Pietro Gori
Ceneri e faville
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IN MORTE DI DOMENICO BIGESCHI

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IN MORTE DI DOMENICO BIGESCHI14

Dir di Lui degnamente sarebbe inane sforzo – mentre ancor trema nei sensi e nell'anima il grande vuoto per la sua scomparsa e più acuti pungono i ricordi dell'antica e recente intrinsichezza con Lui. Queste note scomposte e concitate non sono che il battito dolente di un cuore, che fu fratello a quel suo sì ben fatto, a cui una perfidia di natura troncò i palpiti, nell'età dei maturi propositi e delle virili opere.

Le memorie risalgono lontano, verso la prima giovinezza, verso la comunanza dei primi studi, dei primi tripudi, dei primi sogni che avemmo comuni, in quella palazzina dimessa e luminosa innanzi al grande viale delle tamerici, sul mare, in Livorno, ove la ruvida tenerezza di mio padre, e la dolcezza inestinguibile di mia madre vegliarono per un anno su di noi, come su due figli. Quel legame d'intimità non si spezzò mai più. Così oggi il superstite spirito fraterno, innanzi alla gelida immobilità delle forme, ove l'altro ebbe atteggiamentinobili ed alti, vorrebbe rievocare di quella bella vita infranta gli atti e gli accenti. L'amicizia e la ricordanza non si chiudono nel sepolcro con le salme, o si lasciano ad ingiallir, come le corone, sulle lapidi. Esse restano a perpetuar nella vita chi della vita fu degno... Usque ad mortem et ultra...

***

A quell'anno di vita, che si chiuse per noi con la licenza ginnasiale, seguì una estate luccicante di esuberanze, di fantasticherie, d'impeti giovanili, qui sull'ampia conca di turchesi in colata – a cui eravamo tornati egli alla sua, io con la mia famiglia. E nella sua casa così tradizionalmente ospitale in faccia alla piazza allor tutta sole, in retaggio quasi storico di nobiltà, che aveva ugualmente sorriso ad ospiti di sangue reale, ed a bruni lottatori colle procelle marine, il giovinetto effondeva la intensa vigorìa d'una adolescenza fiorente di pienezze fisiche e di squisitezze morali, tutto un rigoglio di promesse ben lontane da questo imprevisto e brutale attanagliarsi del morbo nefando a quelle sue già floride carni, auspicanti una esistenza coronata da sana e lieta vecchiezza.

Lo scolaretto s'era, nelle regate nazionali dei velieri incrocianti in quell'anno sul superbo triangolo d'acqua, trasformato più che in un azzimatello yachman, in un abbronzato demonietto, conoscitore e padrone delle carezze e dei tradimenti della raffica. Non so perchè innanzi al suo presente sfacelo fisico quella sua personcina vigorosa di marinaretto, trionfa ancora, su tutte le reminiscenze di Lui, sul vivo riflesso di quell'estate lontana, nel trionfo ceruleo dell'età in cui gli occhi bevono tutte le luci, tutti i colori delle cose.

E io ricordo, alcuni anni più tardi, nella spensieratezza della vita goliardica all'università di Pisa; lo rivedo gaio nelle notti lunari sui lungarni, popolati di ombre e di fantasie immortali, lo risento col suo riso schietto e cristallino nelle comitive dei compagni in gioia; lo riascolto, con la dolce e carezzante parola, nelle ore della mestizia comune.

Il maggio decorso i superstiti di una nostra follia coreografica danzata vent'anni or sono sugli echi del canto goliardico, onde gli studenti vaganti empivano di letizia la caligine dell'evo medio e tristo – una vasta giocondità collettiva, che Pisa più non vide – i già maturi condiscepoli del tempo inobliabile, vollero rivedersi, riabbracciarsi all'ombra della cara torre marmorea. Un pensiero delicato dei convenuti venne sull'ala dell'elettrico, a portare il bacio degli antichi compagni a due assenti: all'invalido, che scrive – ed a quell'altro, che comincia a morire.

È ancora il balenìo di quelle aurore e di quei meriggi, che rende più cupo questo crepuscolo, su cui batte, vieppiù maledetta, l'ala della morte.

