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Ceneri e Faville LETTERE VARIE | «» |
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Ai compagni anarchici ed ai repubblicani di Fabriano.
Invitato dagli amici di codesta gentile città; venni di gran cuore sperando che la mia povera parola portata in libere adunanze di popolo, quali quelle che in Fabriano si tenevano per onorare Giuseppe Mazzini, avrebbe, tenendo alta la bandiera della mia fede sociale, contribuito a dissipare degli equivoci deplorevoli tra le idee degli uni e quelle degli altri, pure conciliando gli animi dalle consuete asprezze della intolleranza settaria. Ospite oscuro, e pur cortesemente accolto dai promotori della manifestazione, ai miei doveri di ospite io non mancai. Ma potevo io, benchè milite ultimo della legione rivoluzionaria, tacere, quando l'oratore che doveva commemorare Giuseppe Mazzini aveva e con non lieve ironia accennato agli ideali che fanno balda e lieta, anche tra le persecuzioni e le calunnie, la modesta opera nostra di picconieri, che intendono la rivoluzione sociale non elucubrazione infeconda di dogmi o di dottrine povere come fallibili, non grottesca cuccagna di galoppini elettorali, ma battaglia aperta e gloriosa di popolo rivendicante i suoi diritti?
Potevo tacere, quando in bella forma si dava agli anarchici poco men del visionario e del pazzo? Parlai. Ma parlai come uomo libero deve parlare a uomini liberi. Senza sottintesi, ma senza provocazioni. E perchè – se libera era la parola – m'interruppero, e ripetutamente, i cittadini Fratti e Giannelli? Perchè, essi che sono repubblicani, quindi amici di libertà, non lasciavano l'ingrato ufficio di interrompermi a chi rappresentava la P.S. in quella riunione? Perchè il cittadino Giannelli, prima d'accordarmi la parola, volle farmi il fervorino d'essere prudente, e di tenermi nei termini voluti dalla legge, proprio come se fossi un ragazzo maleducato, che parlando la prima volta, non sappia (e ben 17 processi, e non me ne vanto, me lo insegnarono) essere tutta di chi parla la responsabilità delle sue parole? E perchè, allorquando per dolorosa meraviglia, dopo le interruzioni di Fratti e di Giannelli, dissi loro: – Perchè m'interrompete proprio voi, e non lasciate che m'interrompa la polizia? – perchè, o repubblicani, inveite così ferocemente contro di me con tante contumelie e minaccie di morte?
Niuna intenzione, come solo per lealtà dichiarai, c'era in quelle parole mie, d'offendere il partito repubblicano. Niente altro che la dolente protesta di non veder rispettato il concessomi diritto della parola.
E l'avvocato Fratti, che dopo aver raccomandato la pace tra anarchici e repubblicani, mi scagliò, senza colpirmi, il bicchiere, fu egli forse conciliativo e cortese? Conciliativi voi, o repubblicani, che in maggioranza e nel paese vostro, nel parossismo e nell'odio per le male interpretate parole, a me, da pochi circondato, lanciaste l'insulto supremo: Va via strumento della polizia!...?
E a dire che furono tutti opera della polizia gl'innumerevoli processi che onorano la mia oscura vita di militante, e che tre nuovi essa contro me ne sta ora imbastendo in tre parti d'Italia!... Ma gl'insulti del popolo a troppi apostoli di libertà toccarono, perchè osi lagnarmene io, che sono un pigmeo, benchè della verità adoratore!...
Bando adunque alle recriminazioni; e che l'ultima parola che indirizzo partendo da voi, repubblicani di Fabriano, non sia parola di risentimento. Con Antonio Fratti ho una vertenza personale da risolvere. E in un modo o nell'altro la risolveremo tra noi due. Che c'entrano i repubblicani e gli anarchici con questi due uomini? Dobbiamo dunque adattarci a questa miseria morale di veder prevalere le persone alle idee?
Al diavolo adunque codesti avvocati, se il loro dissidio dovesse far divampare odio fratricida tra lavoratori e lavoratori! Ma a voi, compagni anarchici, a voi che mi conoscete, e sapete che mai nulla vi domandai all'infuori dell'onore d'essere accolto come semplice soldato nelle vostre file, principalmente rivolgo questa fraterna e conciliante parola di saluto. Dite agli operai repubblicani che noi, malgrado i loro insulti, non li odiamo. Dite che tutto l'odio nostro è contro il sistema che sfrutta ed opprime il popolo lavoratore. Dite pure che le miserie delle plebi le conosciamo perchè tra quelle passiamo, ignoti araldi della idea, tra la nomade vita. E di queste miserie ravvisiamo la causa, principale e profonda la quale non dipende dalla forma di governo, ma consiste nel privilegio della proprietà, che noi vogliamo convertire da monopolio di pochi in diritto di tutti, col renderla sociale, ed è perciò che siamo socialisti anzichè repubblicani.
