Pietro Gori
Ceneri e faville
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Ceneri e Faville

UN MESE DOPO IL DELITTO

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UN MESE DOPO IL DELITTO

Il sangue oramai è ben raggrumato in fondo alla fossa, tuttora ignota, in cui Francisco Ferrer fu buttato da' furtivi fratelloni della mala morte. I quattro moschettieri, che gli spezzarono il petto, han già cacciato dai sogni gli ultimi spettri di quell'atteggiamento e di quell'accento, così impavidi nel grande addio alla vita. Don Alfonso, a mentito discarico di complicità, ha congedato i maldestri bandoleros del ministero Maura: ed ha richiamato al potere i cosiddetti liberali... non meno borbonici degli altri.

La superba fiammata, che all'annunzio della condanna e della fucilazione, accese di sdegno la coscienza collettiva del mondo, e divampò in una ira magnifica di moltitudini, si andò estinguendo nei focherelli delle loggette clandestine.

E la civiltà, questa corruscante civiltà delle rivoluzioni tecniche e borsistiche, crederà d'aver pagato il suo debito, col murare qualche lapide e dedicare qualche via al nome dell'innocente fucilato.

Innocente di fronte al sozzo atto d'accusa, che lo rinviò innanzi alla Corte Marziale, come reo di istigazione all'incendio ed al saccheggio dei conventi: fiero sì di quella, che era la sua vera colpa agli occhi delle fraterie di Corte e degli episcopati, d'aver voluto con la tenace opera sua e col suo denaro aprire in faccia alle scuole ove strisciano le ombre di Sant'Ignazio di Loyola e di S. Alfonso dei Liguori, quelle sue Escuelas Modernas in cui il conoscimento della vita deve farsi alla mente del fanciullo, non per le rigide nozioni d'un dogma, sia esso religioso, morale, o scientifico, ma con un metodo razionale di indagine, che renda attive e coraggiose, nella libertà ad esse concessa, le facoltà del pensiero e soprattutto educando il cuore ai sentimenti di quella convivenza fraterna, a cui si incamminano, pur tra così bruschi rimbalzi di ferocia atavica, le affaticate società umane.

Poche volte la prepotenza stataria, nella sua lunga catena di errori e di colpe, ha come in queste sue crudeltà militaresche di Catalogna fidato nel dominio delle forze cieche ed inconscie, sulle quali si regge ancora la vecchia impalcatura sociale, ma giammai, come questa volta, la buona anima del mondo ha fatto sentire possente la sua voce in difesa della vita d'un uomo. E se non riuscì a salvarlo, è perchè quei briganti di Madrid precipitarono la esecuzione della sentenza, con la fretta d'una imboscata.

Non vorrei, nel confronto, offendere i briganti, gente valorosa e terribile ma qualche volta cavalleresca ed umana sarebbe giusto confonderli con codesti Tartufes della vieja Castilla, pronti ad impugnare l'aspersorio per convertirlo in istrumento di tortura, od a capovolgere la croce per configgerla, come una spada, nelle carni di chi non s'inginocchia alle loro deità terrestri o celesti.

Ah, mio vecchio Don Miguel, la cavalleria della tua terra ha ormai il suo ultimo ricorso, in cotesta comicità domenicana che s'intinge tragicamente nel sangue – e gli hidalgos postremi della sua gloria, dopo le botte che presero nel West-India dai maialari d'America, pensarono rifarsi un po' di nome sulla pelle bronzina degli infedeli, nella Mauritania irreduttibile.

Ma Sancho Panza, o Cervantes immortale, non segue più con la fede di un tempo codesti cavalieri dalla triste figura – e tu attenderesti invano di ripetere innanzi alle paludi de' Marchica, con codesto reuccio di Spagna, il colloquio epico da te avuto con Giovanni d'Austria, dopo la battaglia di Lepanto. Quando a lui rispondevi: «Di due sorta, signore, hanvi poeti; quelli che compiono e quelli che cantano le cose grandi».

Ma allora anche i bastardi dei re e degli imperatori si crociavano, e' combattevano corpo a corpo, per una loro fede, per una loro chimera, lucente nella caligine dell'evo. Evo truce senza dubbio; tempi atroci senza riscontro nella storia. Ma crudeltà quelle sto per dire sincere, nella mentalità ascetica dei persecutori, e nella violenza abituale dei costumi d'allora.

