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Emilio Zola, non fu uomo di parte; e sarebbe rimpicciolire questa gigantesca figura, materiata tutta d'idea e di azione, il volerla costringere nel letto di Procuste di un determinato partito politico o sociale.
Ci sono attraverso la vasta fucina della operosità umana degli uomini che passano e comprendono la fatica collettiva, gli atleti del sentimento e quelli della ragione. – Se voi riandate attraverso le pagine della storia, voi vi trovate di fronte a questi giganti che mettono il cuore a contatto con le piaghe di quella parte dell'umanità che, sudando sudori di sangue, crea la infinita ricchezza per l'ozio spadroneggiante dall'alto. E questi uomini si chiamano Apostoli o Profeti o Veggenti, secondo che dissero le loro parole in nome di un principio politico o religioso o sociale. Essi si possono chiamare Socrate, Platone o Gesù; ma tutti fanno pulsare la grande arteria del sentimento umano verso questo cammino ognora ascendente, attraverso tanti triboli ed asprezze e dolori, verso la trasformazione e resurrezione del dolore dal giogo secolare che opprime i più, verso la redenzione di tutti i diritti, primo dei quali il diritto della ragione, perchè questa è la forza del pensiero. Dopo i lavoratori del sentimento, vengono i cavalieri armati di quella gigantesca forza scintillante che è la ragione. L'umanità ha bisogno degli uni e degli altri. La vita si ispira all'insegnamento, fatto il più delle volte di sacrifizî degli uni e per la virtù illuminativa del pensiero degli altri, fatto di opere che hanno il più alto merito quando s'ispirano al servizio della verità.
Emilio Zola, questo pollone gagliardo sbocciato dal gran ceppo latino, doveva riassumere in sè e contemperare la ricchezza del sentimento e la luminosità della ragione investigatrice. Egli sorse quando il vecchio e basso impero di Napoleone il Piccolo, riassunto di vigliaccherie politiche e tragedie memorabili, volgeva alla decadenza attraverso la Curèe e la Débacle. Ed egli sorse, il gigante; sorse e apparve come un serbatoio mirabile di sentimento e di ragione. Si direbbe che egli impersonasse sino dai primi momenti della sua opera la figura artistica e colossale, creata da lui, di Pietro Froment. Aveva la fronte turrita ed ampia, e la dolce piega della bocca meditabonda e gentile, col temperamento fisiologico e psichico d'un predestinato dalla natura e dal fato a compiere le azioni buone del cuore e le belle della mente. Egli afferrò la vita nelle sue multiformi pulsazioni. Medico ed arcangelo nello stesso tempo, ficcò gli occhi in fondo alla cancrena sociale; e in quella caliginosa epoca del Basso Impero di Francia sentì il dovere dell'artista e del cittadino, e, più alto, il dovere supremo dell'anatomista; perchè, se c'è un dovere ed un'opera che rendono gagliarde le anime nelle epoche di transazione, questo dovere e questa opera altissima sono appunto il dovere e l'opera dell'anatomista. Egli afferrò la società con tutto il suo male; esaminò questa civiltà borghese in rapporto al momento storico speciale in cui andava costruendo la sua opera; e, Dante moderno, scrisse ciò che vide. Egli appartenne infatti alla stessa razza di artisti di Michelangelo e Dante. Il ragionamento suo voi lo trovate nel Roma, in un dialogo fra Pietro Froment ed un ammiratore del Botticelli. È bello, dice il Froment, tutto ciò che mira al trionfo delle leggi più fondamentali dell'esistenza!». Per questo io dico che Zola fu un magnanimo che riassunse l'anelito dell'umanità veggente.
Ed egli passò, e ciò che vide scrisse. Quanti passano e guardano senza vedere! Quanti cogli occhi pieni della loro vanità, puramente decorativa e coreografica, invadono la palestra per porsi in evidenza, e poi non lasciano dopo di sè nessun solco nella storia!
Altri invece passano silenziosi come anime vaganti, ma con gli occhi di aquila guardano e spiegano la causa dei fenomeni umani. Emilio Zola comprese che il sistema positivo e sperimentale doveva essere portato da lui, anatomista e studioso della verità, nella politica e nell'arte, e specialmente nell'opera letteraria.
Appartenne agli scrittori di lettere umane, perchè dell'umanità intese le voci infinite e multiple. Ed io dovrei, celebrando l'opera sua gigantesca, parlare della ideale città bianca che egli innalzò nel suo pensiero e col formidabile metodo d'investigazione oggettiva, che farà della sua creazione artistica una delle cose immortali, perchè poggiata sulle basi granitiche della verità, che subito si manifesta agli occhi dei buoni e dei sinceri.
Egli vide e scrisse. Ridirvi ciò che palpita e scintilla nell'opera di Zola, sarebbe dirvi tutta la vita odierna piena di tante angosce e mostruose contraddizioni e pur fulgida di tante bellezze! Noi lo ammiriamo perchè, demolitori, apparteniamo con lui alla schiera di quelli che gridano: distruggerò ma per riedificare. Siamo i demolitori di ciò che rappresenta la morte e la distruzione della vita stessa.
Zola rinverdì il principio eccelso che deve fare l'uomo fratello degli altri uomini, i vari paesi e le varie nazioni concittadine e sorelle nella gran patria universale degli altri popoli.
Ecco perchè, quando uomini siffatti scompaiono per uno stupido e volgare accidente, quando si sente dire: «Zola è morto!» quel movimento di stupore, che pervade e batte perfino alle porte dei cuori più insugheriti e dei cervelli più incartapecoriti, fa comprendere che un legame misterioso lega la umanità ai suoi genî giganti.