Non vogliamo rivoluzione nella forma, bensì nella sostanza – e siccome vogliamo altresì che il popolo non abdichi alla sua sovranità col delegare a molti od a pochi il potere; ma che da sè amministri, a mezzo delle libere associazioni di lavoratori federati, il patrimonio sociale; così pure noi ci dichiariamo anarchici, cioè nemici di ogni ferma di governo. Dite pure ai lavoratori repubblicani, o compagni, che l'uguaglianza vera non sarà possibile, se non allora che tutto apparterrà a tutti e che la vera libertà non sarà rivendicata, se non allorquando gli uomini, tutti i lavoratori uguagliati nei diritti e nelle condizioni sociali, troveranno, nell'armonia dell'interesse di ciascuno con gl'interessi di tutti gli altri, la sicurezza e la guarentigia, che in nessuna forma di governo potrebbero trovare. E dite pure che allora il luminoso ideale di fratellanza e di giustizia, che agli uomini di poca fede parve sogno ed utopia di fronte alla tormentata realtà dell'oggi, sarà un fatto compiuto – e lo sarà principalmente per virtù di coloro che più, e più audacemente; avranno voluto. Così voi, schiera valorosa degli anarchici di Fabriano, quando tra i bei colli si ripercuoterà l'ora solenne delle riscosse popolari, spiegherete la bandiera delle rivendicazioni audacissime e sentendo saldi i petti e gli animi, correrete all'avanguardia e sarete i bersaglieri della rivoluzione.
E forse gli altri, quelli che ci chiamavano sognatori e nei momenti dell'ira perfino agenti governativi –vedendo la carica irresistibile delle nostre schiere contro i baluardi del privilegio e la nostra bandiera piantata sulla vetta suprema del monte fatidico, dovranno dire: Quei ragazzi che noi deridemmo, che molti calunniarono, che la polizia imprigionava, che la magistratura chiamò malfattori, eran davvero i precursori della civiltà umana.
E forse allora, anche i più tardigradi dell'esercito rivoluzionario, tenteranno di tener dietro alla carica epica dell'avanguardia anarchica. Questo direte, ma fraternamente, ai repubblicani ed agli operai tutti che ancora non ci compresero.
Vostro per la vita.
Signor Direttore dell'Amico del Popolo,
Le gazzette forcaiole del bel paese, dove io venni solo per riabbracciare i miei vecchi, si sono affrettate a ripubblicare gli insidiosi articoletti che l'Amico del Popolo e l'Italiano di cotesta capitale, come per mirabile intesa, scagliarono a me lontanissimo, in commento ad alcuni apprezzamenti sull'Argentina, male riprodotti da un giornale di Genova, e panegiristicamente coloriti da un telegramma da Roma alla Prensa che ho pure sott'occhio.
Se la vostra lealtà repubblicana vorrà concedere la parola ad un assente, come sempre calunniato, farà sapere ai vostri lettori:
Che al mio arrivo a Genova non fui, è vero, arrestato – come si stupiva l'anonimo sbeffeggiatore – ma da una coorte di poliziotti amorosamente atteso, e poi sempre imperialmente vegliato, sì che ne schiatterebbe d'invidia lo stesso Czar.
Che mai, nè ora, nè in passato, per principio e per carattere, volli accettare missione, anche la più austeramente scientifica da governo, qualunque esso fosse.
Che, anzi, l'unica volta, che ebbi la debolezza di credere equo almeno in un concorso puramente tecnico, un governo che si dice democratico – fui appunto da quello argentino brutalmente scavalcato nella nomina di professore d'italiano nel Collegio Nazionale di Buenos Aires, dopo una gara di esami da me stravinta.
