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Di contro al delirio imperialista, che affebbra anche le intelligenze più elette – potrà sembrar minuscolezza mentale sdegnarsi per una frase, anche se questa, per amor di contrasto epico, calpesti tutta la fama di bellezza e di cortesia d'una terra, e della sua gente.
Così avvenne che Alfredo Oriani, uno scrittore d'altronde dei più forti e lucenti della nostra letteratura contemporanea, nell'esaltare di questi giorni sul Giornale d'Italia i cruenti fantasmi del grande e del piccolo Bonaparte, trovasse la sua efficacia lirica nel chiamar l'isola d'Elba (sia pure di un secolo fa) angusto refugio di pescatori, ergastolo di delinquenti sopra, galera di minatori sotto terra.
Ora, mentre per la probità storica giova ricordare, che ai tempi del primo Napoleone, l'isola gentile non era ancor letificata da alcuna casa di pena – da tempo immemorabile le vene ferrigne di lei conoscono il lungo salasso del piccone o della mina, allo scoperto, nella gioia grande ed aperta del suo cielo e del suo mare.
Ma che è tutto ciò, a dir del Giornale d'Italia chiosante una vivace lettera di Riccardo Tondi, di fronte alla risonanza conseguita dalla ritmica frase con un duplice e poetico tradimento della storia e della verità?
Ed a più documentare la allegra ignoranza dei facitori di pubblica opinione in Italia, il giornale… della medesima, commentando un telegramma di protesta del sindaco di Rio Marina, fa addirittura degli otto comuni Elbani un comune solo, concedendo a pena che queste proteste isolane valgono solo a far manifesto... un rifiorimento dell'Elba.
Ah questa principale (non unica, sindaco Giannoni!...) ricchezza Elbana, questo nostro ferro mirabile, che il vasto seno dell'Isola profonde da secoli alla attività umana: eccolo il problema di legislazione e d'equità, che i sapienti d'Italia ignorano, che gli stessi Elbani obbliano – che il vostro rappresentante politico, o elettori dell'isola, non si peritò a dileggiare in un comizio clandestino: eccolo – questo da vero – il ceppo ergastolano che il nuovo regime italico, rinverniciando gli odiosi privilegi di regalìa, ribadì e mantenne a violazione della proprietà del sottosuolo, non a beneficio delle popolazioni indigene, ma ad usurpazione stataria, che fuse nel crogiuolo unitario questa ritorta fiscale redata dal medio evo.
Ma ciò, si capisce, non è eroico – e non può interessare gli smidollati leggitori della penisola, abbacinati ormai dagli epicinii della imperial politik; non è la clamide d'un sepolto conquistatore da resuscitare alla vita, alla gloria della contemporaneità cavallerescheggiante coi fantasmi più violenti e tragici del passato. Per essi non possono avere importanza questi problemi, pure immanenti nella ora pigra, queste inezie, che pur sono il pane e l'onore del nostro popolo fiero e gentile, il quale pur di questo angusto refugio di pescatori potrebbe fare una sua piccola terra di letizia, se la patria più grande non ne spremesse, senza proporzionato compenso, il succo migliore – se gli uomini di lei, che più validamente parlano o scrivono, troppo della gemma Tirrena non ignorassero, o non obliassero – o fin anco non deturpassero la nozione, nella pura essenza sua di beltà e di gentilezza, e non ne insultassero, per amor di un sonante troppo, il nome leggiadra.
Galera forse, anche sotto il grande raggio del sole, per le ingiustizie onde i sopravvenuti della industria tormentano i muscoli e le coscienze dei minatori o degli abbrustoliti cucinieri della ghisa, che corre come fiume d'oro verso gli abissi delle follie borsistiche; galeotti forse ancora delle sopraffazioni dell'affarismo o della politica da ghetto questi lavoratori isolani strappati alle vigne solatìe, tirati giù dalle tartane eroiche dal fumoso pennacchio tentatore delle ciminiere – e quegli altri venuti da ogni lembo d'Italia a cercare, sia pur tra insidie ed asprezze, il pane agro della fatica intensa a queste scaturigini del ferro, innanzi ad uno specchio impareggiabile di mare, su cui lampeggiano nella notte le fucine di Vulcano, l'artefice spregiato e glorioso che strangolerà alfine, tra i suoi allori feroci, Marte il tormentatore.
