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Non rimaneva in Sicilia alla signoria borbonica null’altro che la cittadella di Messina. Era dunque tempo di passare sulla terra ferma, ma l’impresa non poteva dirsi tanto facile, quanto grande era il desiderio di compierla con sollecitudine.
Lo stretto era visitato, di continuo, da numerose navi da guerra, i fortini della costa calabrese erano armati di buone artiglierie, e grossi corpi di truppa accampavano in vicinanza dei luoghi dove più facile si offriva a noi l’occasione dello sbarco.
L’esercito napoletano poteva opporre a quello di Garibaldi ottantamila uomini ed anche più; la flotta, ad eccezione del legno comandato dall’Anguissola, restava fedele al suo re.
Garibaldi non ci tenne in Messina che due giorni o tre; e lasciando quivi un po’ di guarnigione per tener d’occhio la cittadella, acciò da quella parte non si facessero novità, ci condusse tutti a Capo di Faro, ove pose il quartier generale e preparò una flottiglia numerosa di barche, alla quale tennero, in breve, compagnia, parecchi piccoli vapori, noleggiati qua e là. A difesa di questo arredo marittimo fece innalzare diverse trincee, che munì coi grossi cannoni trovati nel castello di Milazzo e in certi forti di Messina.
S’intendeva chiaramente che il nostro gran capitano voleva farci passare lo stretto, ma era difficile a capirsi come sarebbe possibile il farlo, quando le navi borboniche e i fortini della spiaggia e le truppe accampate dietro i fortini si unissero in un serio accordo per impedirlo. Ma tanta era la nostra fede nel senno e nell’ingegno e nella fortuna di quell’uomo, che nulla ci pareva impossibile con lui; e così non fu giorno in cui non dicessimo: «Stanotte saremo in Calabria!».
La lunga dimora che facemmo presso il Faro fu per noi alquanto penosa, in causa della scarsità dell’acqua e della malaria, che generava le febbri. Non c’erano tende, non c’erano baracche, e neanche legname per costruirle, giacché in que’ colli non si trovavano se non viti e qualche ficaia e qualche altro albero da frutto.
Io mi recavo spesso alla marina, e mi tenevo felicissimo di poter dormire in qualche barca, e come me fecero parecchi, ma i sonni nostri erano tutt’altro che placidi e lunghi, giacché ogni notte c’era gazzarra di cannonate, e fuochi di fucileria per parte dei regi, che dalle navi o dalla spiaggia tiravano contro le nostre barche, che sempre erano in moto, per vedere di farla in barba alla crociera. I tentativi di sbarco si ripeterono infruttuosi per alquante notti; ma in una bella notte, che fu precisamente quella dell’8 di agosto, uno scelto manipolo di trecento uomini, capitanato dal valoroso Missori, scendeva in Calabria, e spiegava la bandiera tricolore in mezzo a quel popolo robusto e nemicissimo sempre della dominazione borbonica.
Nonostante però lo sbarco del Missori, le difficoltà nostre erano sempre grandi, perché la squadra regia era padrona del mare, e noi non avevamo alcun legno da battaglia, ad eccezione del Tuckery, che per giunta era assai danneggiato nella macchina e ben lontano dal poter correre colla sua antica velocità. Garibaldi voleva far suo qualche grosso e buon legno da guerra: era questo il suo sogno diurno e notturno, avendo in animo che coll’avere a disposizione sua una nave capace di qualche resistenza, gli sarebbe venuto facilissimo ciò che nel caso presente gli si manifestava tanto difficile e pericoloso.
Ora, saputo che nel porto di Castellammare di Stabia si stava allestendo il Monarca, vascello a due ponti, per fargli prendere il largo e mandarlo a guardia dello stretto, immaginò di pigliarlo innanzi che fosse lesto, ed a tale uopo ordinò quanto vado narrando.
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Nessun uomo al mondo poteva suggerire a Garibaldi l’audace disegno d’impadronirsi d’un vascello con un improvviso assalto in un porto nemico, adoprando a quell’assalto l’unico legno da guerra, che era in poter suo.
Garibaldi sapeva a puntino quanta gente custodisse nottetempo il Monarca e quale era la guardia che, in tempo di notte, si faceva nel porto di Castellammare. Segreti amici gli avean detto in qual luogo preciso fosse ancorato il Monarca, e quel luogo gli era parso opportunissimo per assalire all’improvviso il vascello, tagliargli le catene delle àncore e trarlo via a rimorchio, innanzi che la gente del forte e della città potessero correre alla riscossa. Sicuro del fatto suo, fece salire sulla corvetta Tuckery centosessanta uomini, e dispose che quel legno partisse dal Faro per ignota destinazione la sera del giorno 13 d’agosto.
