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Forse io son morto da un pezzo;
Forse d'ombre audaci frotte
Son le idee, che pel mio capo
Van ronzando ne la notte.
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E il poeta la mattina
Con la gelida sua mano
A descrivere si prova
De le pazze ombre il baccano.
Dormivo – e mi pareva, che l'occhio, sbarrato nel
sogno,
vedesse cose strane pe 'l buio d'un gorgo infinito.
Eran torme affannose di spettri cacciati dal turbo,
come dal soffio enorme d'un'ira, d'un odio implacati.
La fila interminata, fuggiva, fuggiva, fuggiva
nel buio pauroso – fuggiva – torrente perenne.
Per le purpuree vesti pareva fiumana di sangue.
Le catene, strisciando, urlavano come tempesta.
Gemiti lunghi e fiochi salivan ne l'alta tenèbra –
grida, pianti, singulti di bimbi, di vecchi, di donne.
I fuggenti, a le grida ben note, stendevan le braccia,
come a l'irraggiamento supremo d'un mondo perduto.
Ma il turbo infurïava, spingendo li spirti dolenti,
a frotte sconsolate, giù giù per la china fatale.
Mi pareva che il tempo, già senza misura remoto,
sopra l'aperto abisso vegliasse la tragica fuga.
Non so quale fermento di lunghe vendette feroci,
con lievito sinistro bolliva, bolliva ne l'aria.
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Ma già, più non dormivo, e sempre le orecchie feriva,
rude e cupo, il rimbombo di ceppi e catene striscianti.
La realtà men triste non era de l'incubo atroce,
allor che – per le rozze ferriate rampando – mirai.
Passava da 'l cortile – per altre galere sospinta –
la ciurma dei forzati. Passavano come fantasmi.
Era il transito mesto che de la sognata bufera
risuscitava l'eco non anche, nel core, sopita.
Livorno, Carcere dei Domenicani, 7 Agosto 90.