Zola rappresentava questo dovere e questo sentimento civile che trasformarono la sua tempra di artista in un coraggioso denunziatore del vizio. Come artista parve immorale; perchè, dopo aver inchiodato la società sul tavolo anatomico, e dopo aver ficcato il coltello della dissezione al di sotto della cancrena e dopo aver fatto saltare il cancro, il marciume ed il sangue nero e dopo aver fatto vedere di che lagrime grondi e di che sangue questa pretesa civiltà cristiana, per giunta cattolica apostolica romana, egli disse: «Accusatemi, ma con me accusate la verità che io vi ho detto nell'idioma dolce ed universale di Victor Hugo!».
Ed egli, senza paura, scrisse la verità come a lui si era manifestata.
I sacerdoti della paura, che sognano i mezzi termini, e le mezze coscienze, si rannicchiarono nei tenebrori delle loro sacrestie e mormorarono: Costui è un immorale! – Costui che ama come Fidia e Prassitele la verità nuda non contaminata dalla foglia di fico, è un immorale, perché non vuole mettere intorno al corpo di Frine il velo mistico e molti pampini, onde la sua nudità possa rifulgere innanzi all'Areopago e alla plebe di Atene. Ma Iperide passa e leva il velo per dire: Accusatela, se avete il coraggio! – E Iperide a lungo andare ha avuto sempre ragione, anche quando non è stata eloquente la sua parola; ed è rimasto il tipo più squisito del difensore delle cose difendibili! Così Emilio Zola persistette nella scuola di pessimismo sociale e d'inverecondia voluta.
«Tu sei l'immorale!» diceva la critica rigida e bacchettona, talora in scuffietta di vecchia megera baciapile, e talora in tricorno e talora in veste di sciabolatori. Ed il livore delle mezze coscienze e delle paurose verità si trasfondeva non solo contro il letterato, e contro l'artista; ma ancora contro la figura che sarebbe nata dall'artista, contro il cittadino, il lottatore, l'accusatore.
Egli aveva afferrato la società e, dopo averla sezionata, aveva fatto i suoi personaggi di carne viva! Oh! quanto diversi da quelli di carta pesta, stereotipati da tanti altri che sono passati nella bella terra di Francia, nell'Accademia degli immortali, le cui porte furono sempre chiuse allo Zola, quantunque a lui siano state aperte le porte della posterità, mentre gli Immortali sono già morti prima di morire!
Egli aveva preso ad esaminare tutta la purulenza della società, l'interno della putredine della vasta fatalità sociale. Emilio Zola aveva cominciato col maledire; e come non lo avrebbe potuto nello studiare la famiglia dei Rougon Macquart? nel vedere quali lacrime di sangue derivano da questo fato scellerato che ancora grava sul secolo ventesimo, sorgente all'ambizione della vita? Come avrebbe potuto egli non cominciare a combattere contro le tendenze del suo tempo che erano state inarginate nel Romanticismo?
Al sorgere di Zola tramontava il Romanticismo, che con Victor Hugo aveva combattuto battaglie tremende; perchè davvero, durante le rappresentazioni dei grandiosi drammi hughiani si assistè a veri combattimenti.
Ma il Romanticismo aveva per base tutto lo spirito della vecchia Europa, ed era un bisogno estetico di un tempo ormai passato. Romantici furono i lirici più grandi, dal mimetico Alessandro Manzoni al ruggente Francesco Domenico Guerrazzi, e romantici furono Heine, Goethe ed i poeti dell'Inghilterra, perchè la letteratura, come l'arte, non fa che rappresentare la grande anima collettiva dei popoli. Ma, rispondente a nuovi bisogni, poi si levò il naturalismo letterario di Zola, preceduto da pochi araldi, e seguito dall'abbaiare clamoroso delle pudibonde della critica dimezzata ed arcigna. La sua penna, da bisturi assurse a spada scintillante di giustizia riparatrice. Ed era la sua veramente una penna che sapeva le tempeste; e come Hugo aveva dato il primo cozzo all'impero di Napoleone il Piccolo, così egli ne continuava la demolizione. Così Carducci, prima d'essere commendatore, avrebbe potuto ripetere a Zola:
Poeta, a te il trionfo su la forza e sul fato!
Poeta, co 'l lucente piede tu hai calcato
Impero e imperator!
Furono due giganti costoro che s'innalzarono in quella bella serra del pensiero artistico e letterario che è il giardino di Francia. E lo Zola di pari passo seguì la via dell'atleta dei Miserabili e della Leggenda dei secoli!
Quest'uomo io l'ho veduto a Lugano; e non dimenticherò mai la mezz'ora passata insieme, non dimenticherò la sua stretta di mano, i suoi occhi scrutatori che guardavano al di là della superficie delle cose, quegli occhi égarés che tutto osservavano e tutto vi penetravano e vi frugavano nell'anima con lo sguardo profondo.
Il metodo suo era, per dir così, parte integrante del suo temperamento. Non si può essere ciò che fu Zola se non vi si è predisposto per tendenza naturale; non scaturisce un Michelangelo da un qualsiasi idiota. Noi, egualitari nell'utopia magnanima e positiva, riconosciamo che certe tempre che eccellono sulle altre non significano affatto distruzione dell'eguaglianza sociale; e appunto perciò ne scriviamo il nome a lettere scintillanti sulla nostra bandiera.
