Pietro Gori
Ceneri e faville
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Ceneri e Faville

PER UN MONUMENTO... CHE NON SI FARÀ

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PER UN MONUMENTO...
CHE NON SI FARÀ

Riprendiamo dunque il discorso11. Giacchè Mario Foresi, lo scrittore arguto e gentile riattacca l'argomento, coi ritmi marziali ed imperialisti della vieille garde...

Un abusato motivo, al di qua del canale, incontrò fortuna financo nei rigagnoli più opposti della politica locale.

Il leitmotif, che il Foresi pure accenna con le sordine, dice in sostanza: Napoleone sconfitto e relegato nell'isola d'Elba dai potenti d'Europa, rese celebre il nome dell'umile scoglio; per conseguenza gli Elbani del secolo XX devono... a lui un monumento.

Se l'esservi egli stato per forza è cosa degna di statua, il merito ed il monumento spettano ai prefati potenti.

Ma l'argomento parve sì... bronzeo sin da principio, che la statua, in quella tal maniera plasmata, sta maturando per volere di Turillo Sindoni e della redazione di un qualche... rospo volante locale. Gli isolani non dovran durare altra fatica che quella di versare le parecchie diecine di migliaia di lire occorrenti a far sorgere la considetta mole Sindoniana, ove si inalzava il capolavoro di Benvenuto Cellini. Un quesito: con la faccia rivolta alla chiesa od alla prospiciente... pagoda?

Almeno Mario Foresi, oltre ad esigere severe le misure degli Elbani prima di accettare la esibizione di cotesta creta, che si vuol vantare opera d'arte, ha ben altra lealtà.

Egli affronta nettamente il problema storico ed etico, con premesse e conclusioni, che noi combatteremo con la stessa franchezza da lui posta nel dettarle. Sente bene il bisogno il valido scrittore di rivendicare la complessa figura del Condottiero dalla letteratura pettegola, che notomizzò la sua veste da camera, per constatare le inevitabili debolezze e contradizioni dell'uomo; e da tale rivendicazione egli deriva la opportunità di rievocare la sua figura fisica e morale nella gloria del bronzo o del marmo. Ancora una volta: fu vera gloria la sua?

Il cristianissimo poeta, pur sotto il fascino della balenante epopea, che si chiudeva nella triste arsura di Santa Elena con la morte del vinto imperatoreimperatore nel senso più fieramente latino della parola – non esitò a porre dubitativa ai posteri la sentenza, su quello e su questo.

E tra i due poli estremi, da quelli che al par di Leon Tolstoi negano a Napoleone financo il genio militare, a quelli che come Mario Foresi gli attribuiscono persino il merito di avere, sia pure indirettamente, contribuito all'unità Italiana, col formare, quello spirito pubblico patriottico e marziale, che egli alitò su tutta la terra – stanno gli imparziali, che a distanza di un secolo possono equamente giudicarlo, appunto perchè lontani dalle passioni del suo tempo: ed anche astraendo dalle idee dominanti della civiltà contemporanea. Non v'è dubbio che la potenza del suo intelletto culminò nelle arti dirette alla conquista ed alla dominazione.

Romano contro Roma egli vagheggiò la egemonia Francese nell'impero del mondo, quando Diderot aveva già parlato ai secoli non anche nati, e Babeuf aveva reclinato sotto la ghigliottina la testa aureolata da un grande sogno di giustizia.

Chi lo nega? Sui gonfaloni del primo Console radiava tuttavia la dichiarazione dei diritti; la gigantesca fiammata Gallica, che incenerì il vecchio regime, aveva acceso nell'anima umana un immenso bagliore aurorale, ed i prodigi dei sans-culots, sgominando l'Europa feudale, avean visto inchinarsi al cominciamento della novella istoria la sovrana fronte di Volfango Goethe. E l'eroe d'Austerlitz che aveva scosso il torpore d'una società morente con le folgori dell'uragano plebeo, ormai guidate dall'aquila rapace, galoppava sul fronte delle corrusche legioni verso un suo delirio d'asservimento dei popoli alle cupidigie della sua famiglia, ed agli orgogli della sua stirpe.