***

Egli fu, quale i presagi della sorridente puerizia, quale le promesse della gioventù traboccante di affettività, lo avevano annunziato alla famiglia Elbana, del cui ceppo i suoi maggiori furono un antico e robusto ramo, ricco di fiori e di frutti per la dignità della stirpe.

Fu un giusto, ed un buono. E alle doti del sentimento sovranamente squisito si accoppiavano quelle d'una intelligenza pacata e tranquilla. Io la ricordo quella sua mentalità, pur senza scatti soverchi della fantasia, sin dai banchi della scuola, aperta a tutte le bellezze del conoscimento, avvezza a tutti i più saldi equilibri della ragione.

Quanti alti ingegni, talvolta traripanti negli atti più contradditori, avrebbero potuto invidiare la probità intellettuale, la coscienza equanime, la dirittura rigida che guidarono le azioni tutte di Lui, nella vita pubblica e privata, e che di Lui imposero l'ammirazione affettuosa ad amici ed avversari. E gli amici amò di un affetto, intessuto di prove leggiadre, agli avversari, anche ai più indegni, mai rispose con la parola aspra dell'odio.

Egli non conobbe l'odio. Ecco perchè nessun odio contamina la alta ondata di dolore, che amici ed avversari stringe oggi accanto alla sua bara.

Giacchè in simili figure, come in simboli viventi di bontà umana e di umana gentilezza, si compiace nell'ora degli addii supremi, purificarsi l'unanime sentimento d'un popolo.

Ed il popolo della città marinara, che serba nel cuore la intima fraternità del sorriso di Lui, e quanti nell'Elba lo conobbero o ne udirono apprezzare le nobilissime doti civiche e familiari comporranno il soave ricordo di Lui nella parte più eletta dell'animo.

E pur quelli che nell'isola, ivi nati o da altra terra venuti, i quali alle durezze gloriose della miniera e dell'opificio curvano la fronte madida di sudore, onorino senza esitanza la sua memoria.

Che s'Egli non militò sotto bandiere di avanguardia politica; se la sua opera non si esercitò in teorismi popolareschi (ahi quante volte lontani dal disinteressato amor delle plebi!...) l'animo suo ebbe tenerezze paterne per i miseri, e dolorò sulle ingiuste sorti delle moltitudini laboriose, troppo spesso vittime dell'ozio parassitario dei pochi e dei meno degni. Perchè questo gentiluomo di chiaro lignaggio – l'ultimo forse dei gentiluomini Elbani – ebbe profonda e naturale benevolenza verso gli oscuri, verso i plebei, verso i fattori umili o pur grandi d'ogni civiltà e d'ogni progresso. E tutte le volte che accettò cariche pubbliche, da consigliere comunale e provinciale ad assessore e sindaco di Portoferraio, fu ognora con riluttanza, per quel raro senso di modestia, che distingue gli ottimi dagli antropozoidi della politica o dell'affarismo, e fu sempre in momenti in cui vi fossero asprezze da affrontare, che egli poi superava con quel suo finissimo tatto, a cui non erano ignari gli scatti generosi e le sdegnose fierezze: lampi di rivolta morale rasserenata presto dal dominio di una indulgenza e di una dignità, sovrane sempre negli atti maggiori e minimi della sua vita.

Quando poi venivano gli onori, come dopo il laborioso sindacato in cui si erano vinte le innumeri difficoltà per l'impianto degli alti forni di Portoferraio, tramutata in un baleno da tranquillo porto di cabotaggio in fremente fucina di attività industriale e commerciale. Egli, natura semplice nella affascinante signorilità nativa, si affrettava a dimettersi, si traeva chetamente in disparte – al suo lavoro professionale, in cui portò un'attività immacolata ed intensa che valse ad attizzare i germi del male contratto. Tornava alla quiete della famiglia adorata, ed alle ombre amiche della sua villa delle Grotte, che udirono le sue risate di fanciullo, e che ieri su l'afa del meriggio accolsero l'ultimo anelito di quel petto, finalmente acquietato, dopo gli schianti affannosi di questi lunghi mesi, nella pace estrema...