Nella eguaglianza dei diritti, dei sentimenti e dei doveri esiste questa specie di sovranità del pensiero e della ragione, che si guarda bene dal far consistere la superiorità nella violenza, e non la affida alla punta della baionetta e del moschetto. Questi spiriti sovrani non formano affatto, come si dice, una specie di aristocrazia, ma sono gli Ottimati che rappresentano nell'umanità il crogiuolo migliore delle idealità redentrici!
Ed era come tale che Emilio Zola nella sua opera magnifica doveva, come potè, riassumere tutto il problema dell'esistenza contemporanea. Posso io far sfilare innanzi a voi tutta l'opera Zoliana? Dovrò io farvi passare dinanzi come in una ricostruzione grottesca, tutta la moltitudine di personaggi reali, d'imperatori fuggenti come Napoleone, e travolgenti dietro di sè, come nella Débacle, tutta la Francia dei suoi cortigiani e perfino dei cuochi con le relative casseruole ben lustre, sopra il fango di Sédan e il sangue di Metz?
Dovrò io condurvi sui boulevards ad osservare lo sfarzo dei parvenus, che con molta fatica d'ozio usur-pano i sudori altrui? Dovrò in ridirvi la storia dei Saccard nella Curée o condurvi nelle anticamere di Nanà? Io ero ancora un bambino e leggevo i libri proibiti seguendo l'antico esempio di Eva; ho letto allora anche Nanà. Questo libro mi parve brutale sì, ma magnifica dimostrazione anatomica della putredine sociale; e nel letterato naturalista vidi il simbolista, quello stesso che più tardi si manifestò, scrivendo le Tre Città ed i quattro Evangeli. Nanà era la società plebea che si vendicava della società gaudente. Ella si divertiva a fare aspettare nelle sue anticamere gli ambasciatori ed i principi del sangue, ed a farsi mettere dei biglietti da mille nei mazzi di fiori, da quegli uomini tanto morigerati, che sarebbero pronti a gridare a quattro gole contro ogni tentativo di legislazione che venisse a sciogliere le unioni benedette dall'aspersorio e dall'articolo 130 del nostro codice! Così, come poi possono permettersi ad usura la soddisfazione di fare i moralisti in piazza o da un palco di teatro, in cui hanno accompagnata la legittima sposa e consorte.
Nanà fa ora la sua allegra vendetta contro i midolli infrolliti della gente che troppe notti ha passato nelle segrete alcove, riunendo in sè Aretino e Lojola. La donna caduta del popolo è plasmata in Nanà. Quante ne avete trovate sulla pubblica via simili a lei! Voi avete salutato con un sorriso tutte le Mimì, e le Musette che passano, non più nella commedia del teatro, ma nelle tragedie della vita; però non so se la loro vista vi avrà suggerito l'ammonimento, a coloro che scherniscono a tanta sventura, racchiuso nel detto di Cristo: Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.
Nanà; questo fiore nella putredine, sale ad un posto più elevato della Margherita del romanzo di Dumas e della musica di Verdi; perchè Margherita è una tisica, frutto più della fantasia che della osservazione, che non rappresenta affatto la brutale realtà. Nanà è una Margherita più vera e maggiore perchè contiene tutta una verità tragica. E da questo punto di vista fondamentale io vedo fluttuare nella ondata dei ricordi tutta la moltitudine dei Rougon derivati dalla mamma Felicita; questa vecchierella che nessuno può avere dimenticata, secca e magra, come una cavalletta, che nel suo salotto giallo riceve le notabilità della piccola città di Plaissans, a cominciare dal suo sotto-prefetto, tipo reale di funzionario, che fa a perditempo qualche cosa di buono, e che usa della propria autorità talvolta in bene e talvolta in male, così come spira il vento. E Plaissans è il mondo, la città industriale, la città molteplice, la Imperial City: poichè nell'infinitamente piccolo c'è il simbolo dell'infinitamente più grande. L'anatomista e artista ha quivi colta la società e l'ha mostrata nel libro ai lettori tale quale è.
Da mamma Felicita discendono, tutti quanti portano le stimmate della degenerazione atavica, dal delinquente volgare della strada fino a quello più volgare ancora della politica, impersonato in Sua Eccellenza Eugenio Rougon. Da quel salotto giallo scaturisce altresì tutta la immensa pleiade degli uomini di guerra e di pace, di lavoro e d'ozio, che formano insieme l'immagine esatta della società contemporanea, la cui visione fosca si presenta al lettore con una intensa impressione di verità. Si può quasi dire che sulla famiglia dei Rougon-Macquart pesi la stessa fatalità tragica eschiliana che accompagna Napoleone III dal delitto del 2 Dicembre alla catastrofe di Sédan. E si direbbe altresì che tutta la vecchia storia di Francia abbia maturato, generato, per poi travolgerla, questa famiglia, che rappresenta anche troppo l'anima e la tendenza della vita contemporanea. Ma poi con la Débâcle, col Germinal, con l'Argent e col Dottor Pascal, dopo le allegre elegie e georgiche dell'Abate Mouret, Emilio Zola giunge ad una sintesi talmente consolatrice, che l'opera sua si presenta, alfine, non solo come passatempo e missione dell'arte per l'arte, ma come civile combattimento che ha bene il suo contenuto morale. Allora si comincia a riconoscere che Emilio Zola aveva tuffato coraggiosamente le mani nel letamaio per poter gettare il fango in faccia a chi ci si trovava bene. Egli aveva sentito il bisogno di acuire nel suo pubblico il senso del ribrezzo per ogni bruttura ed ogni orridezza morale.