Questo è purtroppo inesplicabile: che la voragine rivoluzionaria, la quale inabissò i miti ed i violenti, e vide fin sul petto irsuto di Marat balenar la lama di Carlotta Corday, lasciasse poi stemperare nei crepuscoli di termidoro il pugnale di Bruto.

Vero: se Napoleone fosse caduto allo zenith della sua parabola, come Giulio Cesare, la contesa sulle sue responsabilità storiche sarebbe assai meno aspra; perchè i suoi idi di Marzo avrebbero tolto ai regi lupi, che avean tremato al ruggito del leone, ogni pretesto a decretare con la sua prigionia, la prigionia dell'evo e dei principii, da cui egli era serto a battaglia.

Agli occhi dello storico imparziale il Còrso tragico non è che l'epilogo fatale del dramma ingenuo dell'89 e di quello epilettiforme del '93.

Innanzi a quelli dell'antropologo e del filosofo positivista quel piccolo corpo dalle concezioni e dagli appetiti immani, riproduce in grado eccelso uno di quei sistemi nevro-cerebrali, in cui il genio confina con la follia.

Hanno ben ragione il Soresi ed il Corradini da lui citato, a trovar proprio d'un imperatore e d'un generale il linguaggio, che Cesare Lombroso raccoglie dalla bocca di Napoleone, come l'esponente del suo senso morale.

Dice l'imperatore: «Io non sono un uomo come gli altri». Ed il generale aggiunge: «Che cosa sono per me duecentomila uomini?».

Certo, troppi generali hanno pensato e detto la cinica frase di Bonaparte. Ma non è scientificamente più giusto, accusarne anche gli altri generali, piuttosto che assolverne Napoleone? Accusare, nelle investigazioni scientifiche, non è che constatare le cause psicopatologiche delle azioni umane. E tali investigazioni, nel campo della psicologia del militare di professione, hanno portato molti spiriti temperati a giudizi ben severi sull'efficacia negativa, che l'arte della milizia esercita sugli animi più retti nella formazione di quelle abitudini mentali, che restano poi norma della condotta individuale.

Che dire poi dell'abisso morale che tale influenza d'educazione e d'ambiente, apre nelle menti minate dalle forme di frenosi, sieno pure avvampate dal genio?...

L'anormalità di quei sentimenti e di quelle espressioni può apparire normale e logica nella ragion d'essere del soldato e del conquistatore di professione.

Anche il pazzo morale di cui parla Mausdley in un suo libro profondo sulle malattie mentali, può sembrar logico dal suo punto di vista, nella spaventosa risposta che al medico, il quale lo interrogava sul perchè egli avesse ucciso il suo vicino di letto.

«Perchè esso russava, ed io non potevo dormire...».

Sinchè la forza soltanto debba decidere delle sorti dell'uomo e delle società, avrà sempre ragione il manescogenerale o masnadiero – quando riesca ad abbattere l'ostacolo sia d'uno o di duecentomila petti viventi, tra lui e la preda agognata: impero o portafoglio.

E che cosa più delle due caratteristiche frasi di Napoleone, dell'imperatore e del generale, può evidenziare la deformazione etica del comun senso di pietà, e di quel rispetto alla vita altrui, che i codici esigonopena anni di tormento e di ignominia – dal volgo dei normali, e che le leggiadre consuetudini d'ogni tempo lasciano impunemente calpestare a Cesare od a chi agisca e parli in nome di lui.

– «Che sono, per il semi-dio, duecentomila uomini?».

Nulla più che un ponte palpitante di carni spezzate dal cannone e dai fucili meravigliosi, una purpurea scalea per la quale il gran capitano possa salire al soglioOttaviano alla clamide imperiale.

Ma avvicinar la psiche eroica di Napoleone a quella di Garibaldi come pretende il Corradini, soltanto perchè l'uno e l'altro sapean vincere battaglie, è far violenza alla serietà d'ogni scienza, e ad ogni filosofia della storia. Che analogia può esservi tra il duce, che conquista reami per donarli alla piccola gente del suo parentado, ed il guerrigliero, che disvincola un popolo per ingemmare, col gesto ingenuo d'un fanciullo, la corona all'erede di chi l'avea dannato a morte obbrobriosa, per quella sua follia unitaria di cavaliere errante di tutti i diritti vilipesi?...