Il comandante Borrone, sul punto di partire, ricevette una lettera sigillata, la quale non dovea aprirsi che a tante miglia di distanza da terra. Insieme a lui eran saliti a bordo il Piola Caselli, comandante supremo della marina da guerra siciliana, e il maggior Andrea Sgarallino, con alquanti ufficiali, tra cui rammento Casalta, Colombo e Vergerio.
A una cert’ora, fu dissigillata finalmente la lettera, e lo scopo di quel viaggio fu chiaro.
Appena fatto giorno, si pose mano ai preparativi dell’assalto. L’impresa, sebbene arrischiatissima, innamorò tutta la brava gente che era a bordo; e non vi fu uomo, il quale non vagheggiasse l’ora e il momento di tornarsene a Garibaldi e potergli dire: «Ecco il Monarca».
Si ordinarono, dunque, quattro squadre di venti uomini, comandate ciascuna da un ufficiale di Sgarallino e da un ufficiale della corvetta. Quest’ultimo aveva incaricato di dirigere la squadra all’abbordaggio e insegnarle il boccaporto, pel quale doveva penetrare nel legno nemico. Ogni squadra era munita di piccozze, di tagliaferro e di martelli: s’era inteso che ciascuna delle quattro squadre dovesse entrare per un boccaporto diverso, e farsi strada nella batteria e tenere in vista gli uomini che colà dentro si trovassero, chiudendoli prigionieri nella stiva.
Sgarallino poi doveva salire con novanta uomini sul ponte, tagliare ormeggi, cavi e catene, e far sì che il Tuckery pigliasse a rimorchio il vascello e lo traesse al largo.
Sul cadere del giorno, la corvetta navigava in distanza di circa trenta miglia da Castellammare; ed il Piola, non volendo avvicinarsi soverchio, finché non fosse notte, dette ordine di rallentar la corsa, acciò il nemico non la scoprisse.
Tosto che fu buio, il Tuckery ripigliò la corsa, e sulla mezzanotte fu nel porto di Castellammare. Il porto era silenzioso, né aveva altro lume che quello delle stelle; vi stavano sull’ancora parecchi legni, alcuni dei quali di bandiera estera, ma tutti al buio. Procedendo cautamente, fu facile riconoscere il Monarca, ma si vide con infinito stupore che non era più nel punto accennato da Garibaldi, e che nel giorno antecedente lo avean cambiato di posto, tirandolo più in fondo al porto. Questo caso fu la rovina dell’impresa.
Appena la corvetta si fu avvicinata, una lancia del Monarca si fece innanzi, e i marinai napoletani la riconobbero subito o ebbero il presentimento che fosse quella e gridarono: «Ecco la Veloce!» (I nostri lettori sanno bene che il Tuckery, mentre fece parte della flotta napoletana, ebbe nome Veloce).
Il Piola non se ne dette per inteso, ma comandò al Borrone di avvicinarsi quanto più potesse al vascello. Erano giunti a brevissima distanza dal vascello, quando fu gridato: «Chi va là?».
Il Piola gridò: «Amici; è in porto la Maria Adelaide?».
Una voce rispose: «Non sappiamo nulla della Maria Adelaide; scostatevi!».
Il Piola soggiunse: «Lasciateci mettere una cima sulla vostra catena, per poter girare il nostro legno».
Ma da bordo al vascello parecchie voci gridarono: «Allarga, allarga!».
In quel momento Sgarallino e i suoi uomini erano distesi sulla coperta, aspettando il segnale dell’assalto; ma il Piola, non vedendo modo d’avvicinarsi al Monarca colle buone, e non volendo avvicinarsi colle cattive, fece dare indietro alla macchina.
Allora, i marinai del vascello, saliti sui pennoni, scòrsero il ponte del Tuckery pieno di gente e gridarono: «All’armi!».