Che malgrado ciò, non sentii l'imprescindibile obbligo, al mio ritorno in Italia, di aprire una campagna di denigrazione contro il paese che non m'aveva chiuso le porte nell'ora del crucifige, ed in cui avevo lavorato (sì, signor direttore, lavorato assai con la penna e con la parola, ripartendone più povero di quando vi giunsi) come vi avevo lottato ed anche sofferto. Ma quando la Società Scientifica Argentina ponendo sotto il Suo patrocinio alcune mie conferenze di viaggi per l'America australe, mi offrì il modo di ridire anche nel vecchio mondo le immense vibrazioni del lavoro, e del dolore, e delle speranze, tra la superba cornice di bellezze naturali impareggiabili di codesti paesi – accettai riconoscente – e tutto ridirò con la schietta serenità (che neppur voi, pare, mi potete perdonare) ciò che vidi: e vidi, più o meno le flagellanti ingiustizie, che avevo incontrato sotto tutti i cieli, sotto tutte le dominazioni.
Avrei dovuto meravigliarmi, come fa il Barzini, (ahi figlio pur esso d'Italia!...) di vedere anche costà iniquità e soperchierie – quando sputai sangue (e non me ne vanto) per volerla gridare sino ai confini nella Pampa.
Ad un assente, e così lontano, non è agevole schiacciare il capo agli aspidi della calunnia obliqua e vile. Ma sfido tutta codesta serpentaglia, che tenta imbavare il mio nome – a ripetermi in faccia le accuse, non dico di provarle (giacchè il fango gettato contro il porfido torna alla cloaca d'onde ne uscì). Vengano tutti i Marci Porci Catoni, che mi stanno accoltellando adesso alla spalle, vengano a schiacciarmi, fronte a fronte, nella prima riunione popolare che io stesso convocherò costà al mio ritorno.
E se non dimostrerò, che per la millesima volta la vigliaccheria umana, onorandomi dei suoi latrati di can da pagliaio rabbioso e lontano, m'ha reso più forte, più puro, più sereno che mai – vorrà dire che i can da pagliaio si saran fatti leoni – e che il pellegrino, a cui nè ringhio di botoli nè carezze o minaccie di potenti, avean mai fatto indietreggiare, ha perduta la testa e la vita.
Latri a sua posta cotesto canume costà, e morda il mio onore, e il disinteresse e la fede e le cose più care, che formano tutto il patrimonio (sola mia ricchezza) d'affetti, d'odî e di entusiasmi.
Non mi distrarrà certo cotesto guaito d'oltre mare dalla fatica disinteressata e buona, che mi trattiene per poco tempo più, tra le plebi d'Italia.
L'Amico del Popolo darà la parola al contumace?
Ai lavoratori dell'Argentina,
Come parecchie altre volte, e sempre quand'io sono lontano e indifeso, la calunnia dei nemici e dei falsi amici, si compiace dilaniare in mille forme il mio nome. È una vecchia arte, per la quale – al di là dell'uomo – il bieco livor partigiano mira a colpir l'idea; quando non è (nelle file stesse a cui appartiene il calunniato) cieco delirio di mutua persecuzione, che fu ruina di molte rivoluzioni, e sul quale soffiano quasi sempre rabbiuzze ed ambizioncelle insoddisfatte, antipatie indefinibili, invidiette inconfessate.
Anche questa volta bastò che un giornale di costà riportasse, più o meno telegraficamente da un altro di Genova, una intervista fantastica sull'Argentina, fabbricata inesattamente su qualche frase scambiata con un giornalista perchè subito i molti che mi odiano organizzassero contro la mia riputazione un indecente can can di vituperio da una sponda all'altra del Plata; ed alcuni miserabili Sparafucile della penna, si affrettassero a ricamarvi sopra non so qual conferitami carica del governo Argentino in Europa e quale sbruffo (ah, viscido camorrista dell'Italiano da 5 centavos, come puzza di te questa parola!...) che mi dovrebbe convertire in cantastorie ambulante per il vecchio mondo.
Ah dunque non bastano 15 anni di animoso lavoro, tutto spremuto dal cervello e dal cuore, a traverso il dolente sterminio delle braccia e delle dignità umane, sposando tutti i dolori e tutte le speranze delle moltitudini incontrate ed amate nel vasto cammino per il mondo, che divenne la patria grande, quando la patria piccola si fece matrigna – non basta aver sorriso alle minaccie più truci, alle ironie più amare, ai più neri tradimenti; aver rovinato salute e fortuna e vista sfiorir la giovinezza in un ramingaggio faticoso nel quale sola gioia era stata l'idea, l'interno lume solitario, sola ambizione quella di irradiarla coraggiosamente sugli uomini, con tutta la forza dell'amore, con tutta la voluttà del sacrificio?... Non basta, non basta.
