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Dormivo. Per la tacita
notte scendeano sogni luminosi
su li stanchi occhi miei;
e mia madre vegliava – trepidante
come un dì, ne la dolce püerizia,
allor che i miei riposi
scorrean sereni sovra il sen di lei.
D'un subito, nel sonno, mi percosse
uno strano rumore
di fondo al corridore;
poi tre colpi vibrati e vïolenti
tra mormorii confusi –
ancor gli occhi avea chiusi –
sentii picchiare a l'uscio lenti, lenti.
Di sbalzo mi destai,
e vidi, presso a me, la madre mia:
– «Ecco la polizia,
Pietro» mi disse – pallida, atterrita.
Io, mesto, mi levai,
e già mi stava a lato un ispettore,
che mostrommi il mandato,
e, munito di ciarpa tricolore,
mi dichiarò in arresto.
Mia madre in pianti amari si struggea;
cupi, muti, impassibili,
come spettri d'un incubo funesto,
sei poliziotti il letto abbandonato
aveano circondato.
Come un leone il mio babbo fremea,
presso la porta, senza una parola.
Passando – io l'abbracciai;
poi la mamma baciai,
(essa, da l'uscio, mi stendea le braccia.)
Tra le guardie – levando alto la faccia –
la mia casa lasciai.
Sotto il cielo piovoso
si allungava Livorno addormentata,
e il gran vïale de le tamerici
fuggìa per la tenèbra sconsolata.
Da le quete pendici
di Montenero, il venticel notturno
si slanciava nel mare
grigio, brullo, infinito,
e taciturno come un lago morto.
Lunge, su li orizzonti, la Meloria
parea, nel gran silenzio, meditare,
cupa e feroce ne le sue memorie.
I navigli del porto
ne la calma sinistra e sepolcrale
figgean l'occhio sanguigno e pauroso.
In alto – fiero e vigile –
ravvolto di mistero e di caligine,
il capo radïoso –
torreggiando – s'ergea del gran fanale.
Muti c'incamminammo,
e, su da la finestra,
la madre mia – piangendo – mi chiamava.
Io volsi altrove il viso;
con cinico sorriso
un pingue poliziotto mi guardava.
Procedevamo, muti,
lungo le vie deserte e silenziose.
Di tratto in tratto qualche mattiniero
e raro vïandante,
o qualche cane errante
passavano, gettando sospettose
occhiate sopra questo
gruppo triste e severo.
Poi, con atti di tèma e di paura,
rasentando le mura,
scivolavan nel buio.
Sotto una pioggerella fitta, assidua –
come spinti dal soffio sciroccale –
giungemmo a la Questura.
Era – sembra – importante la cattura,
giacchè... ne rimpinzarono un verbale;
e, a mezzo del telefono
il questore chiamarono.
Poi, per viuzze strette e solitarie
mi trassero a le carceri.
L'antico chiostro freddo, muto, plumbeo,
ricetto di rimorsi e di sventura,
aspettante, sorgea ne l'aria scura.
Entrammo. E l'uscio si richiuse, lugubre
come la pietra d'una sepoltura.
Livorno, dal Carcere dei Domenicani