Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

VIII

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VIII

 

Ora io dirò perché mai Garibaldi fosse assente dal nostro accampamento presso il Faro, mentre i due legni borbonici vennero a tempestarci con tanta furia, come poco sopra ho narrato. Ma prima di poter dire dove fosse il nostro capitano, m’è necessario raccontare una cosa che non è mistero, ma che pure va detta per filo e per segno, non tanto per ordine del racconto, quanto per chiarire maggiormente un fatto, che alcuni vogliono controverso.

Fin da quando concepì l’idea della mirabile sua impresa della liberazione del mezzodì d’Italia, Garibaldi ebbe sempre fisso il pensiero della necessità di aiutarsi col dar faccende al papa, sia per impedire a questi di dar man forte al Borbone, sia per assalire vantaggiosamente anche alle spalle, per la parte de’ domini pontifici, il nemico che con tanta audacia andava assalendo di fronte.

Così, non appena sbarcato nel golfo di Talamone, lanciò oltre i confini dello Stato della Chiesa la banda dello Zambianchi, sperando che la poca favilla potesse suscitare qualche gran fiamma, e che i popoli insofferenti del turpe gioco de’ preti salutassero colle armi in mano il vessillo liberatore, che si spiegava in suo nome.

Il successo non coronò quell’impresa, e io non dirò le ragioni per cui fallì, essendo facile ad ognuno il comprendere come uno scarso manipolo, guidato da un capo di poca o punta riputazione ed inetto per soprappiù, fosse a tutt’altro buono, che ad incoraggiare le popolazioni, atterrite dal recente esempio di Perugia debellata, ed incerte se le camicie rosse dello Zambianchi fossero veramente l’avanguardia dell’esercito di re Vittorio.

Divenuto padrone di Palermo, ed allargato il teatro della guerra, Garibaldi tornò subito nella sua idea di far novità negli Stati del papa; e questa volta gli parve tempo non di tentarne i confini con un manipolo, ma sì d’assalirli con un corpo d’esercito, acciò i popoli non titubassero nel chiarirsi amici ai liberatori. Un proposito siffatto piaceva grandemente anche a Giuseppe Mazzini, il quale fu sollecito ad offrirsi a Garibaldi come aiutatore nella impresa. Garibaldi accettò la cooperazione di Mazzini, senza pensare per al rischio in cui si metteva col pigliare a chiusocchi un tal cooperatore: e dette incarico a Giovanni Nicotera di recarsi subito (come già narrai) in Toscana, per mettere insieme una legione di volontari. Mentre il Nicotera facea gente in Toscana, altri corpi di volontari si formavano altrove, sotto il comando supremo del conte Luigi Pianciani, il quale, facendo calcolo d’avere sotto i suoi ordini ottomila uomini e anche più, si disponeva ad assalire lo Stato del papa, per terra e per mare.

Il governo sardo lasciò, per qualche tempo, che tranquillamente si compissero quei preparativi, e in Toscana il barone Ricasoli li aiutò con danaro e con armi, mentre credette che la legione del Nicotera fosse destinata a crescere in Sicilia l’esercito del dittatore, e non sospettò, nemmen per ombra, che si trattasse dell’invasione degli Stati della Chiesa, e che a parte dell’impresa fosse il Mazzini. Ma quando gli fu palese il vero scopo dell’affaccendarsi del Pianciani e del Nicotera, quando si seppe che Giuseppe Mazzini era l’anima di quell’impresa, il governo di re Vittorio si pose subito sulle guardie, e intimò ai due comandanti di condurre immediatamente le loro forze in Sicilia, o di scioglierle.

Mentre, dunque, noi ci affaticavamo inutilmente per passare lo stretto di Messina, e mentre Missori e Musolino, che con pochi uomini l’avean passato, si trovavano alle strette e lottavano con audacia contro difficoltà d’ogni sorta, Garibaldi seppe che alquante migliaia di volontari erano riunite in Sardegna, e gli parve buono l’averle subito seco in Sicilia, e compiere col loro aiuto ciò che, sino a quel punto, aveva indarno tentato.

Per tale scopo, partì segretamente e di nottetempo, senza curarsi del rischio che correva, nel pigliar il mare in luogo tanto vegliato dalle navi borboniche; e quando ci accorgemmo della sua assenza, egli era già nel golfo degli Aranci.

