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PARTE PRIMA Da Genova a Marsala I | «» |
Vuoi tu, dunque, amico caro, ch’io ti racconti quel che videro i miei occhi ed udirono i miei orecchi nell’avventurosa corsa che facemmo da Genova a Marsala ne’ primi giorni di maggio del 1860, quando saltò in testa a Garibaldi il ticchio di fare quella che parve da principio una gran pazzia, e fu giudicata di poi opera egregia e principalissima tra le sue più belle?
Io, pel bene che ti voglio, non ho il cuore di risponderti: no; ma t’ammonisco di non pretendere da me più che non possa darti un modesto gregario di quella schiera; il quale ascriverà a sua ventura se per la grande dimestichezza in cui lo tenne a que’ giorni (per sua benevolenza) il duce dei Mille, potrà narrarti qualche coserella, che non si trova nelle moltissime storie che de’ suoi casi si scrissero e si scrivono oggi più che mai.
Però non aspettarti da me se non una semplice e breve narrazione, senza ombra di pretesa e senza nugole di filosofia; racconto a te come racconterei a’ miei figlioletti, nel cantuccio del focolare, in quelle serate d’inverno, nelle quali si novella patriarcalmente, more majorum. Né ti dorrai se il mio racconto ti parrà smilzo, perché faccio proposito di non raccontare se non quel che vidi ed udii; e tu capirai bene che io non potevo aver occhi ed orecchi per vedere ed udir tutto. Ma sii certo che io non aggiungerò una frangia alla nuda e santa verità, e mi guarderò scrupolosamente dallo spigolare le storie vecchie e nuove; per la qual cosa, non ti mettere in capo d’aver da me un briciolo di più di quel che sta scritto fra gli scarabocchi del mio taccuino, che han già passati gli anni della coscrizione.
Questa avvertenza che faccio a te, la faccio ancora ai lettori, alla carità de’ quali mi raccomando quanto so e posso, ed ai quali pure io rivolgo questo timido esordio, acciò non s’abbiano a ripromettere da me grandi cose e magnifiche, che non si trovano nella mia bisaccia.
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Perché sappia il lettore come io mi trovassi a fianco del generale Garibaldi nella spedizione dei Mille, bisogna dirgli che ei mi volle suo ufficiale d’ordinanza, mentre comandava la divisione toscana, e fui seco a Bologna ed a Rimini, finché, nel giorno antecedente a quello stabilito per saltare il fosso della Cattolica non venne a pigliarlo, da parte del re, il generale Sanfront e lo condusse a Torino.
Vivendo, dunque, dimesticamente con Garibaldi, spesse volte m’accadde tenergli parola di certi buoni amici che avevo in Siena e nella Val di Chiana, lungo i confini dell’Umbria, i quali non vedevano l’ora e il momento di porgere la mano ai liberali del perugino e pigliar la rivincita dell’iniquo trionfo, di cui si era fatto bello co’ suoi svizzeri il generale Smith. Gli raccontavo che per quelle parti s’erano formati alcuni comitati, e si stava sulle intese e s’aspettava l’occasione per dar le briscole ai papalini, e tutti gli occhi erano rivolti su Giuseppe Garibaldi, non sperandosi ormai nessun aiuto dal governo del re, che avea lasciata prendere e insanguinare Perugia, quasi sotto gli occhi de’ suoi reggimenti.
Garibaldi mi rispondeva sempre: «Scrivete a quei vostri amici, non si perdano d’animo; a suo tempo farò capitale di loro».
Partito, dunque, ch’egli fu da Rimini, è noto che, dopo una breve sosta in Torino, si ridusse tutto sdegnoso nella sua Caprera; ed io fui rimandato al reggimento, dove il maggiore del mio battaglione m’accolse con una gran lavata di capo, concludendo col dire: «Signor tenente, qui non c’è Garibaldi; metta il capo a partito e cerchi di fare il suo dovere».