L'ombra di questo, che di tanto si infutura, se cavalca verso il passato, è per incontrarvi Cincinnato, che alla sua terra, consacra il sangue, da cui può talvolta nascere la libertà, ed il sudore da cui dovrà germogliare il pane.

Il fantasma di Bonaparte deve cercar la sua gloria, galoppando a ritroso verso le età cruente, in cui la più alta virtù civica si laureava nella strage di ogni nemico d'oltre muraglia.

Gli può bastare, per monumento, la piramide di scheletri, che il suo genio disseminò sulla terra, e per requiescat il grido, non anche spento, di tanti petti materni.

* * *

Ma è la guerra, non altro, che si vuol glorificare in Napoleone. La seconda parte dell'articolo di Mario Foresi infatti squilla come una fanfara d'attacco.

Vero è che i potentati, malgrado i brindisi gravidi di quos ego procellosi, riducono ormai la guerra ad una schermaglia di libri verdi ed azzurri, e son marescialli di campo i cancellieri arguti come Von Boulow, od i pacifici borghesi come... Pichon.

Guglielmo come Abdul-Hamid comprendono che il cozzo degli eserciti moderni e delle flotte fulminatrici può essere un giuoco spaventevole, ed un osceno macello a grandi distanze, nel quale la freddezza calcolatrice di Togo può aver fortuna contro ogni avverso valore, fosse pur sulla tolda nemica Nelson, senza la contro insidia dei siluri e degli affondamine. È lo strumento che domina, più assai di chi lo adopera, ogni possibile mischia di terra o di mare.

Ma ormai tutta una letteratura, tutto un sollevamento di spiriti battaglieri empiono il nostro cielo, striato dal fumo e scosso dal fragore delle macchine, con un vocio di rivincita contro chiunque persista a credere ch'è sempre un giuoco d'azzardo l'affidar le proprie ragioni alla punta d'una sciabola od alla bocca d'un moschetto. Salvo a trovare abominevole, se quell'arma fu maneggiata o scaricata da una miseria o da una disperazione insondabili.

E più d'uno scrittore romaneggia contro la vigliaccheria nostra, contro la poltroneria della nostra epoca così poco... epica.

Ah, la guerra!... Non è scomparsa, ahimè, dai nuclei umani. Lo diceste, e noi pur da vent'anni lo andiamo dicendo essa ha cambiato d'aspetto. Lo sterminio, dai campi di battaglia, ha invaso quelli dell'economia e del lavoro.

Voi li vedete i suoi morti senza apoteosi, i suoi mutilati senza conforto, i suoi vinti senza pane.

Ma noi lottiamo per affrancarci pure da questa guerra a colpi di frode, a tattica di spogliazione pacifica, a strategia di untuose imboscate.

Sì: noi abbiamo paura di questa guerra, e di quell'altra, che a voi è sì cara – non perchè una goccia di sangue ci faccia svenire – ma perchè i salassi sui popoli e sugli individui sono ormai roba da mattatoio, non da clinica.

Credete di offenderci, quando dite che la guerra ci fa l'effetto di una lama nel nostro proprio ventre? Ignorate forse le caratteristiche anestesie fisiche e morali dei delinquenti e degli anormali, per recarci quasi a stigmate d'inferiorità questa sensibilità di pelle e di cuore?... A voi dunque la guerra fa il cristiano effetto di una lama nel ventre... degli altri?'

Ah, voi volete, che la gente impari a morire?... E perchè prima non insegnarle... a vivere?...

Scuola di vita, non di morte. Liberazione anche da quest'altra insidiosa guerra di industrie, di prodotti, di commerci, di concorrenze; non provocazione di quella, che il Foresi chiama la sana guerra fortificatrice e sceveratrice, abusando poeticamente dei raffronti con le tempeste oceaniche... Per spazzar via il putrido e l'ammorbante delle società frolle e caduche, se mai, bastano le rivoluzioni. Ma a queste, secondo gli amici della guerra, che sono sempre dalla parte dell'esercito... regolare, i tropi della bufera che purifica, non possono calzare, anche se a Vittore Hugo esse parvero le sole guerre giuste, e quindi benefiche.