Pur nell'igneo delirio degli Arbues e dei Torquemada balenava la rettitudine feroce del fine: quello di purificar la terra, dall'empietà del pensiero in perpetue contese col dogma; ardendo senz'altro i pensatori. Era un vasto ritorno collettivo della belvinità antropoide, che funestava ed insanguinava il mondo. Ed ogni ragione, ed ogni diritto non potevano brillare che sulla punta di una spada o d'un pugnale o nel capriccio del prelato e del principe.

***

Il secoletto vil che cristianeggia, come il Carducci bolla l'epoca nostra, ha nelle sue epilessie letterarie o politiche, nei suoi ritmici ritorni medioevali al saio del frate od al pennacchio del giudice guerriero, tutte le sguaiataggini del pagliaccio da circo. Anche nella ferocia non riesce sconcio. Guardate in quella svergognata frode, che fu convenuto chiamare il processo Ferrer.

Dal punto di vista esclusivamente giuridico, come scrive Giovanni Rosadi acutamente sul n. 42 del Marzocco «il dibattimento non è stata che una triste commedia a soggetto politico giudiziario, nella quale ciascuno ha esercitato egregiamente la sua parte: l'accusa il suo torquere leges ut torqueant homines, i giudici il loro inter arma silent leges; il governo il loro si hunc dimittis non es amicus Caesaris» una sola parola, oltre quella dell'imputato, si levò animosa e calda di umano sdegno, quella del difensore, capitano Galceràn, a smascherare gli occulti maneggi dei partiti conservatori, che chiedevano la vita dell'odiato educatore.

Certo questo soldato il quale, comandato ad una pura parata verbale in quel simulacro di dibattito, sente formarsi nella onesta coscienza la convinzione e poi la sicurezza della innocenza del suo difeso, sino a prorompere in quella fiera e limpida carica contro la selvaggia procedura seguita per sopprimerlo, e nella superba invettiva, che si alguna vergüenza habia en el Tribunal, esso non si sarebbe reso strumento di vendette religiose o politiche: questo soldato, che rovinava così il suo avvenire professionale per rispondere al grido della sua anima, vale da solo tutti gli eroi più o meno autentici della campagna nel Riff.

Ma i giudici non ebbero vergüenza: pudore, rossore, vergogna (giacchè queste tre cose può significare codesto castigliano vocabolo) furon banditi da ogni più piccolo atto del tristissimo dramma.

i più alti poteri dello Stato, cominciando da quello supremo, ebbero maggior vergüenza di chi dettò la condanna.

Si direbbe che al di dei Pirenei si sia ripetuto quell'incredibile cataclisma morale, che non molti anni prima aveva travolto in una condanna iniqua Alfredo Dreyfus, e suscitato nel popolo francese, pur così generoso, una vera follia di persecuzione contro chiunque ne pigliasse le difese. Anche allora preti, e soldati, per odio all'ebreo, intorbidarono l'affaire sino al mendacio, alla corruzione, al falso.

Come nel caso Ferrer il pretesto era l'ordine pubblico e la pubblica incolumità manomessi e violati, in quello Dreyfus era stata la sicurezza nazionale dallo spionaggio minacciata.

I gesuiti francesi, non potendo mettere a morte con un buon auto-da-fe l'aborrito giudeo (responsabile, come si sa, dell'uccisione di Cristo, commessa... dai suoi pro-avi) e per la architettata reità del quale si volevano riaccendere le lotte confessionali, avevano rimescolata tutta la poltiglia legittimista e clericale delle caserme galliche, per insozzarne il malcapitato. Ed erano, in realtà, riusciti a renderlo antipatico anche alle folle.

Le stesse macchinazioni i gesuiti di Spagna avean posto da tempo in opera contro Francisco Ferrer e contro gli istituti di educazione e di istruzione razionalista da lui fondati.