Stizzito com’ero per questo brutto complimento, e più per aver veduta andare a monte la faccenda della Cattolica, proprio sul punto in cui si stava per passare il Rubicone, passai di malissima voglia l’inverno e i primi giorni di primavera; ma questo non può importare al lettore. Laonde, faccio un bel salto dagli ultimi di ottobre 1859 al 23 aprile 1860, e dico che in quest’ultimo giorno me ne stavo seduto su d’una panca del più bel caffè di Alessandria, quando il vecchio Gusmaroli (a que’ tempi carissimo a Garibaldi e familiare suo) mi si fe’ vicino, dicendomi, el general te veul; viente via.
Udendo queste parole saltai su come una molla; volli dimandare, volli sapere, ma il vecchio Gusmaroli fu muto come una tomba, e senza permettermi di andare a casa, mi trasse difilato alla stazione, e mi fe’ salire in una carrozza di seconda classe.
Giungemmo a Genova a notte scura. Una carrozza ci fece traversar la città, ed uscimmo per una porta, che so adesso chiamarsi Porta Pila. Un bel pezzo dopo, la carrozza si fermò dinanzi a un cancello; Gusmaroli mi disse: scendi. Scesi e mi incamminai con lui su per un viale, che faceva capo a una villa. Fu picchiato e fu aperto. Un minuto ancora, e mi trovai in una piccola stanza dov’era un lettuccio; sul lettuccio stava Garibaldi, e seduto in fondo, stava Nino Bixio.
Garibaldi non aveva dimenticato gli amici di Val di Chiana né i comitati dell’Umbria. Infatti, dopo poche parole, mi disse:
– V’ho fatto venir qua da Alessandria, perché è tempo di fare qualche novità verso Perugia.
E così, senza punti preamboli, mi fe’ sapere che io dovevo recarmi immediatamente a Siena a far gente, e spingermi con quella gente, per la Val di Chiana, al confine, e impadronirmi di Città della Pieve, e ingrossarmi e tenermi su pei poggi e farmi vicino a Perugia, e vedere se i perugini avesser voglia di dar nelle campane. Soggiungeva molte altre cose, che adesso non starò a ridire, avvertendo però che per compiere quell’impresa non avrebbe potuto dare né un marengo, né un fucile.
Io stavo ad ascoltarlo a bocca aperta, e quando m’accorsi che avea finito, gli dissi:
– Ma come, generale? Far tutto quello che volete voi, senza denari e senza armi?
– E che? – riprese egli. – Hanno voglia quella gente di far qualcosa, o non l’hanno? Se l’hanno davvero, debbono bastare i sassi e i bastoni.
– Sì, certo – risposi – che basterebbero, generale, quand’Ella fosse tra loro; ma che potrò fare io, povero diavolo, sconosciuto, e senza pratica a dirigere musiche di quel genere? Da me non si possono aspettar miracoli...
Qui si cominciò a discutere e si discusse lungamente, e io persuasi Garibaldi che per tentare un’impresa di quel genere era necessario avere in pronto armi e denari, per non dar tempo al barone Ricasoli di guastar l’impresa nel suo nascere. Oltre a ciò, gli dissi che per muovere quella gente era indispensabile un nome che suonasse conosciuto e suonasse bene.
Garibaldi si persuase facilmente, ma Bixio, saltando in terra, esclamò:
– Insomma, tu non ci vuoi andare, eh?
A cui risposi:
– Oh bella! Vacci tu: io non voglio esser messo sul Fischietto, e sentirmi dire che per vanagloria ho ingannato Garibaldi.
Bixio tirò giù un gran sagrato, ed uscì.
Restammo soli. Garibaldi guardò l’orologio. Era mezzanotte.
– Su via – disse. – Penserò io a trovare chi voglia incaricarsi di questa faccenda; domani ne parleremo, e voi mi darete i recapiti che avete. Intanto, spogliatevi; dormirete alla meglio su quel divano.
Obbedii e mi stesi sopra il divano che era in fondo alla cameretta.
– Posso spengere il lume? – mi domandò Garibaldi.
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