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Per quattro interi giorni, i regi stettero chiusi nel castello, senza dar segno alcuno di vita, eccezione fatta da tre cannonate innocue che tirarono contro un vapore nostro che veniva da Genova, e che li persuase facilmente a star fermi con lo spiegare bandiera inglese.
In quei giorni, noi eravamo cresciuti alquanto di numero, pe’ rinforzi che continui giungevano, e avevamo veduto arrivare con infinita contentezza una bella batteria da campagna, comandata dal capitano Gherzi, dipoi maggiore generale nell’esercito.
Fra le truppe che eran venute a raggiungerci, notai i battaglioni di Cosenz, che avevano ufficiali in perfetta tenuta regolare, e perfino i tamburi. I regi che specolavano ogni cosa dall’alto del loro inaccessibile rifugio, dovettero, senza dubbio, accorgersi che la famiglia nostra andava, man mano, crescendo in misura assai notevole, e tanto dev’esser bastato per togliere di capo al loro duce ogni idea di piombarci addosso, se pure tale idea l’ebbe mai.
Dimandano alcuni come accadde che il colonnello Bosco non bombardò Milazzo; ma si risponde che un simile atto di brutalità poco o nulla avrebbe giovato al fatto suo; oltre di che, il governo di Napoli, che già aveva proclamato per spontanea volontà del re la costituzione, aveva capito che le corde troppo tirate si strappano e che non gli avrebbe menato buono l’arbitrio di spinger le cose agli estremi e di troncar così la via ad ogni possibile componimento.
In quel tempo, il governo del re Borbone, sventolando in faccia ai popoli la bandiera tricolore, si fingeva spasimante per l’alleanza col Piemonte, e prometteva abbandonare a se stessa la Sicilia, pur che si proibisse a Garibaldi di passare nella terraferma. Sono note, a questo proposito, le trattative che ebbero i borbonici col conte di Cavour, e notissima è altresì la ragione colla quale lo scaltro ministro del re Vittorio gingillò le povere volpi napoletane, dando a vedere d’essere capace d’un inganno e mezzo a petto di chi veniva a lui coll’inganno nel cuore e colla frode sulle labbra.
Nessuno dubitò allora che Francesco II, mentre accarezzava Vittorio Emanuele e pareva raccomandarsi a lui, come all’unico e desiderato salvatore, non tenesse segrete pratiche coll’Austria, e non sobillasse il papa e lo czar e fin anche la regina di Spagna, cercando dappertutto nemici al «monarca garibaldino» e a Garibaldi suo maestro, e al conte di Cavour, diavolo tentatore ed ispiratore di ambedue.
Comunque fosse, io dirò che il giorno dopo la battaglia, capitarono nel porto di Milazzo due vapori da guerra francesi; e siccome la Francia si dava l’aria di gran paciera ed anche di tutrice premurosa del giovane e maleavventurato re Borbone, i comandanti di quei legni entraron subito a discorrere di un componimento tra Bosco e Garibaldi. Chi si facesse mediatore per intavolare le trattative non saprei dirlo; ma certo è che Garibaldi espose i suoi patti, e Bosco riputandoli troppo gravi ed anco ignominiosi, li rifiutò, giurando che prima di rendersi a discrezione, saprebbe far saltare il castello e sé e tutti i suoi.
Due giorni dopo, verso mezzodì, quattro o cinque legni da guerra napoletani furono ad un tratto alle viste, e con nostra indicibile sorpresa entrarono in porto. Vedendo quei legni, noi credemmo che volessero aiutare qualche sortita della gente del castello; ma il generale Medici che venne sulla marina, dove erano schierati i battaglioni del Malenchini, ci fece intendere che né le fregate tirerebbero, né i regi del castello farebbero neanche il cenno di muoversi.
Garibaldi, che prevedeva sin da principio qualche molesta visita, aveva collocato il Tuckery quasi in secco dietro una scogliera in fondo al porto, in modo da trasformarlo in una specie di batteria, i cui grossi pezzi avrebbero non mediocremente inquietati gli ospiti arroganti. Ma il Tuckery non ebbe d’uopo d’incomodarsi a tirare, poiché dalla maggiore delle fregate venne a terra un ufficiale dello stato maggiore borbonico, il quale annunziò a Garibaldi esser venuto per trattare le condizioni della resa del castello e per portar via il Bosco con tutta la sua gente.
Garibaldi acconsentì a lasciare escir dal castello la truppa in arme e bagaglio e con gli onori di guerra, ma volle che il castello gli si consegnasse con tutte le artiglierie e con tutte le munizioni e provvigioni, coi cavalli, coi muli, colle bardature e con quant’altro vi si trovasse dentro.