Sapeva – profondo moralista e psicologo – che, dal punto di partenza al punto di arrivo, doveva condurre i suoi lettori attraverso tutte le bolgie dell'infamia per quindi assurgere, sulle rovine dei vecchi idoli e degli astri spenti, alla contemplazione di altre stelle e di altre costellazioni. Già, dopo la caduta di Napoleone, dopo quella indimenticabile corsa sfrenata del treno, descritto nella Bestia Umana, rimasto senza guida e carico di soldati, carne da macello e oggi da cannone, comincia l'evoluzione di Zola o meglio un nuovo periodo evolutivo della sua mente e quindi dell'opera sua. È da allora che il simbolo comincia ad apparire, nei suoi libri, accanto alla descrizione reale e brutale. Così, il Dottor Pascal, nell'ultimo romanzo del ciclo dei Rougon Macquart, rievoca tutte le vicende della propria famiglia, e ricorda la sua gente in fondo ai pozzi del Germinal, e laggiù i ribelli neri sempre minacciosi; e d'altra parte rivede con la mente i figli suoi saliti ad alte cariche e posizioni privilegiate, riepilogando insomma, dinanzi a mamma Felicita oramai decrepita, tutti i casi della sua famiglia. Quivi il dottore Pascal è la mente monolitica che tutte raggruppa le cause profonde e, in lui che guarda in faccia la morte con serenità, voi avete la sintesi del romanziere, del filosofo e dell'artista. Quando il Dott. Pascal nega a sua madre il libro della fisiologia di sua famiglia, io domando se non è a questo punto che il pessimismo sociale ed artistico di Zola assurge ad un'alta apologia della vita. Io non so perchè a questo punto io mi trovi discorde quasi con tutti, compreso l'amico mio venerato e maestro in filosofia, l'illustre Giovanni Bovio. Essi nelle Tre Città non vollero vedere ciò che doveva essere il portato della evoluzione artistica di Emilio Zola. Oramai il letterato aveva il diritto di passare dall'opera quasi crudele dell'anatomista all'opera del medico; doveva, come il clinico coraggioso e buono, pensare ai rimedi. Per lui l'arte e la letteratura erano funzioni doverose; egli maneggiava la penna per fare di questa un istrumento di civiltà. Ed appunto le Tre Città sfolgoreggiano come cupola d'oro sul vasto edificio letterario dei Rougon Macquart.
Pietro Froment di Lourdes, Roma e Parigi è Emilio Zola in persona, per quanto attraverso vicende materiali molto diverse. Della stessa costituzione fisica degli atleti, dei pensatori e degli apostoli, Pietro Froment ha ereditato dal padre la fronte alta e turrita; e quella fronte pare un fortilizio, dove però non domina la violenza, ma la Dea Ragione rivelatrice ed illuminatrice della vita. Sua madre era donna di fede, di religione e di chiesa, ed aveva al suo figlio trasmesso un infinito bisogno di sperare, di palpitare per qualche cosa che fosse al di là delle realtà tangibili. E le due forze, la forza della ragione e la forza della fede, si erano fuse così profondamente e così completamente nell'organismo di Pietro Froment, da doverne seguire un duello spietato nella materia e nello spirito, per tutta la sua esistenza.
Pietro Froment cominciò con l'essere prete, vestendo l'abito nero della rinunzia. Egli è prete, ma di buona e sicura fede: perchè crede e perchè pensa, mosca bianca fra tante mosche nere, che nella religione di Cristo ci sia tutta la speranza, e che nel sacerdote cristiano e cattolico ci sia l'uomo capace di attuare nel mondo il precetto di Cristo: «Amatevi come fratelli!». E il prete in lui è l'apostolo; ma apostolo in cui la fede non ha ucciso ancora la ragione: la mente è vigile, per quanto il cuore creda ancora nel dogma. Questa è una delle parti più interessanti del lavoro veramente gigante dello Zola, come psicologo più che come romanziere. Pietro Froment ha una cugina buona e pia, Maria, che da giovinetta ebbe fulminate le forze fisiche da uno spavento che le paralizzò tutti i centri nervosi e che la inchiodò immobile in una povera carretta, che i parenti pietosamente trascinano per le vie quando vuole uscire di casa. Ella ha sognato che, se suo cugino Pietro Froment la porterà a Lourdes, guarirà. Pietro Froment accondiscende e parte col treno che trascina a Lourdes uno dei tanti soliti pellegrinaggi, accompagnando la cugina. Sul treno egli assiste allo spettacolo lamentoso di tutto l'umano dolore; ma l'uomo di scienza non abdica innanzi all'uomo di fede. Egli osserva e vigila.
Giunto a Lourdes, vede l'acqua della grotta venduta a prezzo quasi maggiore di quello del miglior vino di Bordeaux, come pure i brani del velo della Vergine; e insieme cose piccole e cose grandi che rivoltano e stomacano la sua anima di sincero credente. Egli, sacerdote, si accorge di questa ignobile forma di mercimonio contro cui sente il bisogno di protestare in nome della verità. Ma Maria ha un sogno mistico nella notte precedente al giorno solenne in cui deve farsi la gran processione annuale. La guarigione miracolosa doveva avvenire in quel giorno stesso. A Maria era apparsa in sogno la madre che le aveva detto: «Tu oggi, o mia Maria, guarirai; quando la processione passerà scintillante di stelle sotto la volta del cielo e quando brillerà l'ostensorio del sacerdote innanzi alle migliaia di candele dei credenti! Allora il miracolo si farà e la virtù della Vergine ti renderà sana!» Così l'organismo di Maria si carica di questa specie di elettricità che è la suggestione; e comincia la vita – non morta – a rinascere in lei. Intanto, mentre il miracolo sta per avvenire, la ragione di Pietro Froment non dorme ma investiga; guarda la cugina e ne pregusta e prevede la guarigione, dovuta non al miracolo ma ad un fatto fisico naturale. Quando finalmente passa l'ostensorio, allora la forza mirabile della più energica fede si trasforma in autosuggestione gigantesca e vittoriosa, e produce il suo effetto; la giovinetta si leva, getta le stampelle per aria e grida: «Io sono guarita!». E mentre ella con questo grido si riallaccia alla vita, e la folla grida al miracolo, e i padri della grotta si affaccendano a vendere le piccole bottigliette ed i ritagli di velo, e si stropicciano le mani, gridando al trionfo dell'al di là, la mente di Pietro Froment pensa che non è la forza dell'al di là che ha fatto rivivere Maria, ma la virtù invincibile della vita. Egli pensa che è vero che c'è una vergine miracolosa, che c'è una vergine e madre che ha compiuto il miracolo, che a questo corpo di giovinetta ha ridato la vita. Ma questa vergine non è quella delle sacrestie, ma la grande Natura onnipossente.