Egli dopo l'attentato della Calle Mayor aveva sfuggito al primo agguato tesogli; ma dopo le rivolte di Barcellona, lo sfondo tragico, in cui s'erano mescolate le insurrezioni morali disinteressate, e quelle torbide della miseria, si prestava troppo a collocarvi l'alto rilievo di codesto uomo, che era la personificazione di tutta una lotta fredda e metodica contro la fitta rete delle influenze cattoliche, strapotenti in Spagna, dalla scuola alla regia. E quell'altorilievo scomunicato diventava un ottimo bersaglio per i mauser del re.

Ah.. il re!... Quando gli parlarono della sentenza, forse tornava con gli occhi sollazzati dal sangue fumante dei tori, da una qualche corrida, fulgida sopravvivenza d'una pittoresca barbarie iberica, o da un volar d'aeroplano, beffardo d'ogni altezza e d'ogni maestà. Ah... il re!... Mi par di udirlo:

«Aquel bandido de la Calle Mayor?.. Senores, hablamos, de la corrida...».

***

Scrivere fa biografia dell'uomo? Ciò non è possibile, con serenità storica; quando echeggia, ancora nella commossa coscienza contemporanea il rimbombo delle fucilate, che dell'uomo fecero scempio – mentre da quelle carni messe a brandelli, la figura morale dell'ucciso esce esaltata ed ingigantita nel quadro di quella eterna tragedia del pensiero, che nell'educatore Catalano ha avuto il suo più recenteahimè non il suo ultimo martire!

Ma egli fu anarchico, nel senso più puro della espressione nel paese dove la violenza stataria si attorciglia in una più aspra tradizione di servitù e di prepotenza – egli fu agitatore razionalista nella palude spirituale del dogma, e fondatore di scuole laiche, fra quella selva di conventi e di congregazioni, che irretiscono ancora la terra di Filippo II. Fin dall'attentato di Matteo Moral egli era una vittima predestinata. E lo sapeva: il che rende vieppiù inverosimile una instigazione di qualsiasi natura, per parte sua nei moti della Catalogna.

Alcuni giornalisti, credendo di provarne la innocenza, escludevano ch'egli forse anarchico. Ed è così che si serve la causa della reazione, inconsciamente. Giacchè se si proverà, che un imputato di violenze materiali, professa le dottrine filosofiche, per le quali uomini come il Kropotkine e il Reclus divennero principi della scienza, pur dichiarandosi anarchici, si dovrà concludere che quell'accusato è autore di quei fatti. E sarà sempre per le opinioni che uno potrà essere condannato.

Altri giornalisti hanno trovato che il Ferrer non era simpatico alle folle; dimenticando che egli non appartenne mai al manipolo dei cercatori d'applausi o di suffragi, e che il lavoro di elevazione mentale e morale dell'infanzia proletaria a cui si era dato spendendo il suo denaro e la sua persona non era il più adatto a metterlo in vista delle moltitudini, ancora schiave della pirotecnica frasaiuola anzichè seguaci della cultura razionale ben più liberatrice che non sia la formula. Che ci vuol dunque per essere simpatici a codesti paladini del trono e dell'altare?

Fare sgretolar le proprie rendite dai frati e dalle monache, od anche dalle virtuose di caffè concerto è secondo essi, più saggio – che intendere con tutti i mezzi intellettuali e materiali, coi quali altri cercherebbe rendersi lieta la vita, alla formazione d'una gente nuova, d'un popolo reso libero da tutto il bagaglio delle bestialità pietrificate nei dogmi della rivelazione e della vecchia scolastica, gettando le fondamenta d'una, vigorosa coscienza collettiva sulle granitiche alture, aperte verso tutti gli orizzonti della vita e della verità.

Ma questa sua animosa concezione dei problemi di cultura e di elevamento morale – lo ricordino i mandarini della letteratura timorata e savia – si collega a tutto quel sistema scientifico e filosofico, che porta la indagine e la critica all'esame di tutte le cose dichiarate insindacabili, dalle istituzioni per quanto venerande sotto il grigio cemento dei secoli, alle tradizioni per quanto care sotto le ghirlande intessute dai ricordi o dalle abitudini. E questo sistema, certo rivoluzionario, ma senza dubbio il solo veramente eroico nelle correnti ideali moderne, che è razionalismo nella scuola, e anarchismo nelle lotte politiche – e tanto più anarchico quanto meno armato di pugnali o di bombecostituisce l'aculeo più audace ed operoso nei fatti e nelle idee di questa nostra civiltà in combustione; e rappresentastrillino pure i questurini della opinione pubblica ben pensante – la più valida molla del nostro cammino in avanti..

