immagini figurino le parole scintilla, battaglia, avanti; che le orecchie lunghe (per l'uso s'intende) di qualche agente ausiliario dei soliti, dotati, come ognun sa, di quella soda cultura ed intelligenza naturale per cui va così celebrata la polizia italiana, raccolgano, di sotto le finestre, tali parole e per il tramite delle sullodate orecchie le trasmettano al relativo cervello, essiccato dai preconcetti, dal mal animo, dalle paure di perdere il pane... sudato, se la conferenza non arrivasse a sembrare poi abbastanza rivoluzionaria al capo d'ufficio. Basta che quegli agenti compariscano in un processo in cui sia coinvolto il conferenziere, che dei giudici, scelti tra i più amanti dell'ordine... di S. Maurizio e Lazzaro, sieno chiamati a giudicarlo; che almeno un questore in soprabito di taglio molto discutibile, venga a rivelare, fra molte oscure cose e con una posa tragicomica, che in Italia siamo tutti... liberi. Basta infine, che ci sia qualche imperativo categorico venuto per telegrafo da Roma, ed un sostituto procuratore del re (ahi non anche cavaliere!) che muova alla caccia della promozione e del ciondolo – atteggiandosi sul banco dell'accusa a salvatore delle istituzioni e della società – per guadagnarsi, a dir poco, qualche anno di pane... (un po' nero) a spese dello Stato e per acquistare poi la frègola di stampare, magari, un libercolo di versi.
Ponete pure, o lettori, che qualchecosa di simile sia proprio accaduto a me.
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Merita il conto, però, di indicare il modo, per il quale un detenuto politico nelle carceri del felicissimo regno d'Italia può, a dispetto dei regolamenti, ingannare il tempo coll'infarcire dei versi. S'intende che nessuna concessione in questo senso, ed è naturale, verrebbe accordata all'ufficio della Procura o dalle altre autorità competenti; perchè le case di custodia e di pena, in Italia almeno, a tutto possono servire, eccetto che ad elevare alquanto l'intelligenza con qualche onesto godimento intellettuale; molto meno poi ad ingentilire il cuore, nulla omettendosi invece per inasprire gli animi dei reclusi, con disposizioni frequentemente odiose, quasi sempre inconsulte.
Cosa curiosa poi: le idee, nella giurisdizione carceraria, sono tanto più grette e talvolta ridicole quanto più vengono dall'alto; e il personale è tanto più cortese ed umano quanto più scende in basso. A nessuno di quei poveri secondini, spinti dalla fame e dal bisogno a vestire quella lugubre divisa, io avrei da rimproverare le feline e garbate crudeltà di qualche sostituto della Procura, e di qualche direttore di carceri.
In barba però a tutte le rigorose disposizioni ordinate per il mio isolamento, e per infliggermi quelle maggiori privazioni, che fosse possibile, trovai pur modo di venire in possesso di una matita microscopica, che fu la mia complice in quasi tutti i reati, che, messi ora alla berlina di questo libruccio, attendono senza speranze e senza paure il verdetto del pubblico.
Il modo, il luogo, il tempo, le ansie continue di un processo nel quale intravedevo un lungo lavorìo di macchinazioni tenebrose e nemiche; i fatti luttuosi, di cui giungeami nella prigione l'eco sinistra dalla mia casa; le trepidanze del sapermi, del sentirmi spiato, le molestie e l'uggia di una legione di insetti, ronzanti nell'afa della cella tutto il santo giorno e lungo le notti maledette, la demolizione lenta e inesorabile di tutto il mio corpo sotto il rosicchiamento assiduo di una intiera varietà di parassiti, la mancanza di aria, di luce, di sole; queste e tante altre cose, non belle e non poetiche, potranno essermi computate come circostanze attenuanti?