Fortificatrice la guerra, perchè scatena sui non guerrieri tutte le delizie contemplate dal codice penale – dall'omicidio al saccheggio, dall'incendio al ricatto – con la consolazione per le vittime della immensa ruina, che la morale bellica riuscirà a trasfigurare tutti cotesti reati in azioni più o meno magnanime?.. O fortificatrice perchè, col risveglio degli istinti belluini scambierà per prodigi di valore ogni atto di disperazione, che la paura della morte suggerirà al sopraffatto, od ogni inutile crudeltà, che la vendetta guizzante dal torrente rosso, strapperà dalla mano del vincitore?

Sceveratrice forse con la sua cecità di folgore? O tale, perchè provoca una selezione della specie proprio a rovescio, col mietere i più giovani, i più robusti, i più validilasciando a piangere sugli ossari incoronati dall'amaro e sterile alloro il superstite bulicame delle donne, dei vecchi, dei fanciulli?...

Che l'agonia di uno o quella di mille significhino moralmente la stessa cosa non è che un luccicante paradosso uscito dalla penna, non dal cuore di Mario Foresi. Una morte violenta moltiplicata per mille non moltiplicherà, è vero, per la stessa cifra di dolore individuale – ma rappresenterà sempre una violazione più vasta e profonda delle leggi biologiche ed etniche, che presiedono allo sviluppo delle nazioni e delle razze.

Così pure: gli omicidi più o meno involontari commessi dall'industria moderna, nella sua febbre di produzione, non potranno mai far desiderare anche quelli che largamente perpetrerebbe la guerra, divenuta essa pure una scienza il cui scopo è di uccidere quanto più si possa, senza essere uccisi.

Eliminare l'una e l'altra forma di distruzione: ecco il problema di una civiltà superiore.

Che la guerra sia stata un tempo una funzione anche utile di fagocitosi sociale, oltre che un fenomeno fatale della lotta per la vita – che vi sieno state o che vi possano ancora essere conflagrazioni inevitabili di popoli e di interessi, come vi furono guerre generose di riscossa, su cui ondeggiava, come labaro, una grande chimera di libertà – non vuol dire che si debba inneggiare alla guerra, come ad una leva di inalzamento materiale e morale – e molto meno che si possa sentire il bisogno d'una esaltazione marmorea di colui, che della guerra, senza contenuto ideale, rimarrà nei secoli personificazione e simbolo.

Per la storia delle grandezze terribili bastano il libro, il museo, la pinacoteca, o, tutt'al più la necropoli.

Ma sulla piazza, vogliamo ripetere, non ci deve esser posto che per il grandeggiar di memorie, da cui si esprima una luce di pensiero od una opera perenne di verità, di vita, di bellezza.

Il navigante affaticato, nella eroica ed oscura lotta con le furie dell'infinito, cercherà con gli occhi sulle sponde dell'isola l'umile faro, operoso di salvazione pur nel suo silenzio immoto.

Sempre più basso di questo sarà – se ci sarà – il simulacro di chi per un anno non calpestò questo suolo, che travolto da un incubo di fuga e di rivincita.

Il sopraggiunto, dinanzi a quell'improbabile ingombro entro la cinta: cosmopolitana, aguzzerà la mente sul sapiente scritto, che i posteri avranno scolpito nello zoccolo – meno male – di granito marcianese.

Egli non lo intenderà. Storia di un anno e d'un uomo così lontano!... Si guarderà attorno.

I fratelli del monte, e quelli della marina, e quelli della miniera dove scolpirono la rubesta storia dell'eroismo umile e fattivo, la storia secolare della piccola stirpe, gli aneliti dei petti, le glorie del solco, i misteri del baratro – i sospiri, le gioie, gli spasimi dell'anima isolana?

Dove questo bronzo; dove, Elba madre, questo monumento alla tua vera storia, così grande di semplicità, dove quest'inno scolpito alla realtà innocente della tua vita?...

Dove, dove?

Portoferraio, novembre 1908.





11 Vedi articolo precedente inserito nel primo volume di Ceneri e faville col titolo: «A di un monumento» dal giornale «Ilva».



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