Rammenterà il lettore che in una lettera intercettata presso Meri, indosso a una donna, escita da Milazzo, il colonnello Bosco millantava che sarebbe, tra non molto, entrato trionfante in Palermo sul cavallo di Medici.
Or bene; per punire quell’insigne tratto di spavalderia, volle Garibaldi che i cavalli di Bosco non fossero esclusi dalla consegna, pattuita nei capitoli della resa; e così il più bel cavallo dell’infelice millantatore fu donato a Giacomo Medici, che ne fece pompa, entrando pochi giorni appresso in Messina.
L’imbarco dei regi e la consegna del forte ebbero compimento nelle ore pomeridiane del dì 5 di luglio.
Di buon mattino, alcuni grossi legni da trasporto, francesi, entrarono nel porto. Due ore dopo il mezzodì, i nostri battaglioni cominciarono a schierarsi per assistere al passaggio del nemico patteggiato. Il reggimento del Malenchini toccava colla sua estrema sinistra la porta del castello; poi veniva un reggimento di Cosenz, e via via giù sulla marina erano schierati tutti gli altri. Avevamo ordine di far presentare le armi ai borbonici, che dovevano dal canto loro, salutarci, passando dinanzi a noi.
I battaglioni napoletani passarono in bellissima ordinanza; erano in buon arnese e forniti di ottime armi; i soldati apparivano ben nutriti e animosi, e ci guardavano di traverso. Gli ufficiali salutavano colle sciabole, ma dai loro sguardi si conosceva che molto più volentieri ce l’avrebbero confitte nel cuore.
Sul principio quella magnifica processione andò tranquilla in mezzo a un profondissimo silenzio; gli abitanti di Milazzo, rientrati per la massima parte in città, e le genti accorse in gran folla dai paesi e dalle campagne circostanti, assistevano a bocca aperta a quel nuovo spettacolo, e non s’arrischiavano a fiatare. Ma quando escì dal castello il famoso Bosco, la cosa mutò aspetto, e la folla, poc’anzi rispettosa e muta, divenne, in un baleno, la folla più sfrenata e più impronta che mai mettesse a soqquadro una città. Gli urli, i fischi, le imprecazioni che salutarono il povero colonnello sono impossibili a descriversi, e fu veramente nostro merito e frutto de’ nostri sudori e della nostra costanza, se oltre le imprecazioni, i fischi e gli urli, non ebbe qualche più solenne attestato dell’odio che gli portavano i siciliani.
Accompagnavano il Bosco due maggiori del primo reggimento di Cosenz, i quali con umane parole venivano rassicurandolo e a cui egli replicava: «Non mi dite nulla, perché le voci di questa canaglia non le sento neppure!».
Giunto che fu sulla marina, fu necessario adoprar le mani per difenderlo dalla improntitudine della folla furente; e quando ebbe messo piede sulla barca, le grida lo seguirono fino alla nave, dove ebbe pace in mezzo ai suoi.
Sparito il Bosco, i nostri volontari si mescolarono lietamente tra le file dei borbonici, che attendevano l’imbarco, ed alcuni si dettero ad evangelizzarli, esortandoli a piantare il Borbone e venirsene sotto più santi segni e tra compagni migliori.
I borbonici ascoltavano, per la più parte, senza rispondere; qualcuno si pose a disputare; in conclusione, forse dieci o dodici, su cinquemila e tanti, furono quelli che restarono a terra mescolandosi con noi; gli altri attesero a imbarcarsi e andarono via con tanto di muso, giurando sempre che il giorno 20 avevano combattuto contro dieci o dodici, ed anche quattordici mila uomini.
I regi ebbero finito d’imbarcarsi quando era già notte, e partirono coll’aiuto di Dio lasciandoci padroni della città e del castello, e liberi di poter correre senz’ombra di pensiero fin sotto le mura della cittadella di Messina che aveva fama di inespugnabile.
Non appena i legni da trasporto su cui dovevano viaggiare i borbonici, cominciarono a correre, parecchie palle fischiarono sulle nostre teste.
Era l’ultimo saluto di que’ cattivi fratelli, saluto che venne accolto con un grido unanime di indignazione.
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Quando partimmo da Milazzo, il nostro piccolo esercito era quasi raddoppiato.
Giunti che fummo sulle alture del Gesso, vedemmo da vicino il gran pericolo che avevamo corso, e meravigliammo che, signori di quelle stupende posizioni, i generali borbonici ci lasciassero in pace nei due giorni che dimorammo, in sì piccol numero, presso il villaggio di Meri.
Facemmo su quei poggi una sosta di qualche ora, durante la quale m’occorse un bell’aneddoto che voglio ricordare.