Poi, si pensi, non il biancore di un foglio ampio, che solletichi la fantasia a linearvi qualcuna delle interne visioni, e conforti il sentimento alle dolci confidenze delle strofe e delle rime. No. Invece, qualche brandelluccio di lettera venuta di fuori, ed offrente a mala pena i suoi spazii bigerognoli tra i filari già scritti. Mi parevano fossatelli d'acqua palustre fra le propaggini scure dei campi in decembre quelli spazietti. – «È lì, proprio lì, mio caro, che bisogna buttare, alla meglio, queste nostalgìe in versi, queste noterelle rimate, o peggio, della tua vita carceraria.» Così mi punzicchiava in un cantuccio del cervello il tarlo assiduo di una idea. Io, sciocco, posi mente ed ascoltai questa voce pericolosa: così via via, quando me ne pigliava l'estro, e mi capitava il destro, dato un calcio ai codici, andavo ad annegare l'umor nero delle mie ribellioni psicologiche in quei fossatelli, di cui dicevo or ora, e mi pareva – chi sa perchè? – fino in un bagno così poco igienico, di trovare un refrigerio all'arsura di quella gran caldana di monastero sfratato, e un po' di assopimento alle frenesìe ed a certi arrovellamenti tempestosi del cervello, che mi andava in fiamme. E scrivevo, senza curare la forma, senza ritoccare.
Molti, i più anzi, di quei versi, che ora visti qui fuori, alla luce del sole, mi paiono assai più contorti e poveri di allora, non ho voluto più limare, perchè – e sarà forse una mia idea bislacca – io credo che perderebbero quel loro carattere di cosa vissuta, che resterà, forse, l'unico loro pregio, ed agli occhi dell'arte ortodossa, il principale loro difetto. Qualche alienista illustre – chi sa? – ne falcidierà alcune strofe, come documento umano, per qualche trattato d'antropologia-criminale sui delinquenti politici. Si serva pure. Se mai, per la scienza, è bene che il documento sia, quanto più è possibile, il riflesso primitivo, e meno alterato da successivi artificii, dei singoli movimenti psichici, che lo hanno prodotto.
Qualcuno, forse, sarà curioso di conoscere la via, per la quale i miei appunti evasero dal carcere; oh non certo dalle inferriate, signor Direttore di mia dolce memoria; dalle inferriate, su cui scocca la duplice e sonora battuta matuttina e serale, non scappano mai nè bigliettini nè prigionieri. Voi lo sapete bene, che siete un carceriere vecchio: i detenuti – gran comoda gente costoro – se ne scappano via sempre, tranquillamente, dalla porta.
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Così – guardate combinazione – fecero i miei versi.
Ma ne scapolarono delle belle, avanti di potersene uscire all'aperto, poveri foglietti miei confidenti! Anche da queste ignote pagine che tu, forse, non leggerai, io voglio ringraziarti, o giovinetto ed onesto carcerato, che fosti il complice necessario di questa evasione; su te almeno non scenderà l'ira della gente per bene scandolezzata al mio novo delitto; tu corri i mari, o amico mio, e bene altre ire – ire di marosi e di tempeste – tu affronterai; qui tra questa caligine di pianure fangose io porterò solo la croce e la pena di quei miei scarabocchi, cui tu, compiacente, procacciasti la fuga.
Potessi anch'io, come te, gettare lo stornello Toscano nelle solitudini del Pacifico solenne, combattere contro la raffica omicida e contro la bonaccia crudele, e non più vivacchiare in compagnia di cotesti uomini di carta-pesta, e con questa arte vigliacca di leguleio; comporre un poema di fatiche feconde e di battaglie vere, costà lontano, sui cavalloni rabbuffati, in faccia al sole che sanguina tra i nuvoli neri; scrivere l'esametro spumeggiante col timone nella pagina immensa del mare, quando il brigantino solitario scricchiola sotto il vento furioso, e le antenne svettano come cannuccie di padule, e i sartiami hanno gemiti ed urli come di naufraghi travolti lontano; scrivere il carme novissimo del lavoro, là sù, sui pennoni rollanti, alla manovra delle vele, pendulo sull'abisso clamoroso, quando gli alberi tracciano le ampie strofe del rollìo e del beccheggio, col tragico ritmo della tempesta, nella classica profondità del cielo. Essere, come te, una particella vivente di questo inedito poema dell'infinito.
Questo avrei voluto, questo, se io potessi, vorrei.