Sfiorò il sussurro di quella bocca che si chiudeva per sempre le fronti presaghe della sorella e del figlio, che stavano per giungere dal mare?…

Sentirono, venuto su le ali magnetiche dell'affetto, l'addio di quel cuore che si spegneva, sulla riviera boscosa, i due venienti al passar per il golfo, nell'ora medesima della morte?...

Come fulgoreggiava l'estate sulla villa occhieggiante dalla mareggiata di verde profuso giù sino alla scogliera e come trillavano giocondi gli alati ospiti nelle quercete solitarie innanzi a questa dimora del pianto!... L'ironia eterna dei contrasti faceva salire al labbro la bestemmia...

Ma come una serenità diffusa da quella che era stata la esistenza di quell'uomo, e che ancor si diffondeva dalle linee affilate ma ricomposte del suo bel viso, empiva tutti i vani della casa e del parco; come una forza eroica contro il fato, ancora una volta crudele verso la bontà e la giustizia, vinceva la disperazione dei cuori. La eroica fermezza che Egli sapeva opporre agli strazi del male nefando, il mirabil coraggio che Egli aveva insegnato, sorridendo del pericolo, a quelli che trepidavano per Lui, che tremavano per le previsioni ferali, le premure delicate che Egli aveva perchè i suoi non soffrissero del suo soffrire, tutto vibrava a torno, anche più solenne della sua morte, ad esaltazione di ciò che Egli fu, sino all'ultimo, nei più intimi atteggiamenti della sua abnegazione e della sua bontà.

Ah sì, Egli non voleva morire e lottò per vincere, per rimanere lunghi anni ancora accanto alla compagna gentile dei suoi anni migliori; tutto pensoso della educazione dei figli, che adorava.

E si difese ma senza un lamento, senza una parola di trepidanza per la sua sorte: con la muta desolazione che dagli occhi, fattisi più grandi ancora, gli traboccava, di non poter baciare le sue bambine.... Ah quegli occhi sbarrati nel desiderio ardente d'un bacio, d'un bacio solo – prima di morire sulle labbruzze amate... Voi non conoscerete mai, povere orfanelle, la rinunzia grande e lacerante al diritto di quei vostri baci, più santi d'ogni viatico...

Ma quegli occhi, o piccine, si chiusero per sempre, forse sognando per voi la carezza di altre mani, – dopo quella dolce materna, l'altra dello sposo e dei figli – e lasciando al maggiore, più che gli averi materiali, un retaggio altiero di onore e di affetti, scintillanti come rugiada sotto le aurore foriere, perchè i virgulti crescano al par di semprevivi al suo nome ed alla sua memoria, perchè il vecchio ceppo non si inaridisca.

Anche, se la tradizione familiare vorrà che i riti religiosi dei suoi avi accompagnino le spoglie di lui, alla tomba, noi non seguiremo il volo misterioso di quella che fu la sua bellezza corporea e morale verso l'ignoto, che altri adora ed a cui inalzano preci espiatorie.

Noi, pur rispettando le fedi sincere, coltiveremo di Lui la sopravvivenza spirituale nella realtà del bene, ch'Egli operò come un bisogno della sua natura; lo vedremo ancora nelle cose belle che amava, lo ameremo nei pensieri e nei sentimenti, che nella essenza più che nella forma avemmo con Lui comuni, lo sentiremo ancora nelle voci fresche di quelli da Lui nati, e nel rimpianto di quanti – dalla vedova affranta ai conoscenti lontani – per un lungo domani parleranno di Lui.

Ed Egli rivivrà, dagli atomi sognanti nella bianchezza del sepolcro alto in vista del suo mare, nella lucente serenità di questi orizzonti, da cui attinse la dolcezza del sorriso e la purezza della esistenza.

Nell'istante in cui uscisti dalla vita, o fratello, ti sentimmo ancor più vivo e presente nei cuori nostri.

E tu per noi non morirai, se non quando essi cesseranno di battere.

Portoferraio, 20 luglio 1909.





14 Dal giornale «Ilva».



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