La risuscitata torna a Parigi. Con lei ritorna Pietro Froment con un convincimento di più ed una fede di meno; la piega della sua bocca ha un contorcimento di dolore e quasi di nausea e la parola religiosa della madre va perdendo la fiducia di lui; la ragione sta per sopraffare la fede.
E comincia la seconda prova nella seconda città. Roma.
Pietro Froment pensa che è necessario difendere la fede. «Io, dice, sono oramai sacerdote; io sono prete credente e sincero; voglio dimostrare che la religione di Cristo è ancora buona a qualche cosa e scriverò a tal uopo un libro, intitolandolo: La religione novella. È necessario a ciascuno ed a tutti una fede magnanima per il trionfo della vita». Sorretto da questa fede Pietro Froment si domanda nel suo libro: Donde può venire la grande parola rinnovellatrice se non dalla città dei sette colli festanti, se non dalla città eterna attraverso la storia degli uomini, se non dal Vaticano?
Ma il Vaticano aveva mancato alla grande promessa di Cristo. Il suo libro fu dichiarato eretico; quel libro che doveva domandare in nome dell'umanità il realizzarsi del regno della giustizia, che doveva per tutti gli umili ed i sofferenti guadagnare un posto al gran banchetto della vita. Questo libro – aveva pensato Froment – dovrà ricevere il suo battesimo a Roma; da Roma dovrà partire il nuovo verbo! E invece «vada retro Satana!» gli si grida dalle mezze coscienze spaventate. Il libro viene percosso dalla sacra scomunica e messo all'Indice, come succede a tutti i libri dei sacerdoti della verità, si chiamino essi Leone Tolstoi o Emilio Zola.
Froment, maledetto e messo all'indice per la sua Roma nuova, in cui è dimostrato il dissidio fra la religione di Cristo e la religione del Vaticano, riproduce la lotta fra Leone Tolstoi e il Santo Sinodo di Pietroburgo.
Come Tolstoi, Emilio Zola è stata un'anima pugnace nel mondo; – come Tolstoi rappresentava la letteratura che si fa senso morale. Questi due genii rappresentano oggigiorno la più pura espressione della verità che si ribadisce di sacrificî. Il Santo Sinodo in nome della religione ortodossa, o la Congregazione dell'Indice in nome della Infallibilità pontificia inventata da Pio IX, possono bene scagliarsi contro la verità: ma la ragione dominatrice combatterà e vincerà le sue battaglie coraggiose, ed il vero finirà sempre col debellare e sfatare l'assurdo.
Pensa Pietro Froment: La religione nuova che io predico è appunto quella che può salvare la fede! Strana predicazione è la sua! Il Vaticano non ha nè può avere orecchi per la verità, nè per ciò che le si avvicini.
Alcuni, e fra questi Giovanni Bovio, han detto che il libro Roma non è uno studio esatto di ambiente. Può darsi: ma il libro su Roma, più che uno studio della Capitale italiana, religiosa, o politica, vuoi essere lo studio generale e sintetico di ciò che è lo spirito umano in questa epoca nostra di transizione. In Roma c'è infatti la sintesi dei tempi nostri. Ecco perché Pietro Froment scomunicato, dal Vaticano, offre spettacolo di un così straziante conflitto psichico e di tale accasciamento al lettore, ed ecco perchè il libro su Roma si chiude tanto melanconicamente.
Però non è Pietro Froment che perde la battaglia. Chiamato egli ad abiurare il suo libro dinanzi al Papa, è costretto bensì a cedere alle torture morali fattegli subire dal Pontefice; ma assistiamo eziandio ad un significativo e strano fenomeno di trasposizione psichica. Il pontefice esce rimpicciolito dalla vittoria dei suoi dogmi millenari, che fasciano il suo pensiero come le bende fasciavano le mummie dei Faraoni. Il pensiero ribelle di Froment si erge nella stessa sconfitta con una rivendicazione luminosa, come già si levò Galileo sulle meschinità dommatiche dei torturatori trionfanti della sua carne, quando lanciò il grido fatidico: Eppur si muove!
Così si chiude la seconda città, e si apre la terza: Parigi.