Ed allora alla spampanata fioritura letteraria di questo giardino d'Europa, ove accanto agli affamati, ai pellagrosi ed agli abbondanti commendatori prosperano visibilmente i versaioli più o meno ribelli.... per celia, non sarei oggi io, oscuro e mal pratico coltivatore, venuto ad aggiungere questo mio rosalaccio, rosso e nero, nè certo per amor di parata, e la giovinezza non mi sfiorirebbe ora così triste, lontano alle consapevoli scogliere del nostro Tirreno; e cose ben più utili ed oneste avrei operato; e come le tue, o giovinetto marinaro, sarebbero le mie mani incallite in un lavoro nobilissimo e produttivo sui velieri e sulle calate dei porti, anzichè il mio cuore disseccato nelle tenui battaglie della penna, e tra le frottole della giustizia codificata.
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I miei primi scarabocchi, dicevo, trovarono dunque il modo di uscire; non io, che dopo la pubblicazione della poesia «Giustizia» una mattina fui condotto, con grandi e ridicole precauzioni a Lucca, nel penitenziario di San Giorgio – pendendo tuttora l'appello contro la sentenza del Tribunale di Livorno – ed ove rimasi finchè la pena non fu intieramente espiata. Molti versi di vario genere nella furia di questa traduzione (per dirla col vocabolo della burocrazia carceraria) andarono smarriti, e, buon per i lettori, non figurano in questa raccolta, e ormai resteranno per sempre brandelli inediti di quelle ore perdute negli amplessi tristi con le muse solitarie del carcere.
Nella mia cella del San Giorgio – numero 9 – questi amoreggiamenti sterili, ahimè, non seppi abbandonarli. Ma gran parte delle povere fantasie io confidai ai muri bianchi di quella stanzetta, ove certo troveranno lettori meglio appassionati del genere, ed ove questi frammenti di vita vissuta, nella gran malinconia dell'austero penitenziario, saranno più comprensibili che non sulle pagine nitide di un elzeviro... se la solerzia di quel degno direttore non avrà già fatto sparire le sconsolate traccie del mio peccato.
Unici residui di quelle non restano, ormai, su questo libro, che i versi imparati a memoria, i quali, naturalmente, sfuggirono alla ultima perquisizione di prammatica, fatta sull'uscio del carcere.
Un altro disgraziato consiglio di pubblicare i miei versi di carcerato, dei quali si buccinava non so che cosa mai di ribelle e di demolitore fra i secondini e fra i detenuti, mi venne, l'ultima notte di prigionia, a traverso la muraglia, da un vicino di cella sconosciuto ed invisibile, che io forse nella vita non incontrerò nè conoscerò mai più. C'è, in quel mondo mestissimo dei ripudiati dalla società, tutto un idioma convenzionale, che mi fu d'uopo apprendere e che appresi, non senza difficoltà. Anche in quella notte taciturna di Novembre, dei colpi regolari battuti dall'altra parte del muro e con una progressione numerica corrispondente alle lettere dell'alfabeto – fecero vibrare nel silenzio della mia stanzuccia il saluto di un condannato, che sapeva qualche cosa di me, e che mi augurava bene nella imminenza della mia liberazione. E con quel saluto c'era il consiglio di farlo, questo libriccino di vita carceraria. – Che io dessi infine senza paura, come potevo, uno schiaffo a questa società matrigna dei molti; che ci sarebbe stata un po', in questo, anche la sua vendetta, la vendetta di lui, poverino, che non aveva mai conosciuto che triboli e pene, e che non si vergognava, in fondo, di aver rubato, quando non aveva più trovato da lavorare e da mangiare. Povera voce venutami dai muri palpitanti del carcere, il tuo consiglio è stato seguìto: il libriccino è stampato. La società, certo, riderà di me, dei miei versi, di te, del tuo consiglio – ride di tutto, che non sia oro sonante, lei.
Il giorno dopo avrei abbracciata mia madre, avrei riveduto i miei cari, avrei portato un fiore ad una tomba recente; salutato gli oliveti della maremma, il mare turchino! Oh gli sbuffi dell'aria fresca nel viso, gli amici, i compagni a torno festanti, la vecchia casa, che sentì le mie grida di fanciullo, la grande cucina scintillante per le fiammate, nelle sere d'inverno! Alla vigilia di tutto questo, il saluto del vicino di cella mi strinse il cuore; quell'augurio, senza invidia, con un sapore di effusione infinita, mi fece pensare.