Ma stamane l'isola splendeva meravigliosa come mai ai miei occhi ancor pieni di bagliori dell'Adriatico rivisto dopo cinque anni di sofferenze – stamane l'isola, quasi maternamente gelosa, avvolgeva il mio ritornare di tutti i suoi fascini. Ed io richiamavo dagli occhi interni dell'anima i riflessi più scintillanti di mare, di montagna, d'orizzonte, ammirati durante il lungo errare per tutti gli angoli della terra; e lo splendore del suo saluto vinceva tutti i ricordi.
Ah come impallidiva la piccola frase squillante di finzioni letterarie, posta dall'Oriani a piedistallo dello spettro imperiale innanzi a codesta polifonia di vibrazioni, di suoni, di colori!
Questa che fu la non amata terra di confino del despota geniale, serena a torno le bolge della grande industria che or le martella nel seno, levava oggi la granitica corona dei suoi monti sul ponente zaffireo. I suoi golfi, ampi e capaci al refugio di tutte le grandi navi guerriere d'Europa, la cingevano con il grande lavacro della maestralata spumante. E dalle riviere frementi di vita operosa, dai paesetti lindi e fumiganti nel pensoso silenzio delle valli, dalle borgate distese arditamente alla conquista dei flutti lungo il braccio dei promontori saliva nello scintillio immenso dell'estate tirrena, tutto un balenar di vigore e di bellezza, e la visione possente s'incorniciava in una teodia trionfale di granito e di ferro.
Noi le vedemmo, e le sentimmo, pur tra le naturali dovizie dell'isola, le tristezze e le angustie dei suoi figli, che sudano alla miniera od ai crogiuoli immensi del minerale, o rischiano l'esistenza sulle fragili navicelle.
Ma per difenderne le rivendicazioni sacre, noi non sentiamo, come lo scrittore Cesareo, il bisogno d'impastare la tavolozza nei profondi pozzi del Germinal Zoliano, in cui pur siamo scesi di persona negli anni operosi dell'esilio; e per glorificare un morto, fosse pure il più grande, ci guarderemmo bene dalle iperboli rovesciate, che potessero offendere una umile ma nobile terra, o recar, sia pure involontario, nocumento a coloro che ci vivono.
Ed ecco la gioia e la gloria che sull'Elba proietta lo scherno dell'Europa legittimista d'un secolo fa, quando di lei fece domicilio coatto e reame al vinto di Neuilly. Il miglior profitto che un pubblicista d'ingegno possa ricavare dal ricordo storico, sarà la umiliazione del luogo ove l'imperatore fu confinato, per la maggior glorificazione della vittima illustre.
Perchè certo i suoi occhi d'aquila, i quali pur ne bevvero per più d'un anno dal tramonto all'aurora, mai benedissero i fulgori di questo cielo e di questo mare. Di ben altro sogno purpureo, essi ormai corruscavano dopo l'ascensione prodigiosa sui troni e sui mari di sangue. Non aveva voluto provar la voluttà della grandezza vera, qual per lui la rimpianse il massimo poeta della Italia moderna…
O solitaria casa d'Aiaccio
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . .ed ivi
lanciata ai troni l'ultima folgore,
date concordi leggi tra i popoli,
dovevi, o Consol, ritrarti
tra il mare e Dio, cui tu credevi.
Napoleone, come i suoi apologisti, vide la leggiadra isola Tirrena, con le luci fredde del conquistatore – i bei golfi, l'alpe austera, le campagne apriche, la stirpe gagliarda e cortese non ebbero sorrisi da lui, che aveva parlato da duce Romano ai vertici millenari delle Piramidi. Il piccolo piede imperiale calpestava fremendo la arena del beffardo dominio; e ne sentiva angusti al galoppo del suo destriero di guerra i lidi, come le muraglie di una prigione.
E come una prigione, forse, egli maledisse l'isola, che Victor Hugo amava e chiamava, come quella di Guernesey, austera e soave.
Adesso alcuni isolani ed uno scultore meditano per l'Elba una statua di Napoleone, cui in questi giorni il re d'Italia si recò, a visitare, e (dicono) volle encomiare.
Qual nuova antitesi letteraria troveranno gli imperialisti della penna, perchè il simulacro del nume bellico vieppiù giganteggi sul verde scoglio, che gli dovrebbe fare da zoccolo?
Attendiamo dunque il monumento.
Portoferraio, 9 luglio 1909.