Questo bisognava dire, ben chiaro, non per classificare il nuovo martire nel calendario d'una chiesa piuttosto che di un'altra. Ma per stabilire appunto che egli appartenne a se stesso ed alla legge intima dei suoi convincimenti; per fissare ancora una volta questa ironica verità: che codesto idealista dalle libertà spirituali sconfinate serviva con sacrificio e disinteresse una sua fede, una sua opera austera di edificazione d'intelletti – quando fu ghermito dalla prodizione della ben tramata accusa, travolto da codesta beffa sanguinaria di frati confessori e di capitani generali. A tradimento giudicato, condannato a tradimento con una procedura da pelli rosse. E a tradimento assassinato sull'orlo d'un fosso; senza che i giudici avessero avuto l'anima di leggere in faccia al mondo, che fremeva, la sentenza nefanda.

Ma quell'assassinio, udiste Don Alfonso, fu perfettamente legale.

Pure di fronte a questo delitto, che i facinorosi dell'ordine tentano ancora giustificare, noi non sentiamo guizzare nelle nostre anime le ataviche febbri della vendetta. Positivisti anche al ritmo di una poesia ben più alta delle povere strofe che ci sfuggono talvolta dalla penna, sentiamo nell'oscuro giuoco dei contraccolpi sociali il sibilo di qualche rimbalzo di piombo, verso i petti di chi tanto ne fece disseminare su bersagli umani: ascoltiamo salire un battito di cuore gonfio del proprio e dell'altrui dolore, vediamo un braccio levarsi dalla foresta misteriosa ed innumere delle braccia ignote... E colpire.. in alto...

Chi è che cadde?... Chi fu che colpì?... Arrestatelo, frugateloguardate con lo straccio di che libro fece stoppaccio all'arma.

Ebbene? Quando il sangue a pena asciugato nei fossi di Montjuich avrà chiamato altro sangue – e come un fato di tragedia Ellenica trascinerà il primo sconosciuto in rivolta a scagliarsi contro chi uccise; si inquisirà ancora una volta sul nesso tra l'atto e la dottrina di chi lo commise.

Ma nessuno vorrà riconoscere che l'esplosivo plebeo fu calcato con lo stesso foglio omicida sul quale quei tre gentiluomini della Corte Marziale di Barcellona vergarono la clandestina sentenza contro Ferrer. E il padre confessore si guarderà bene di sussurrare al capezzale del morente il cristiano: Qui gladio ferit, gladio perit.

Forse perchè quell'altro invece che di spada ha ferito di moschetto, ed or muore di rivoltella.

Ma nell'austerità dell'ora, noi leviamo lo sguardo dai sobbalzi della Nemesi ascosa nella multanime risacca degli odi e dei tormenti sociali – e non vediamo che la magnifica certezza, la quale fu viatico al morituro.

Francisco Ferrer incamminandosi verso lo spalto infame, poteva ben dirlo al frate molesto:

«Mi lasci, reverendo, non ho bisogno dei suoi conforti».

Gli fasciava lo spirito, imperterrito e sorridente per gli occhi e carezzevole nei motti cortesi, gli raggiava sulla fronte una serena virtù di presagio.

La civiltà moderna a cui fu buttata in faccia come provocazione del medioevo la salma insanguinata del martire; levi in questo giorno espiatorio gli occhi alla visione che sorrise innanzi alla incomparabile dignità di quel sacrificio.

Egli aveva sentito, in quell'istante di raccoglimento presso al distacco supremo, tutta la maggior grandezza della filosofia, che effonde la immortalità e la continuità della vita in una comunione superba dell'attimo coi millenni nel sempreterno, e dell'atomo umano con la esistenza infinita della stirpe. Si era accostato al misterioso trapasso del suo essere con quella religione superiore di chi ha lottato per tutta la vita al trionfo delle verità tangibili; ed allo spianarsi dei moschetti da cui doveva uscire lo strazio delle sue carni, ed il balzo nella tenebra dell'inconscio, aveva, più tranquillo di Gesù, non solo perdonato agli esecutori meccanici dell'assassinio (perocchè anch'essi non sapevano ciò che si facevano) ma li aveva incorati a mirar dritto, coronando con un motto di razionalismo eroico l'apostolato di milite meraviglioso e dimesso della scienza e della ragione.