Se ci penso ancora, mi par d'essere certo, che quel povero cencio vivente, strapazzato di qua e di là per le prigioni, abbia più cuore di alcuno, che veste la toga, e sostiene con molta abbondanza di retorica le cosidette ragioni della difesa sociale.
In quell'ora notturna, piena di ricordi e di speranze, tu fosti pietoso con me, o povero carcerato; io non so il tuo nome, ma ricordo ancora le tue parole gentili. Ti credo generoso ed onesto, assai più che certi strenui difensori della proprietà privata nonchè oziosi divoratori delle fatiche altrui; e stringerei la mano a te, o buon ladro, più volentieri che ad alcuno di quelli che accusano senza pensare, e che condannano senza riflettere.
Non rimpiango certo che il tuo consiglio abbia avuto complicità nella divulgazione di questi delittucci ritmici, che hanno per sè le diminuenti dell'impeto d'ira e del giusto dolore. Se c'è un pochino anche la tua vendetta, tanto meglio.
Per svergognare questa sgualdrina vecchia – la società – lo schiaffo avrebbe ad esser potente, solenne, dato con mano poderosa e sicura. Il core non mi manca; ma i muscoli sono deboli – e se quella poi fa cilècca: se la manata non la coglie in pieno viso? Non importa: giù, giù!
Ecco fatto.
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Che se il mio accusatore volesse, come altra volta, sostenere che questi demolitori in realtà sono dei perditempo, che non amano il lavoro utile e proficuo, e volesse desumere ciò dalla comparsa di cotesto triste canzoniere di carcerato, prenderebbe una falsa via per il suo ragionamento.
E sebbene non si dia retta alle prediche, che vengono da certi pulpiti, sappiate, signor sostituto, che io fo' voti di vedermi tolto da tempi meno sinistri a cotesta arte di scribacchiatore, e riserbato alla sorte di appendere ad un fico la mia toga, su cui – bontà vostra – trovaste tanto a ridire, ma di vederci accanto, penzolone, anche.... la vostra, così ben gallonata e civettuola. Vorrei farvi comprendere, ch'io mi sentirò più onorato e felice di rivoltolare la terra con la vanga e con l'aratro, che non starmene a scander metri, ed a pescare rime, e a dire ed a sentir dire delle corbellerie per i tribunali. Noi, demolitori, l'aspettiamo a gloria quel santo giorno dei colpi di marra sulle terre non redente ancora dalla miseria, dalla ignoranza, e dalla oppressione.
Vedrete che belle strofe luminose – più fiammeggianti assai dei nostri versi e delle vostre requisitorie – sapremo scrivere per i campi e nelle officine, e per le scuole, ove tutti i figli giovinetti dell'uomo cresceranno fratelli nella eguaglianza vera e nella libertà.
A rivederci dunque al giorno benedetto, in cui gli uomini non sapranno più che farsi delle mie ribellioni versificate nè delle vostre sfuriate sentimentali e patriottiche, nè delle gazzette equivoche, che riportano la vostra prosa, pueah! ponzata e scritta a casa – coll'aria di darla a bere come improvvisata all'udienza – e tagliano via dalle prezzolate colonne le sacre ragioni della difesa. Grazie anche a voi, o crocesignati filibustieri della penna, costà nella gentile città marinara della mia dolce Toscana; grazie per quel po' di male che mi avete fatto. Almeno ho imparato a conoscervi.