Era l’ora della colazione, e l’appetito ci pizzicava forte. I domestici del colonnello Malenchini sciorinarono in una capanna che sorgeva in mezzo a un orto le loro provvisioni, e c’invitarono al magnificat. Mentre stavamo mangiando capitò il padrone dell’orto, che era un bel villano di trent’anni o poco più i cui occhi denotavano una dose tale di furberia da fare onore ad uno dei più scaltriti abitanti della città. Il colonnello gli fece dare un pezzo di carne e un gran bicchiere di vino, e mentre beveva, gli domandò:
– Chi viva?
– Viva Garibaldi, ora! – rispose l’ortolano, colla maggiore serietà del mondo.
– Dunque – ripigliò il colonnello – otto giorni fa, dicevi viva al Borbone?
– E s’intende! – disse l’ortolano.
Il brav’uomo aveva dipinto, senza volere, con stupendi e schiettissimi colori la politica della maggior parte degli abitanti della terra.
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Il generale Medici, che ci aveva preceduti in Messina coll’avanguardia, stipulò col generale Clary la resa della città, riserbando alle truppe regie soltanto la cittadella, la quale era convenuto non farebbe alcun atto ostile contro di noi, se avessimo mantenuto la fede di non assalirla.
Entrammo dunque in Messina con gli schioppi in spalla e dimorammo per diversi giorni nella bella e piacevole città che dà nome allo stretto, preparandoci a passare nella terra ferma, per compir l’opera e sciorre il voto.
Garibaldi era tutto assorto nel meditare il modo più sicuro e più pronto di effettuare quel passaggio, ed appariva cupo e pensieroso. In quei giorni che chiamerò di tregua, perché le armi furon quiete da una parte e dall’altra, la politica tornò a far capolino nel quartier generale del dittatore, e i tentativi per frastornare la sua impresa si rinnovarono. Questa volta non si chiedeva solo il plebiscito dei siciliani, ma si voleva che si rinunziasse a proseguire l’opera della redenzione nella terraferma.
La notizia di quei maneggi trapelò sino a noi; ma tanta era la fede che avevamo nel glorioso nostro capo, che non dubitammo mai neppure alla lontana che e’ fosse per acconsentire ai troppo prudenti consigli di certi prudentissimi consiglieri, e volesse troncare a mezzo la impresa più splendida della sua vita.
Giunse in quei giorni e fu veduto da noi un signore, che ci fu detto essere un aiutante di re Vittorio Emanuele. Nessuno di noi seppe precisamente l’oggetto della venuta di quel signore, ma nessuno immaginò che ei fosse venuto per suo diporto o per recare al dittatore il collare dell’Annunziata.
La lettera che il detto aiutante di campo recò a Garibaldi si conobbe soltanto qualche anno dopo, ed è bene riprodurla, per vedere come andassero le cose.
Voi sapete che io non ho approvato la vostra spedizione, alla quale sono rimasto assolutamente estraneo. Ma oggi, la posizione difficile, nella quale versa l’Italia, mi pone nel dovere di mettermi in diretta comunicazione con voi.
Nel caso che il re di Napoli concedesse l’evacuazione completa della Sicilia dalle sue truppe, se desistesse volontariamente da ogni influenza e s’impegnasse personalmente a non esercitare pressione di sorta sopra i siciliani, dimodoché essi abbiano tutta la libertà di scegliersi quel governo che a loro meglio piacesse, in questo caso io credo che ciò che per noi tornerebbe più ragionevole sarebbe rinunziare ad ogni ulteriore impresa contro il regno di Napoli. Se voi siete di altra opinione, io mi riservo espressamente ogni libertà di azione, e mi astengo di farvi qualunque osservazione relativamente ai vostri piani.
Sire,
La maestà vostra sa di quanto affetto e riverenza io sia penetrato per la sua persona e quanto brami d’ubbidirla. Però vostra maestà deve poi comprendere in quale imbarazzo mi porrebbe oggi un’attitudine passiva in faccia alla popolazione del continente napoletano, che io sono obbligato di frenare da tanto tempo, ed a cui ho promesso il mio immediato appoggio. L’Italia mi chiederebbe conto della mia passività, e ne diverrebbe immenso danno. Al termine della mia missione io deporrò ai piedi di vostra maestà l’autorità che le circostanze mi hanno conferito, e sarò ben fortunato d’obbedire per il resto della mia vita.
Questa lettera fece intendere a Torino che Garibaldi non era l’uomo da lasciar le cose a mezzo, e che la bandiera spiegata a Marsala dovea sventolare quanto prima in Napoli sul palazzo dei Borboni.
E il conte di Cavour l’avea capita. Appena avuto notizia della battaglia di Milazzo, scriveva all’ammiraglio Persano: «Dopo sì splendida vittoria, non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente».