Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

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Spalancate le porte di Milazzo, entrarono a frotte dietro i volontari i villani, avidi di preda, i quali additarono ai nuovi amici i vasti magazzini, pieni zeppi di vino e di barili di salumi; e per tutta la santa notte fu una vera gazzarra, rumoreggiando la gente brilla per le chiese e per le case vuote d’abitanti, mentre la gente sana attendeva a far la guardia. Sul far della sera, quando il diavoleto cominciava a farsi un po’ troppo gaio, ci provammo a farlo smettere, ma fu fatica gittata al vento. Il vino principiava a produrre il suo effetto, ed era inevitabile che i suoi fumi, sgorgati anche dalla bocca di buone e prelibate bottiglie, rinvenute per le cantine, si sbizzarrissero sinché il sonno o la stanchezza non constringessero alla quiete.

Mi coricai, quella notte, sulla terra nuda, accanto a’ fasci delle armi, ma non chiusi mai occhio, giacché la fatica insolita e le vive emozioni della giornata mi impedivano il sonno. Oltre a questo, i gran tonfi che qua e si udivano, e i canti sfrenati mi tenevan desto e mi facevano sospirare la luce per correre a mettere a dovere le bande de’ matti e le caterve dei birboni, che profittando delle fatiche nostre, erano in Milazzo a far d’ogni lana un peso.

Appena cominciò a ricomparire la luce, me ne andai giù per la marina, e vidi Garibaldi, steso sugli scalini d’una chiesa, che dormiva il beato sonno. Gli erano accanto alcuni suoi familiari, che egualmente dormivano, e nessuno avrebbe immaginato, per fermo, che fosse quello l’alloggio di un generale vittorioso in tanta vicinanza del nemico, che tuttavia minacciava. E di fatto, non era colà una sentinella, né v’era altri che vegliasse il riposo suo; e ben poteva dirsi che Garibaldi dormiva tranquillo sotto l’usbergo del sentirsi puro.

Mi guardai bene dal destarlo, e mi sedetti vicino a lui.

Dopo qualche momento, si destò, e alzato il capo, mi vide, e mi stese, sorridendo la mano.

Generale, – gli dissi – ben può dirsi che avete dormito sugli allori.

Garibaldi sorrise ancora e mi disse:

– Ebbene, che c’è di nuovo?

– Niente, – risposi. – La notte è scorsa quietissima; soltanto alcuni furfanti hanno scassinato l’uscio di qualche casa, e vanno tuttora rubacchiando per la città...

Garibaldi si turbò forte e volle che gli narrassi tutto quel che sapevo.

In quel mentre giunsero alcuni ufficiali e confermarono le mie asserzioni, soggiungendo essere indispensabile qualche provvedimento severo, per ridurre a dovere i pochi scapestrati che davano il mal esempio e facean torto a tutti i buoni.

Mi fu allora ordinato che pigliassi meco quanta più gente potevo, e scorressi la città, arrestando quanti cogliessi commettere malanni.

Feci prendere le armi a due compagnie di Malenchini, che avean fatto i fasci sulla piazzetta che sta dinanzi alla chiesa, e cominciai la mia ronda.

In capo a mezz’ora, tornavo dal generale, traendo meco una sessantina di poltroni, tra i quali erano due francesi, insolentissimi sovra gli altri...

– Ecco, – dissi – ecco la gente che vorrebbe disonorarvi.

Garibaldi non mi lasciò finire, ma intonò subito una di quelle paternali che facevano accapponar la pelle ai più riottosi e spavaldi, e concluse, volgendosi a me:

Trascinateli lontano da me, e fucilateli come tanti cani.

Non ho parole per dire come rimasero quegli sciagurati ghiottoni; ma chiunque sappia qual fosse il terrore che incuteva ai birboni la voce del gran capitano, potrà di leggieri immaginarlo.

Non sapevo come avrei fatto ad eseguir quell’ordine trattandosi di tanta gente; pure ordinai fianco destro alle due compagnie, e feci marciare in mezzo alle file i dannati, che cominciavano a piangere e raccomandarsi in visceribus.

Sapevo bene che Garibaldi non era uomo da imitare le feroci giustizie degl’inglesi nelle Indie, ma non volevo essere io quello, che sembrasse discutere i suoi ordini.

Seguitai, dunque, a far marciare le mie genti, coi condannati nel mezzo, né comandai alto, finché la voce del generale non mi chiamò.

– Non li fate fucilare, ve’, – mi gridò il generale. – Strapazzateli ben bene, e consegnateli alla guardia del campo.

Udendo promulgare questa amnistia, i malcapitati si riebbero e parvero tornare da morte a vita. Io dissi loro corna, e cercato il generale Sirtori, glieli consegnai, perché li pigliasse nella sua degna e santa guardia.

 

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* *

 

Tornato presso Garibaldi, lo trovai intento a dar certi ordini agli aiutanti di campo, i quali scesero sopra una barca, e pigliarono il largo. Vedendolo accigliato e quasi nero, non mi arrischiai a volgergli la parola; ma egli, rasserenatosi, mi chiamò a sé e mi disse:

– Venite, facciamo colazione.

Venne imbandito sugli scalini della chiesa un pezzo di tonnina, e il buon Fruscianti stappò una bottiglia. Vedendo che non mi giovavo di quella maledetta vivanda, Garibaldi mi chiese:

– Non vi piace forse la tonnina?

– Eh, non dirò, – risposi – la tonnina, quand’è buona, può parer buona ma a certe ore...

Mentre così dicevo, comparve Gusmaroli con un pezzo di carne arrosto, e allora il generale mi guardò sorridendo, come per dirmi: «O questa vi piace?».

Erano forse le sei e mezzo o le sette. Avevamo terminato di far colazione e stavamo accendendo i sigari, quando gli aiutanti di campo tornarono dalla loro barca, ed avevano seco un ufficiale di marina. Quell’ufficiale era piccolo e sparuto, e quando fu sceso a terra, Garibaldi, cominciò a rampognarlo con parole piene d’ira. Il poveruomo diventò più piccino che mai, e cercò di scusarsi, ma la voce del generale lo ridusse al silenzio.

Garibaldi era talmente crucciato, che mise per due volte la mano sull’elsa della sciabola; ma ripresa tosto padronanza di sé, volse le spalle, dicendo:

Bandi, custodite quell’uomo dentro la chiesa, finché io non abbia disposto di lui.

L’ufficiale di marina aprì novamente bocca per discorrere, ma io, pigliandolo con bel garbo a braccetto, gli sussurrai all’orecchio:

– Che fate? Siete voi pazzo? Venite meco e non temete di nulla.

Entrati che fummo in chiesa, sedemmo sopra una scranna, e gli chiesi l’esser suo, e la ragione per cui Garibaldi l’aveva fatto arrestare e lo trattava con tanta severità.

Seppi che era il capitano Liparachi, vecchio ufficiale della marina veneta, e comandante la fregata Tuckery. Garibaldi, nel momento più caldo della battaglia del giorno innanzi, gli aveva ordinato di girare colla corvetta il promontorio di Milazzo, di piantarsi dinanzi al porto, e di trebbiare coi suoi cannoni le colonne borboniche che uscivano dal castello, o che tentavano rientrarvi. Quella mossa era, senza dubbio, ardita, ma Garibaldi non era uomo da misurare i pericoli, né le difficoltà. Il capitano Liparachi (stando a quel che si diceva) s’era preparato ad obbedire, ma in quel mentre, un cilindro della macchina s’era rotto, ed ei non aveva ardito d’intraprendere una manovra tanto pericolosa, sotto il fuoco delle artiglierie del castello, e con un legno che camminava (salvando il termine) con una gamba sola.

Il Liparachi soggiungeva:

Vedete, io avrei obbedito anche con un cilindro solo, ma l’equipaggio della corvetta, formato per nel porto di Palermo, con barcaiuoli e con cattivi marinai mercantili, si pigliò paura, e cominciò a balenare, e mi tolse l’animo di fare quanto, secondo la mia natura, avrei voluto e saputo fare.

Mi strinsi nelle spalle e confortai il Liparachi a sperar bene; e consegnatolo ad un mio capitano, uscii dalla chiesa.

Poche ore erano corse, e un ordine scritto mi si recò, nel quale lessi che il capitano Liparachi veniva mandato innanzi a un consiglio di guerra, presieduto dal colonnello Malenchini, e composto dei giudici Croft, Bandi ed altri due che non rammento.

Pietro Coccoluto Ferrigni doveva far parte del pubblico ministero. Non si giocava di noccioli; il capitano Liparachi era accusato di disobbedienza agli ordini del generale in capo, durante la battaglia e si trattava della vita e della morte.

Avrei corso più volentieri all’assalto di un cannone, anzi che sedere in tribunale per giudicare un caso così scabroso; ma Garibaldi ordinava, ed era necessario obbedire.

Il Tribunale si formò non rammento se in una sala o in una chiesa. Pigliammo posto secondo i gradi e l’anzianità, e il colonnello Malenchini, che fu la bontà e la giustizia in persona, ci ammonì solennemente a voler giudicare con calma e con animo spassionato, tanto più che la causa in questione sarebbe stata più ragionevolmente di competenza della Corte dell’ammiragliato che di un tribunale composto esclusivamente di ufficiali dell’esercito.

Il povero Liparachi, quando comparve dinanzi a noi, era in tale stato da far compassione; pure, si fe’ animo e rispose con sicurezza alle interrogazioni del presidente.

Egli asserì che avrebbe volentieri obbedito agli ordini del dittatore, per quanto audacissima fosse la manovra comandata, se non gliel’avesse impedito la rottura di uno dei cilindri.

Parea singolare che la rottura del cilindro fosse avvenuta proprio in quel momento, ma chi potea imputarne la colpa al comandante, quand’anche la detta rottura s’avesse a ritenere tutt’altro che fortuita?

Il Liparachi aperse sotto i nostri occhi certificati onorevolissimi del governo provvisorio di Venezia, produsse testimoni degni che attestavano la sua onoratezza e il suo patriottismo; e per ultimo, quando gli dimandammo se non avesse potuto far correre la corvetta con un cilindro solo, allegò che nell’ora in cui la manovra audace gli venne ordinata, soffiavano i venti cosiddetti d’imbatto, pei quali si rendea malagevole l’entrata nel porto.

Interrogato il suo secondo, che fu il conte Orlandini, fiorentino, amicissimo mio, interrogati gli altri ufficiali e gli uomini dell’equipaggio, non udimmo che parole in difesa del comandante. Oltre a ciò, l’Orlandini e gli altri ufficiali asserirono che non appena il Liparachi ordinò che la corvetta si spingesse molto sotto ai fuochi del castello, l’equipaggio, formato (come già dissi) di gente raccogliticcia ed impronta, s’era messo a taroccare, lagnandosi che con spietata temerità si volesse sagrificarlo.

La questione era molto grave, e costituiva per noi un “caso di coscienza” molto serio. Si trattava di dire il parer nostro in una causa nella quale entravano, in larga parte, alcune controversie che solo la gente di mare poteva giudicar con autorità. Che sapevamo noi dei venti d’imbatto? Come potevamo noi decidere se la rottura del cilindro fosse fortuita, o fosse invece, procurata a malizia?

Ventilate ben bene tutte queste ragioni ed «udito il parere del pubblico ministero» il tribunale si dichiarò incompetente.

Stesa e firmata che fu la sentenza, il presidente Malenchini diè a me l’incarico di recarla a Garibaldi.

Garibaldi, avuta in mano la sentenza, inforcò sul naso gli occhiali e lesse; e nel leggere che facea, vidi il suo viso rannuvolarsi. Quand’ebbe letto, mi guardò torvo, e disse:

Va bene!

E mi voltò le spalle.

Tornato che fui a terra, narrai a Malenchini l’accoglienza brusca che Garibaldi m’avea fatta e la narrai agli altri giudici, i quali ringraziarono insieme con me l’altissimo Dio, d’aver potuto lavarsi le mani di quella brutta faccenda, e credemmo tutti che non ce ne saremmo occupati mai più. Ma in questo ultimo punto c’ingannavamo a partito. La mattina seguente di buonissimora, un decreto del dittatore riconvocava lo stesso tribunale, cambiando però il presidente. Malenchini era parso uomo di viscere troppo misericordiose, e gli veniva sostituito il colonnello Milbitz.

Questo vecchio e buon soldato polacco era un uomo di pochi spiccioli, anzi (per dir meglio) di punti spiccioli. Egli non appena ci vide seduti in tribunale, ci arringò così: «Signori giudici, caso presente star molto facile decidere. Capitano Liparachi avere disobbedito comandante esercito, tempo combattimento, grave pericolo compromettere esito battaglia; ecco articolo codice militare, linguaggio chiaro; capitano Liparachi dover condannarsi morte e fucilare».

Ci guardammo in faccia con tanto d’occhi meravigliandoci altamente di quella logica dritta a fil di spada, che sfoderava il polacco, e dopo aver questionato seco un bel pezzo per ribattere le sue strane ragioni, s’aperse l’udienza. Il Liparachi ridisse le stesse cose del giorno innanzi, noi mantenemmo nell’animo le stesse impressioni. Venuta la volta del pubblico ministero, questi concluse nuovamente per la incompetenza del tribunale, e noi dichiarammo di bel nuovo l’incompetenza con quattro voti contro uno.

La causa fu rimessa allora alla corte dell’ammiragliato di Palermo, che assolvette il Liparachi. Garibaldi però non l’assolvette mai, e deplorò sempre di non aver avuto a bordo del Tuckery un comandante della tempra di Nino Bixio.

 

 


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