Pietro Gori
Ceneri e faville
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Ceneri e Faville

AI COMPAGNI DELLA SICILIA

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AI COMPAGNI DELLA SICILIA4

Da più luoghi della mia isola nativa, ove mai posi piede, da che ne uscii lattante, voci e lettere amiche m'invitano – prima ch'io ripassi l'oceano.

A tutte io rispondo: Verrò. Come, quando? Nel modo ed allora (in autunno certo) che saranno vinte le difficoltà materiali, che ad uno, ricco solo di fede, rendono tarde talvolta le più vive energie.

Verrò, conterranei, nell'isola bella e dolorosa, di cui tante volte il dolce grido materno mi giunse fino ai lidi lontani, nelle terre d'oltre Atlantico, dove tanti suoi figli vanno raminghi ad attestare che l'antico granaio d'Italia non ha più pane per chi lo fecondò col suo lavoro, per chi lo bagnò col sudore della sua fronte, convertito in lacrime di sangue.

Verrò a leggere un capitolo di più dei dolori e delle speranze di questa patria italiana, che noi, profughi nelle ore della follìa persecutoria, andammo tenacemente vincolando con le patrie remote, ove le comuni miserie e gli ideali accomunantisi, parlano alle plebi lavoratrici e stanche, un idioma più alto che le vecchie favelle delle nazioni; verrò a veder co' miei occhi e ad incidere nel mio cuore coteste tristezze siciliane, che sono un'ingiuria al sole, che splendelucente ed animatore su cotest'isola, benedetta dalla natura, e addolorata dagli uomini.

Verrò a udir le voci del suo proletariato, che udii fioche e lontane tra le scariche di fucileria nel tragico '94, ed a cui da Milano, inutilmente, rispondemmo col grido della protesta fraterna; le voci che si levano dalle tue zolfare, dai tuoi campi e dalle tue baie ridenti, ove ignoto dovrebb'essere il dolore dell'ingiustizia – o Sicilia eroica.

Verrò senz'odio, com'è mio costume, e senza iattanze, o compagni; con questa ambizione sola: di mostrarmi sul suolo della mia terra nativa, come un lavoratore austero e sereno, che sa esser la sua una fatica buona; e che al termine della sua giornata, dopo il gesto largo, che empiva tutto l'orizzonte, del seminareriposa nella certezza, che dalla sua sementa nasceranno le spighe, matureranno i frutti per tutte le mense degli uomini.

Così verrò tra voi, amici lavoratori della Sicilia – a studiare, a lavorare. A studiare il problema delle vostre angoscie, a cantar l'inno del vostro riscatto. E lavoreremo in compagnia al dissodamento superbo, alla seminagione ideale.

Anche se per poco, voglio sentire tutto il palpito, ahimè come compresso, del tuo gran cuore, o Sicilia.

Voglio frugare tutti i ricordi, prossimi o remoti, delle iniquità e delle oppressioni viste lungo il mio ramingare a traverso il mondo, e porle a raffronto di quelle, che vedrò sanguinar nel tuo seno – voglio, che la mia povera parola, salutante le tue plebi, abbia la vibrazione di tutti gli spasimi e di tutti gli ideali, che raccolsi dalla bocca e dall'anima delle moltitudini d'ogni paese, per dove passai; e possa io di tutto ciò fare una strofa, una sola strofa del tuo carme di resurrezione, o Sicilia proletaria!

È con questi intendimenti ch'io verrò a far sementa d'idee, o compagni isolani, se mi conforterà la cooperazione vostra in questo lavoro di propaganda e d'organizzazione, che rimarrebbe sterile senza uno sforzo concorde di uno slancio collettivo.

Rosignano Marittimo, 26 settembre 1902.





4 Lettera tolta dall'Avvenire Sociale di Messina del 9 ottobre 1902.



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