Parigi è un crogiuolo di miserie, di lagrime, di fulgori, d'ideali, di lotte gigantesche. In Parigi Pietro Froment si getta con una fede nuova a lavorare, a studiare. Qui egli spera di poter esercitare l'unica ultima fede rimastagli (ed in cui si rifugia pauroso) della sua religione, di esercitare cioè la Carità e la Pietà. Egli aveva cercato d'intorno a sè, nel sacerdozio parigino, un altro prete che credesse nella carità, e l'aveva trovato nell'abate Rose, un'anima semplice e buona, non destinata certo a salire alcun gradino della gerarchia che mena al cardinalato, povero per troppo donare, eppure paziente e dolce come i primi cristiani che avevano circondato il biondo Rabbi di Nazareth. Ma quando questo abate Rose dice a Pietro Froment che tutta la religione di Cristo consiste nel dare, egli, Froment, questo sacerdote della bontà, deve rispondere ancora una volta accenti di ribellione: «Ma quanti lo sanno fare?» Dove troverà questa virtù fra i sacerdoti, suoi commilitoni in veste nera? «Quod superest date pauperibus!» disse Cristo; ma le sante parole son rimaste lettera morta.
Ed ecco che Pietro Froment una sera s'imbatte, visitando una stamberga di Parigi, in un povero morente di fame. Un uomo disteso sopra un po' di paglia col viso annerito, stava immobile, rivolto verso la parete umida. Era il cane umano, il produttore della ricchezza che aveva costruito tante case, tanti castelli e tante ville ed era rimasto senza un cantuccio per morire in pace; e ciò senza che coloro per cui egli aveva lavorato si avvedessero di tanta miseria, o ne sentissero rimorso, essi che abitavano i palazzi senza essersi certo imbrattati mai di calce, senza aver mai messa una pietra su pietra, nè granello di sabbia su granello di sabbia. Froment, alla vista di quell'avanzo d'uomo morente in una topaia privo di ogni soccorso, pensa e dice: «Se la carità cristiana non si rinviene più fra i sacerdoti, può darsi che si trovi ancora nei laici. Non troverò io un'anima pietosa fra tanti, non sacerdoti ma pur sempre cattolici apostolici romani?»: C'è la baronessa Duvillars, così nota nel mondo elegante cristiano; sarà lei la fata benefica! Ma la baronessa Duvillars nè buona né cattiva, è come le foglie, direbbe Giacosa, va dove la porta il vento; la sua anima, in fondo, è indifferente ai mali altrui. Ella possiede troppo, e come può accorgersi di chi non ha che poco o nulla?
La distruzione intanto passa sul suo palazzo baronale con la bomba che l'anarchico Salvat fa esplodere nell'atrio, dove sventuratamente non riesce che a squarciare il ventre d'una figlia proletaria. Ma la Duvillars non sapeva o aveva dimenticato l'odio che nasce dalla miseria; e, in mezzo all'oro vero o falso della opulenza, amava darsi l'aria di caritatevole. Perciò Pietro Froment va da lei, non con la bomba, minacciosamente o tragicamente, ma con la dolcezza e la persuasione; e in nome della fede in cui pur essa crede, le dice: «Vengo a raccomandarvi un povero muratore vecchio, senza pane, senza letto, senza fuoco e senza nulla di ciò che più gli è necessario». «C'è il ricovero di mendicità!» gli si risponde. «Fatelo rinchiudere là dentro, allora; ma subito!». La baronessa che fa parte del comitato del ricovero, promette; ma poi aggiunge: «Manterrò la promessa; bisogna però convocare prima il Consiglio d'Amministrazione, aspettare il turno, seguire le norme burocratiche. La burocrazia, diamine esiste per qualche cosa!» «Ma quell'uomo muore di fame, è necessario passar sopra alle formole!». Fiato sprecato! L'arida lettera della legge (oh, quante scelleraggini non si commettono in suo nome!), le formalità giuridiche, le regole gerarchiche hanno le loro esigenze: – la baronessa non cede. Eppoi, c'è una passeggiata quel giorno ai Campi Elisi; la baronessa deve andare alla passeggiata, e non può perder tempo. Intanto la bestia umana muore. La mattina seguente c'è un pranzo di gala; e la sera appresso la première d'una rappresentazione a cui la baronessa deve assistere per mostrare le opulenti sue nudità. Il vecchio lavoratore può languire ancora un po' e aspettare ch'ella abbia tempo di pensare alla beneficenza. Per bacco! a morire c'è sempre tempo...
Ma finalmente l'ordine è trasmesso di accogliere il vecchio nell'ospizio dei pezzenti; Froment ne è contento e, sicuro di questo permesso, va per metterlo in esecuzione. Corre a Montmartre, sale nella topaia, scuote il disgraziato, lo chiama.... Invano! La carità cristiana e borghese è arrivata troppo tardi, prevenuta, preceduta dalla morte!
Allora, il sacerdote della giustizia, della verità, dell'amore si ribella in Pietro Froment. È la stessa voce della madre che parla nella sua carne e nella sua mente, e suona dolcissima nel suo cuore. Essa gli dice: «Io fui religiosa per la carità buona! Ma se da la fede cristiana anche la carità è bandita e non le rimane che la morte, allora, o sacerdote, o figlio mio, che io procreai per la vita, lanciati nella vita!». Ed ecco cessa il dissidio tra la forza della ragione e la forza della fede, e l'una si sposa all'altra. Pietro Froment, l'uomo moderno, non segue più la regola del convento, e dinanzi a Parigi seminata d'oro e di luce, mentre la miseria geme in basso, gitta la bruna tonaca ed abbracciando finalmente, rotti gli indugi, la fanciulla che ama, Maria, le dice: «Noi siamo nati per la vita e vivremo per amarci: ed in Parigi, dove fremono dolori e miserie, noi saremo il padre e la madre degli umani evangelisti della città nuova di fecondità, di lavoro, di verità e di giustizia!».
Così si chiude la serie delle Tre città e comincia quella dei Quattro Evangeli.