Il Piola, vedutosi scoperto, comandò immediatamente: «Macchina avanti» per assalire, senza indugio, il vascello; se non che la macchina, guasta com’era, non poté eseguir sollecita la manovra, e fu d’uopo dar fondo a un’àncora per sciare indietro e vedere se fosse possibile d’assalir così il vascello. Ma tutto fu inutile; la gomena si strappò, e si dovettero gettar in mare due lance per tentar di salire dalla diritta del vascello. Anche questo nuovo tentativo andò a vuoto, perché i marinai del vascello avean tirato su le scale. In mezzo a tanta confusione, tornando le lance e veduto tutto essere ormai scoperto, il Piola fe’ andar innanzi la corvetta, e così accadde che le lance andarono a catafascio sotto le ruote, ma senza che alcuno vi perisse. La corvetta, spingendosi innanzi, andò diritta sotto il bompresso del Monarca, e quivi ebbe rotto il bastone di flotto e l’alberetto di trinchetto; ma riescì ad attaccare il vascello.
Ad un tratto, si udì dal bordo nemico un colpo d’arme da fuoco, e poi un gran diavoleto di tamburi e di trombe. A questo colpo, i volontari della corvetta cominciarono a tirare e tentar l’abbordaggio, spingendosi innanzi a tutti lo Sgarallino con gli ufficiali, ma non ci fu verso di salire a bordo, perché tutti i portelli del vascello erano stati chiusi. Fu tentato di salir da prua, valendosi delle briglie del bompresso; ma in quel mentre, lo Sgarallino, peritissimo nelle cose di mare, sospettò che i napoletani avessero mollata l’àncora di sinistra che avean traversata sulla gruga in corvetta del Tuckery, per pigliarli tutti prigionieri, e ordinò ai suoi uomini di allargarsi sotto la prua del vascello.
Il combattimento a colpi di fucile durò un bel pezzo. Mentre dal vascello e dalla corvetta si tiravano colpi alla cieca, i legni da guerra francesi e inglesi, ancorati nel porto si erano messi in ordine di combattimento.
Vedendo andata a vuoto l’impresa, il Piola fece pigliare il largo alla corvetta. Nella zuffa eran morti dalla parte dei nostri il tenente Colombo, un sergente e un soldato livornese, per nome Croce. I feriti erano diciassette.
Mentre il Tuckery si allontanava da Castellammare, il vascello gli sparò contro due colpi di cannone, e tre gliene sparò il forte, ma tutti andarono a vuoto.
Altri colpi non succedettero a quelli, perché la corvetta garibaldina venne spinta dal vento in vicinanza d’una fregata inglese, e quella vicinanza la fece salva.
Quando fu l’ora di ripigliar la corsa, le ruote della corvetta non si potevano muovere, e fu necessario che i marinai entrassero nei tamburi, e coll’aiuto delle manovelle dessero il movimento in avanti.
Tali erano i legni coi quali guerreggiava e faceva miracoli in mare Giuseppe Garibaldi, l’uomo al quale non si volle affidare il comando della flotta italiana nella guerra del 1866, per non far torto all’ammiraglio Persano!
La corvetta escita incolume, per grazia di Dio, dal porto, fece rotta alla volta di Palermo, e la mattina, di buon’ora, scoperse una fregata borbonica, che rimorchiava un legno da trasporto.
Il Tuckery, degno dell’uomo valoroso di cui portava il nome non deviò una linea dalla sua strada, ma la fregata regia non dette cenno di volersi misurare con lui.
Tale fu la corsa ardita della nostra unica corvetta nel porto di Castellammare; corsa che avrebbe avuto buonissima fortuna e sarebbe passata in proverbio, se il vascello fosse stato colto nel punto stesso in cui l’occhio d’aquila di Garibaldi lo aveva veduto, meditando il suo assalto.
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Un bel giorno si sparse pel campo la notizia che Garibaldi non era più tra noi.
Dov’è andato, dove non è andato? Mille diverse voci correvano; chi lo voleva a Palermo, chi a Livorno, chi a Genova e chi a Marsiglia; chi diceva che fosse ito a sollecitare la partenza dei nuovi battaglioni che allestiva il Pianciani; chi bucinava che foss’andato a comprare qualche grosso vapore ed armarlo, per tener testa alle fregate borboniche, che gli davano tanta noia.
Nessuno trapelò dove veramente egli fosse, ma a suo tempo si seppe che era sceso in Sardegna.
Or bene. Mentre Garibaldi era assente e mentre Sirtori teneva, in sua vece, il comando, una grossa nave a vapore, seguita da un’altra più piccola, comparve alle viste del nostro campo. Nessuno si dette pensiero di quella visita, sebbene le due navi, senza issar bandiera di sorta, si avvicinassero a noi molto più di quel che non eran solite fare le navi borboniche in crociera.
In quel mentre stavamo desinando col colonnello Malenchini in una casetta a un sol piano, a pochi passi dalla spiaggia, proprio sulla via dove si stendevano le poche case di cui si formava, a quel tempo, il villaggio. La finestra della stanza guardava il mare, e noi vedevamo le due navi avvicinarsi, e stavam guardandole. La più grossa ci parve la Carlo Alberto, fregata sarda che avevam veduta, pochi giorni innanzi, a Milazzo, e credemmo che l’altra più piccola fosse il Tripoli o il Mozambano. E siccome non era faccenda nostra il chiedere a quelle navi i passaporti o lo indagare con quali intenzioni ci si avvicinassero, seguitammo a mangiare tranquillamente, tanto più che a Torre di Faro c’era lo stato maggiore di Garibaldi e c’era Sirtori, che doveva far guardia per tutti.
I due misteriosi visitatori vennero avvicinandosi sempre più a noi, e debbo credere anche adesso che tanto il Sirtori, quanto chi comandava la batteria sulla spiaggia, cadessero nello stesso inganno in cui caddi io, perché nessuno si fece vivo, né ebbe il pensiero di chiedere colla voce del cannone il nome e la provenienza delle due navi e di pregarle a girar più largo da noi.
Ad un tratto la nave più grossa, che era una bella fregata di cinquanta pezzi, alzò sull’albero maestro una cornetta rossa, e tosto guizzò un lampo, e a quel lampo tenne dietro un gran tonfo, e poi i lampi ed i tonfi si succedettero senza interruzione.
Ci eravamo appena alzati da tavola, quando un grande scroscio si udì, e il tetto della casipola ci cadde sopra, cuoprendoci di graticci di canne e di calcinacci, misti a qualche sasso, mentre una grossa pietra, divelta dal muro, cadeva con spaventoso fracasso sulla tavola e la faceva in pezzi. Malenchini avea il viso tutto pien di sangue; il dottor Tommasi, sanguinoso anch’egli, rideva come un matto; Pietro Coccoluto Ferrigni si doleva d’un braccio offeso, ed io ero pieno di polvere negli occhi, nei capelli ed in bocca. Uscimmo nella strada, e vedemmo la gran confusione che quel repentino assalto aveva generato. I colpi si succedevano senza posa, ed io avevo gran paura che i due legni, avvicinandosi, come facevano, alla nostra flottiglia, non ce la mandassero in fiamme. Le nostre batterie, dopo una scarica generale, erano state ridotte al silenzio, ed invano gli ufficiali cercavano raccogliere i cannonieri che, sbalorditi da quella furia inattesa, si erano sparpagliati qua e là, cercando un riparo contro quella pioggia di proiettili.
Cessato però lo sgomento, riescì di raccogliere i cannonieri e di rimandarli ai loro pezzi. La contessa Martini, donna elegante, battagliera e amica della vita dei campi, colla sciabola in mano, aiutata da diversi ufficiali e soldati del mio battaglione, ricondusse ai pezzi gli artiglieri della batteria da ventiquattro, che era dinanzi alla chiesa, e uno di quei pezzi ficcò una palla nella carena della fregata, mentre il legno più piccolo aveva portato via da una palla la grossa lancia, che recava a poppa. Questi due tiri bene assestati, e i tiri delle batterie vicini alle torri poterono tanto, che la fregata, la quale era giunta vicinissima a noi, girò prestamente di bordo, e seguita dall’altro legno, pigliò il largo.
I nostri cannoni sfolgorarono l’una e l’altra per un bel pezzo, ma non riuscirono a recar loro maggiori danni. I danni nostri non furono grandi, come potevano essere, se il comandante i due legni avesse tenuto più duro; tuttavia, perdemmo una quindicina di uomini tra morti e feriti, perché i volontari, vedendo avvicinarsi le due navi con tanta sicurezza, le avevan prese anch’essi per due navi sarde, ed eran corsi in frotta sulla spiaggia per goder lo spettacolo del loro arrivo.
Degli abitanti del villaggio, tre o quattro furon malconci dalle palle, e tra questi mi fece gran compassione un povero vecchio, padre di quattro belle figliuole, che, còlto da una granata, rimase sul tiro, mentre accudiva alle faccende di casa. Venne il curato colla bara a pigliare il vecchio, e le infelici figliuole lo seguirono piangendo come disperate sino al camposanto.
La fregata era la Borbona, ribattezzata poi col nome di Garibaldi; il legno minore era l’Archimede. Comandava la fregata il capitano Flores, uno dei bombardieri più accaniti di Palermo.