Che un furfante passi alle spalle del Rabbi di Nazareth, quando si avvia al Golgota, o dietro la ondata popolare che segue Confucio, o presso il carcere di Socrate – ed a quel furfante venga la voglia malvagia di lanciare al giusto una contumelia, oh da quante bocche non scellerate, eppure inconsciamente infami, sarà ripetuta la trista parola, e il contagio di viltà contro l'indifeso susciterà nella folla il primitivo istinto animalesco dell'uomo, quello di mordere, di sbranare!... Se dunque coteste colossali figure della storia non isfuggirono alla sorte comune – potrò lagnarmi se avviene lo stesso a me, povero milite di una idea tanto più grande, quanto meno compresa da molti, anche di quelli che se ne ammantano?...
Ciò ch'io spero, o lavoratori d'America, è che alle insinuazioni nuove, come già alle vecchie, alcuni di voi, che più da vicino m'han conosciuto, e, malgrado le inevitabili imperfezioni, stimato nella sincerità dei propositi e nell'ardente amor di giustizia, abbian riserbato ogni loro giudizio, a quando il calunniato avrà almeno potuto, così da lungi, e senza che gli sia dato fronteggiar gli accoltellatori del suo buon nome, difendersi?...
Ma io accuso! Accuso cotesti cavalieri della forca, ed i loro staffieri di penna e di viltà, che rappresentano costà al Plata, la importazione più sudicia della criminalità larvata italiana, scappata al codice comune. Non ci voleva che cotesta schiuma di purezza per insinuare ch'ero pagato dal governo Argentino, per magnificare cotesto paese in Europa, quando costà proclamai, in cento occasioni, ed in ogni più remoto angolo della Repubblica e del Sud-America, tutto il marcio che pur costà cola da ogni lato, e che il popolo deve sopprimere con l'energia della sua volontà sovrana tutto il bello ed il buono che egli deve conquistare alle terre ampie e generose, ch'egli col suo sudore feconda.
Accuso quei nemici politici, che ebbero la bassezza di servirsi di codesta incredibile calunnia, per danneggiare non solo l'uomo lontano, ma le idee ch'egli onestamente portò da per tutto, come orifiamma di combattimento, agitandole, in nome del libero pensiero, innanzi ai sanfedisti di Cordoba e di Asunción del Paraguay, in nome della fratellanza umana, in faccia ai patriottardi cileni; e dovunque, dalla cattedra alla tribuna popolare, dalla stampa al Foro, sempre levandosi in difesa dei miseri e dei calpestati.
Accuso quei compagni, che per sfogare le ire invidiosette stettero sempre in agguato d'ogni maldicenza e d'ogni pettegolezzo, aleggiante sul mercato della poltroneria intellettuale, onde colpirmene alla schiena, dopo avermi sorriso ipocritamente.
Sfido tutta cotesta gente a provare una sola delle vigliaccherie, fucinate, per ignoranza, malignità, o perfidia durante la mia assenza; e spero che cotesti Aristarchi verranno a sostenermi in faccia, che io deviai di una sola linea dal retto cammino, quando io rinfaccerò loro, pubblicamente, la viltà dell'aggressione.
A voi soli, lavoratori, a cui appartiene quanto di meglio possono dar tuttavia la mia intelligenza e il mio amore per la causa vostra, a voi soli perdono, se l'onda dei sospetti malignamente agitata vi suggerì il dubbio contro di me. Guardandomi in fronte, al ritorno, vi leggerete l'antica lealtà.
Questa fiera e nobile lettera fu pubblicata nel Verdad di Buenos Aires del 14-15 aprile 1902, periodico settimanale della colonia, straniera nella repubblica Argentina.
On. Redazione del giornale Avanti! - Roma
Al vostro giornale chiedo il tramite della pubblicità, per questa mia lettera aperta
al signor Ministro dell'Interno
È ben oltre un anno, che per istruzioni perentorie e sistematiche emanate dal potere centrale (non ci fu soluzione di continuità da Giolitti a voi) la polizia italiana sta ravvolgendo la mia persona ed i miei atti d'una fitta rete di spionaggio, ch'io credo il record più folle della provocazione e della bestialità.