Il primo libro parla di Matteo, il credente nella Fecondità.
«Perchè procreate tanto, plebei senza cervello?» grida la scienza reazionaria per bocca di Malthus. Ed essi rispondono: «Perché per noi oggi non c'è altra gioia che l'amplesso d'amore, sia pure stanco dopo una lunga giornata di fatica, per confortarci!», in tal modo queste sacre falangi del lavoro vilipeso, del lavoro non premiato con la ricchezza, queste moltitudini che si fanno il numero, che hanno il diritto e la forza, queste moltitudini che si fanno sempre più gagliarde di coscienza, dimostrano che il crescite et multiplicamini non è ancora consiglio da disprezzarsi, parola di vilipendere; dacchè in essa c'è l'affermazione del dovere sociale, della procreazione, a cui i sacerdoti insultano, giurando astinenza, pur meditando, nel confessionale e nelle alcove secrete della donna altrui, lo spergiuro dei degenerati.
Matteo, il padre simbolico della umanità povera e dolorosa che non può procacciarsi tutti i giorni il pane per sfamarsi, sa bene che l'avvenire è della fremente coscienza delle moltitudini, avvenire in cui il pane sarà per tutte le bocche un diritto imprescrittibile. E tale fiducia e speranza nell'opera rivoluzionaria delle moltitudini lo fa essere il credente e l'evangelista della Fecondità.
Dopo di Matteo, viene Luca, il credente e l'evangelista del Lavoro. Come la fecondità è un bisogno imprescrittibile ed un dovere umano che rappresenta l'eternarsi della specie, ha bisogno di lui per nudrirsi e progredire sino a raggiungere i più alti destini dell'umanità. È necessario che la società lavori, anche e soprattutto quando il lavoro non dia più a chi lo fa un risultato negativo, e non sia più conculcazione e miseria per gli operosi e ricchezza per i fannulloni. Il lavoro è un bisogno per lo stesso organismo che dall'attività propria trae la ragione e il mezzo di vivere. Che cosa è la materia attraverso il tempo, se non un meraviglioso lavoro? E un inno al lavoro, l'inno che cantano le cose e la materia eterna, scaturiva da tutta l'attività di Luca Froment. Il quale in opposizione allo sfruttamento ed alla tirannide più esosa crea la sua Città del Sole come avrebbe detto Tommaso Campanella – il tempio della giustizia.
Ma contro lui la vecchia città si erge minacciosa; giacchè è necessario che il sacerdote del vero espii il gran peccato di amore, il peccato di aver detto troppo alta la propria fede. È necessario che contro lui si levi la calunnia, il crucifige; e lo si dica eretico, pazzo, sobillatore, seminatore di odio, nemico di tutte le cose sante!
Così anche a Luca Froment tocca il Calvario. Ma a chi non è toccato il Calvario, fra coloro che si sono fatti sacerdoti della verità disinteressata? Luca Froment in questo suo atteggiamento ribelle ricorda un altro eroe, creazione della letteratura nordica, il Nemico del popolo di Ibsen: il dott. Stockmann, fratello gemello di Luca Froment, cui tanto s'assomiglia.
Il dott. Stockmann, cittadino di una piccola città, da scienziato coscienzioso, accortosi che le acque che smuovono un mulino del luogo, sono inquinate, lo dice a suo fratello, che è sindaco; questi non ascolta il dott. Stockmann, il quale sostiene che bisognerebbe distruggere la cattiva sorgente.
Il sindaco lo accusa di voler rovinare la città, e non gli dà retta; e tutti i cittadini dànno torto e si scagliano addosso a Stockmann, che finisce quasi col perdere la testa.
Pure non si dà per vinto. Nell'interesse della salute pubblica egli convoca un comizio popolare e dice la grande verità, che urta gl'interessi bottegai di molti cittadini, dal sindaco suo fratello sino alla propria moglie.
Ciò gli scatena contro la sollevazione generale, viene vilipeso e chiamato nemico del popolo, e un turbine di ira l'accompagna a casa, con urli e con colpi di pietre. E che cosa fa il dott. Stockmann, pigliando in mano una pietra scagliatagli attraverso la finestra e cadutagli innanzi a piedi? «Vieni con me, – egli dice – o muta e povera testimone dell'imbecillità collettiva!». E se ne va.
Non diversamente Luca Froment. Lo ricordate per la via del Calvario, quando la stessa plebe a cui aveva consacrato l'anima sua gli si rivolta contro e l'accompagna a urli e sassate? Egli ascende per il monte aspro rimanendo tranquillo: e la moltitudine, stretta parente di quella che osannò a Cristo a Gerusalemme e poi disse a Ponzio Pilato: «Crucifige», gli grida: Tu ci hai sollevato contro l'odio dei potenti! E gli lancia contro vituperii e pietre, e c'è perfino chi, novello Caino e Giuda, gli sputa in viso proprio mentre il piede del gigante tocca la cima della montagna.
Il dott. Stockmann e Luca Froment, sono gli immaginarî personaggi della produzione artistica; ma Emilio Zola è invece il «personaggio» vissuto che li ha impersonati nella vita reale.
Tutte le torture piene d'eroismo, dell'uomo che si sacrifica per la sua idea, sono in «Verità», il libro che è storia, più che romanzo, storia di lui oltre che di un epico episodio della lotta moderna per la giustizia sociale.