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Che poi il signor sostituto Procuratore del re, padrino al fonte... giudiziario del ricordato processo, creaturina tisicuccia così laboriosamente partorita dalla felice fantasia di un Bancheri, ci venga a contare, piagnucolando, le miserie della borghesia, che non ha, secondo lui, da pagare la risolatura delle scarpe, noi potremo, anche menargliela buona. Chè può darsi, poveraccio, con la vista, come ha, oscurata dalle lenti fiscali, non sia forse capace di scernere bene borghesia grassa, oziosa, divoratrice dei prodotti del lavoro altrui, e borghesia magra, oppressa, salariata, che si logora, stentando, nelle fatiche desolanti del basso impiego e nel ministerio laboriosissimo dell'insegnamento elementare. La quale, in fondo, non è che proletariato, e trovasi già con noi nelle occulte aspirazioni, e sarà apertamente fra noi, domani, al momento della lotta.
Ma che ci venga questo signore, che il suo dio lo benedica, ad insegnare, a stomaco pieno, la religione del sacrificio e del lavoro; a noi, che per cansare le sofferenze di persecuzioni poliziesche e giudiziarie non scegliemmo mai la facile via delle abiure, e nè anche il comodo viottolo delle piccole transazioni; che rida, col brutto riso del carceriere dondolante le chiavi della segreta, rida sul viso di questi poveri ragazzi, perchè qualcuno di loro esercita l'orribile mestiere... di calzolaio, che venga a gabellare i miei ex-compagni di prigionia come gentaglia senza arte nè parte, come mascalzoni scansafatiche; via, tutto ciò è supremamente crudele. Non l'arte di maestro Raffaele che se ne va di cantina in cantina – come canticchiaste allora – possono permettersi questi faziosi, cotesti violenti filosofi della piazza, che amano e sperano una giustizia un po' meno ingiusta di quella che voi amministrate.
No. Pur troppo.
Li sanno le macchine, i campi, le gomene e le stive delle navi, i lunghi remi delle barche di risico, gli argani del porto rumoroso questi santi sudori di plebe, che ha il diritto, per dio, di discutere, al meno, sul pane, che le si ruba giorno per giorno, ipocritamente. Lo sa l'ordegno insanguinato – non è retorica signor Procuratore – che sfracellò l'altr'ieri sul lavoro, nel Cantiere navale di Livorno, quella monumentale figura di lavoratore gagliardo e buono, che fu il nostro Angiolo Magnozzi, un altro dei facinorosi che, secondo voi, non hanno voglia di lavorare.
Mi par di vederlo, come fosse ora, quando nella domenica, la sua faccia bruna e ardimentosa compariva allo sportello della celletta in faccia alla mia, mentre il frate biascicava la messa nella cappella dei Domenicani.
Povero compagno nostro, vorrei vedere, come ci pensa questa gente timorata di dio, ed amante dell'ordine, alla tua famiglia; ora che, da buon ribelle, hai schiaffeggiato col martirio la ironia della canzonetta napoletana, stonicchiata, come un buon argomento di accusa, dal signor sostituto. Ricordo ancora il giorno, in cui i tuoi polsi enormi, nelle manette troppo anguste per te, sanguinavano tanto e tanto, che un brigadiere dei carabinieri impietosito volle rallentarne la vite. E tu ridevi di quelle nobili lividure. Non fu gran sangue, quello, pare, perchè cotesta gente imparasse a rispettare, almeno, la onestà dei tuoi principî. Ce ne voleva altro assai; dovevi versarlo fino all'ultima goccia; e, dopo tutto questo, chi pensa solo agli interessi della sua bottega non intenderà mai il significato profondo di un uomo stritolato da una macchina.
Le manette ed il carcere – per te – non furono che il prologo triste; l'epilogo fu ben più sconsolato.
Ma io avrei avuto caro, che sulla tua bara gli amici avessero potuto deporre le manette, che ti lacerarono i polsi, quel giorno. L'eloquenza loro su quella cassa di carni spezzate sarebbe stata alta e gentile più di ogni solenne parola di saluto al ribelle ed alla vittima.
Addio, povere carni; giù il cappello, signor sostituto procuratore del re!
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Lasciamo che svampi e si asciughi questa goccia di sangue sulla pagina bianca, e rispondetemi apertamente, o miei lettori: il signor Questore di Livorno, gli accusatori ed i giudici che mi costrinsero, non colpevole, agli ozii istigatori delle prigioni, non sono anch'essi, in fondo, i complici necessari nella perpetrazione di cotesto mio mesto canzoniere?
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