Ma l'ultimo grido fu ancora la confessione del suo magnifico delitto: Viva la scuola moderna!...

E il grido, nel chiarore attonito di quel mattino autunnale, squillò puro come un vaticinio sul crepitìo secco dei mauser fucilatori; passò i fossati poltigliosi di fango e di grumi sanguigni, volò oltre le muraglie e le trincee, roteando sulla città stretta da una morsa di ferro e di terrore. E si irradiò, col rimbombo di mille tuoni, per tutte le vie della terra.

Non urlo di moribondo era quello; ma voce di resurrezione. E ne tremarono i banditi, che quella morte aveano voluto.

Egli non voleva, non legava ai violenti, ai giusti, ai liberi che questa terribile vendetta: ricostruire la scuola, la sua scuola; la scuola onesta e forte di tutte le razionali conquiste della modernità. Ricostruirla, come una fortezza di verità, come una rocca di bellezza ideale, contro tutte le antiche cittadelle di superstizione e di prepotenza: rifabbricarla innanzi alle officine fumose, perchè i figli di chi lavora apprendano che la ricchezza sociale non è che il prodotto della fatica e dell'ingegno umani; innanzi alle caserme, perchè i giovani a cui domani verranno poste in mano delle armi, sappiano che gli altrui petti son sacri, che le altrui vite, cittadine o straniere, son preziose alla civiltà, agli affetti, al progresso; e che la guerra non è che una delirante, reversione verso la crudeltà e la brutalità primitive – innanzi alle chiese, infine, perchè i fanciulli imparino che non un premio celeste deve stimolare al bene, ma la sicurezza che dalle opere utili e buone verso la convivenza civile si avvantaggierà materialmente e moralmente l'individuo e che non il timore d'una pena, occorre a rendere odioso il male, quando tal si considera ogni azione dannosa ed ingiusta verso gli altri, come un'offesa alla solidarietà della specie, dal cui sviluppo e dalla cui felicità dipendono lo sviluppo e la felicità dei singoli.

E la sua fede austera nel trionfo indeprecabile del vero, anche se acre conto le illusioni dell'antico sogno eliseo, la poesia severa del sacrificio consapevole ardevano come fiaccole votive su quell'argine più tragico d'una vetta solcata dalle folgori, più solenne d'un altare nelle pasque più dense di simbolo – e quella coscienza diritta e temprata ad una milizia ben più fiera di quella soldatesca, che la violentava di morte al semplice abbassarsi d'una spada, si tendeva con l'impeto d'un arco schietto verso la riedificazione giustiziera, verso una gigantesca rinascita della sua opera umile e lucente di dissodatore e seminatore fiducioso.

Rivoluzione certamente di cui era stato arciere mansueto e convinto in quel suo profondersi a liberare le piccole menti dalla tirannia dei pregiudizi, dal servaggio dei fantasmi dell'al di , dal crepuscolo delle mezze verità foderate di menzogna; rivoluzione spirituale indispensabile, perchè i servi liberati dalle catene della dipendenza economica, e dalle pressoie della invadenza stataria non rimanessero liberti, anzichè integrare la loro libertà economica e politica in una più eccelsa libertà degli intelletti.

Rivoluzione infine più grandiosa di quella che non sia il semplice rovesciare decrepite istituzioni ed infrangere secolari barriere di iniquitàgiacchè queste e quelle appunto sul crepuscolare stato di inscienza delle moltitudini credule e servili fondano ogni loro possanza di dominio e di sterminio: e guai alle rivoluzioni che non sono al tempo stesso trasfigurazioni della vasta anima collettiva e che non piantino la bandiera, prima che su mine fumanti, su legioni di volontà sorrette da una grande energia di bene, e illuminate da una viva luce interiore.

In questo ardente soffio di resurrezione freme inassopito l'estremo anelito di Francisco Ferrer.

Dalla rivista Il Pensiero


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