Egli non potè scriverlo il libro della «Giustizia». Ma se l'avesse potuto, la sua mente ormai evoluta e arditamente libertaria chi sa che cosa ci avrebbe dato! Ebbene, quest'uomo che le mezze coscienze e le Cassandre – fortunatamente non ascoltate – dicono essere morto proprio quando si accingeva a scrivere il suo quarto «Evangelo», quasi per espiare, la pena della sua audacia, quest'uomo non ha scritto, è vero, la «Giustizia» come romanzo, ma l'ha scritto con l'azione, negli ultimi anni di sua vita, col miglior sangue del suo cuore, durante il drammatico affare Dreyfus.
Egli aveva bollato tutte le figure losche e fosche della nostra società, aveva segnato d'infamia tutti i generali invincibili nell'arte di perdere tutte le battaglie, aveva flagellato i bancarottieri, gli Scribi ed i Farisei; aveva preso tutti i criminali ed i parassiti nel palazzo e nella capanna, e li aveva inchiodati alla gogna della sua opera grande. Egli li aveva afferrati bene e li aveva plasmati tutti secondo la verità. Ed era naturale che tutti se ne dovessero ricordare al momento propizio. Triste per lui, allora, quando passò per la Francia quella tempesta di passioni che fu l'Affare Dreyfus! Questo «affare» non era altro e non aveva altro scopo che la conquista della banca israelitica da parte dei cattolici. Era necessario gridare addosso agli ebrei e far pesare su essi la leggenda dei traditori; ed era necessario scegliere appunto in mezzo a loro un capro espiatorio. Ecco come il povero Dreyfus fu portato dinanzi ai tribunali militari, con frase felice chiamati dal nostro Imbriani «tribunali-giberna»; e da questi fu condannato, benchè innocente.
Emilio Zola, che aveva vista e sentita bella la vita, che tale l'aveva profetizzata attraverso i gironi danteschi del ciclo dei Rougon-Macquart e delle Tre città e che l'aveva ricostruita magnifica nel Lavoro e nella Fecondità, era necessario che dovesse concludere l'opera sua con un'ultima sua giornata, con l'opera epica dell'azione di cittadino, più fulgida ancora della sua opera letteraria.
Egli allora prese questo povero capitanuccio ebreo come bandiera, come prova, come documento umano della incivile sopraffazione d'ogni diritto da parte dei parassiti in veste nera e di quelli dai galloni d'argento e d'oro.
Poichè era stata appunto una coalizione fra il Clericalume ed il Militarismo che aveva voluto perdere Dreyfus. Tutto l'alto brigantaggio organizzato di Francia aveva voluto condannare l'innocente pel proprio interesse di casta. Emilio Zola vide in quel momento emigrare dal mondo la giustizia vera; ed allora, in nome dei tanti umili conculcati, domandò per la innocenza non pietà, ma giustizia e disse e condannò: Io accuso i potenti!
Ma essi ti travolgeranno; gli si rispose. – Io accuso! ei replicò. «Ma le stesse moltitudini ti copriranno d'odio». – «Io lotto non per conquistarmi il favore dei popoli, ma per conquistare ai popoli la giustizia; quindi accuso gli oppressori, accuso i conculcatori, accuso gli sfruttatori!». No, certo non era stata tanto bella e tanto grande l'opera letteraria di Emilio Zola, quanto grande e bella rifulse la sua opera civile nel giorno in cui, riaffermando la sua requisitoria innanzi alla Corte d'Assise, fu condannato per aver difeso la giustizia, e vide a maggior suo onore così, come si dice nel linguaggio dei legulei, macchiata la sua fedina penale. In quel giorno fu scritto il libro della Giustizia. Chi può pensare diversamente?
Allora Galileo e Cristo parlarono in lui e in lui si maturava la storia.
Ai derelitti in nome della grande resurrezione della vita, dall'inferno dei patimenti e dei triboli, egli disse la promessa di amore e insieme la minaccia delle ire giustiziere e vendicatrici; allora dalle sue labbra uscì la grande parola di giustizia, ed egli apparve più alto di tutti i pennacchi di coloro che avevano dovuto condannare Dreyfus.
Emilio Zola rappresenta di fronte alla modernità la grande anima del genere umano. Esponendosi alle violenze dell'odio cieco e brutale delle moltitudini, mentre amava la propria patria desiderandola amica di tutte le altre patrie, non voleva che nella sua terra si divulgasse la stupida, feroce e vigliacca leggenda sulla inferiorità e criminalità degli ebrei; e assurgeva così a un concetto generale di giustizia, di pace, di amore per tutti.
«Fratelli nel bisogno della verità, è in nome vostro che io accuso tutti coloro che in diversa forma possono rappresentare il trionfo della prepotenza. Contro ogni prepotenza io mi ribello e la accuso come artista, come pensatore, come cittadino del mondo!».
Ed è in questo atletico atteggiamento che l'eroe è morto per un accidente volgare.
Il compianto universale per la morte di lui non fu cagionato da un solo speciale atteggiamento della sua personalità; ma da tutte insieme le sue opere. Non la sola voce del romanziere, nè quella del poeta e neppure soltanto la voce incisiva dell'accusatore, ma la grande voce delle molte cose che egli intese, giunge alla mente ed al cuore nostro; è la voce degli infiniti dolori che seppe raccogliere; è l'urto tragico dei miserabili, che rese in una maniera più vera di quel che non seppe fare il più grande cittadino dei nostri tempi, Victor Hugo; perchè Zola seppe spiegare la grande bandiera dei soldati della vita, la grande bandiera della Francia e della umanità, e su quella bandiera seppe scrivere le memorande parole che si ripercossero dovunque:
LA VERITÀ È IN CAMMINO, E NESSUNO LA POTRÀ MAI ARRESTARE!
Rosignano Marittimo, novembre 1902.