Poniamo pure, dacchè in Italia e fuori troppi v'aggiustaron fede – con quella forma di correità anonima nello accoltellamento morale d'un uomo, che pare uno stame indispensabile al canevaccio dell'ordine costituito – poniamo pure, ch'io sia il più cannibalesco tra gli agitatori politici ed il più truce fra i maciullatori di carni regali o borghesi, che la nemesi rivoluzionaria abbia mai evocato dagli abissi sociali ed ammettiamo che, per i compromessi internazionali dello Stato italiano, valga a francar la maggiore spesa di indubitabili migliaia di lire sul bilancio, cotesta tacita ed occhiuta grassazione poliziesca sopra ogni mio gesto, strisciante alle mie spalle, a piedi od in bicicletta, che mi accompagna, come la catena del forzato, in piazza ed a palazzo, in comizio ed in tribunale, sul treno e fino all'uscio della trattoria o della mia casa – e che in qualsiasi paese, meno cosacco del nostro, m'avrebbe già offerto il destro giuridico di condurre alla sbarra, come autori di diffamazione continuata e qualificata, cotesti proconsoli vostri, che mi fanno apparire alla gente, che m'ignora, come un serpente inseguito dai gabbieri del serraglio; e ci sarebbe stato di che strappar di mano da qualsivoglia più calmo sceveratore di responsabilità gerarchiche più d'una rivolta clamorosa e legittima contro gli infimi strumenti di cotal novissimo aguzzinato Italico, che mi mette, pubblicamente e fuor d'ogni legge, in ceppi, se non di corpo, certo di spirito.
Ma che si pretende leggere nei miei... talloni?... Nel duplice intento di dimostrare con quanto acume, signor Ministro, in alto, e con qual criterio in basso, si compia cotesta vigliacchetta manomissione della mia libertà individuale, e come a me sarebbe facile, sol che volessi, digerir comodamente mezza dozzina d'orecchie imperiali, prima che giungessero i cicligeri – una volta debitamente distanziati – giocai loro qualche acre burla, quando la pagliacciata degenerava nel grottesco supremo, ed altrove li investii con qualche scatto... verbale, quando la nausea mi rovesciava lo stomaco. In simili occasioni quei disgraziati finivano col concludere meco sulla indiscutibile imbecillità... delle disposizioni venute dai superni moderatori. E fu allora appunto che, qua e là, le ritorte si allentarono.
Ma in qualche provincia cotesto basso e sciocco spionaggio ufficiale, che Giovanni Bovio (a ben altre superbe lotte or mancato!) si accingeva a denunziare in parlamento, trabocca adesso in un supremo ridicolo crudele, che strappa alla mia anima in tumulto questo grido d'avvisaglia.
Centinaia di persone possono far fede su quanto sto per narrare
Con un lento viaggio di sofferenze inenarrabili riaccompagnavo di questi giorni, mia madre esausta, per tanti mesi d'infermità atroce, da S. Marino a questo suo paese nativo.
Ebbene, signor ministro dell'interno; le solite ombre, implacabili di persecuzione inutilmente idiota, ci seguivano di treno in treno, in stazione, in albergo – ci seguirono fin quassù, tra questi poggi solitarii, ove sin dal mio arrivo dall'America bivacca una piccola squadra politica, esclusivamente addetta alla mia... non sacra persona. Ed ogni mattino ed ogni sera che io accompagno la mia inferma adorata a passeggio, in vettura, codesti ciclisti ci sono sulle calcagna – e l'ordine (io potrò agevolmente smentire ogni vostra possibile smentita, signor ministro) vien proprio, attraverso gli androni della prefettura di Pisa, dal vostro dicastero.
È anche vero, che in una crisi straziante che mia madre ebbe lunedì scorso giungendo alla stazione di Montecatini, due di coteste tristi ombre del mio corpo si convertirono in agenti di soccorso e di carità; ma fin la pietà di quei miseri detriti di proletariato italiano mi parve uno schiaffo inconsapevole al terror senile dei reggitori.
Fate come a voi piace, signor ministro, spiare ogni mio atto, ogni mio passo, ogni mio gesto.
Se i rapporti non mentiranno, come è loro costume, avrete documenti ufficiali d'una vita modesta, che se non ha gloria non ha colpe da nascondere.
Ma togliete – non è più questione di pudore – togliete via da questi poggi sereni, dove io vengo dalla mischia, che giù in basso si combatte, ad espiare in una tenerezza infinita presso quell'origliere d'inferma il vecchio mio gran sogno di bene – e prima che qualche trabocco di sdegno non mi travolga dalla protesta civile all'atto di imprescrittibile ribellione – togliete via quelle ombre di persecuzione, che torturano la vita, di Lei... Volete anche, signor ministro, che affrettino la morte di quella madre santa e dolorosa?
Rosignano Marittimo, 15 agosto 1903.
parto da questa cara città, ch'è ormai legata alle memorie più gioconde e più meste della mia vita – con una acre nostalgia delle ansie, delle lotte, persino di quelle due agonie diverse, in quei due letti, in quelle due camerette contigue: il figlio, attanagliato nelle carni e nell'anima, il padre quieto alfine, dopo tante procelle, nella morte.
Perchè quelle cose, pure atroci, in questa antica via San Frediano, dinanzi alla eco gogliardica delle mie scapigliature ventenni ripercossa nelle veglie febbrili, mi parevano ancora come un palpito degli anni migliori, che si estinguesse in quel rantolo, e nei canti notturni dell'anno morente, e nel ritorno di quel mio vecchio eroico, immacolato come la neve dei suoi capelli, verso i poggi del Tirreno, in quel mattino tutti bianchi anch'essi di neve; ritorno verso il sogno supremo, presso la sua compagna, che fu pure maternamente eroica.
E perchè su tutta cotesta mestizia di cose immensa era passato in cotesti due mesi indicibili, pure in contrasto inevitabile con umane cupidigie, un grande alito di gentilezza umana, una gara disinteressata e superba in difesa di due esistenze: e da Giovan Battista Queirolo, il clinico insigne, a Rinaldo Cassanello, il chirurgo valorosissimo; dall'esimio dottor Ferruccio Fontana ai carissimi amici prof. Pardi, dottori Ricci, Spadoni e Del Guasta, dai militi della Pubblica Assistenza ai popolani premurosi e modesti, fu combattuta una di quelle mirabili lotte, ignorate dai più, e che soltanto la scienza e la bontà possono ingaggiare, al di là delle ispide siepi degli antagonismi politici e sociali, contro ogni morbo, ed ogni dolore.
Ma quando tutta una fiumana di militi di così diversi eserciti, e sotto sì opposte bandiere vide stringersi attorno al feretro del caro estinto dai suoi compagni d'arme ai miei fratelli d'ideale, mi sorrise negli occhi, velati di lacrime, il meriggio delle auspicate fratellanze nella vita, dopo coteste miti albe di pietà al passar della morte.
Chi parte con l'anima riboccante di tali alte visioni, non si stempera in ringraziamenti volgari: ed io vado verso la costa azzurra, portando nel cuore il battito di tanti gemiti gentili.
Rimanga in essi, di quelle vibrazioni del mio spirito. il palpito più ampiamente fraterno.
voi conoscete ormai qual nembo sia passato su questa, casetta, la quale non doveva essere che una tappa del mio cammino verso Genova, verso il lavoro, verso la vita – àncora di lotte e d'idealità; e fu invece l'ergastolo dei miei tormenti fisici prima – ed al morire dell'anno, l'ascoltatrice muta d'una mia agonia morale d'organismo inerte, là sopra un letto, dietro il piccolo muro, che tremò per sette ore al rantolo del mio bel vecchio, solenne quercia Elbana, schiantata da quella atroce notte di turbine. Ma io non voglio lasciarla questa casetta del dolore, diretto ormai non più a Genova vorticosa di lavoro e d'aneliti, ma, come un infrollito baronetto Scozzese, agli ozî molli della costa azzurra – verso le bische lussuose e tragiche – solo con mia sorella, ancora, ancora in gramaglie; non voglio partire (a quando, Pisa evocatrice?...) da questo lung'Arno solatio senza mandare, per mezzo vostro, il mio saluto più pensoso, il mio rendimento di grazie più vivo a tutti coloro (e quanti furono!...) che dall'isola maternamente memore, vollero presenziare, con l'animo fraterno, alle lotte eroiche della scienza e dell'amicizia in difesa di una vita: la mia, al compianto vasto sopra una morte: quella di mio padre, che fu l'ultimo raggiare della canizie sacra innanzi al focolare nostro; a cui non si assidono più che i fantasmi delle ricordanze.
Tornerò dalle primavere iemali, al cui balsamo mi mandano i dottori?... Rivedrò ancora, al di là del velo di lacrime, i graniti della nostra Cordigliera sulle azzurrità di ponente?...
Dite voi dunque, o amici dell'Ilva, ai buoni, ai rammemoranti, tutta la nostalgia di questo a rivederci, tutta la invincibile speranza, pur nella mestizia dell'ora.
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