Ormai l’impresa contro lo Stato del papa dovea considerarsi fallita, e Garibaldi non era uomo da volersi ostinare in una faccenda di quella specie, mentre con gli aiutanti che andava a procacciarsi in Sardegna, era certo di passare a viva forza sul continente, e di cominciare con ottimi auspici un’ardita marcia su Napoli.

Gli amici di Mazzini, e Mazzini stesso, non la pensavano come lui; costoro avrebbero voluto tentare ad ogni costo l’impresa che vagheggiavano, e che sarebbe parsa immaginata ed eseguita dal partito loro, senza curarsi punto del divieto del governo di Torino e degli ordini severi che aveva il Persano, di opporsi a qualunque tentativo di sbarco sulle coste pontificie. I mazziniani volevano aver la loro parte, chiara e netta, nella liberazione del Mezzogiorno della penisola, e volevano pigliarsi una rivincita, entrando nel territorio della Chiesa con una bandiera diversa da quella spiegata da Garibaldi nel golfo di Talamone. L’autorità del gran capitano rifulse splendidamente nel vincere quelle velleità inopportune dei caporioni della fallita impresa; e i giovani volontari lo seguirono in Sicilia, affermando che avrebbero imitato i fratelli dell’esercito del dittatore, senza pigliare ombra della croce sabauda.

Ma seguitiamo il racconto.

Lo sbarco in Calabria non fu meno audace, né men fortunato dello sbarco a Marsala.

Il giorno 19 d’agosto salì Garibaldi sul piroscafo Franklin, comandato dal capitano Origoni, amicissimo suo, anzi il solo dopo Medici, col quale si trattasse col tu. L’Origoni era stato lungamente con lui in America, e passava per marinaio abile ed arrisicato.

Noi solevamo chiamarlo l’ammiraglio, giacché nel quartier generale del dittatore era quegli che con maggiore autorità rappresentava la marineria. Del resto, era uomo alla buona e senz’ombra di pretensione; e ai modi, alle abitudini, alla franchezza, talvolta rozza, si sarebbe detto esser fratello del nostro povero Montanari.

Il Franklin era lo stesso legno che i borbonici avevano catturato nelle acque di Piombino, mentre recava in Sicilia il battaglione del colonnello Clemente Corte, e dovea tenersi in conto d’una delle migliori navi da trasporto della nostra piccola flotta. Vi furono caricati sopra mille e duegento uomini cioè qualcuno di più di quanti ne potesse portare comodamente. Garibaldi, appena salito sul Franklin, pigliò il comando e cominciò a dare ordini, facendo segnale al Torino di seguire la sua rotta.

Il Torino era un bellissimo e grosso legno, che per la prima volta appariva nella gloriosa baraonda nostra, e che seppe ricevere a bordo quasi tremila volontari. Lo comandava Nino Bixio, che impaziente di più lunghi riposi, e dispettoso di non aver potuto dividere con Medici gli allori di Milazzo, sentiva prudersi le mani.

Verso sera, i due legni presero il largo con ciel sereno e mare placidissimo. I volontari, sebbene stretti come le acciughe, e nuovi, per la più parte, ai viaggi marittimi, cantavano a piena gola ed erano pieni di voglia di vedere in faccia il nemico.

Parecchi tra gli ufficiali di Bixio, che s’eran trovati allo sbarco di Marsala, si chiamavano contentissimi di ripetere la bella prova; e Bixio stesso si riputava superbo di comandare, anche questa volta, uno dei legni, in una spedizione tanto piena di pericoli e promettitrice di tanta gloria.

Venuta la notte, cessarono i canti, e il dittatore ordinò tutte le cautele che si volevano, acciò i due vapori non dessero in occhio agli incrociatori napoletani, la cui vigilanza non era da mettersi in dubbio, sapendosi ormai per esperienza come nelle ore notturne vegliassero di continuo lo stretto, quant’era lungo ed era largo.

Erano circa le due del mattino, quando la spedizione fu vicina a Melito, luogo fissato per l’approdo, e le cose procedevano nel miglior modo desiderabile, quando il caso maledetto volle che Bixio, colla solita sua furia, spingesse innanzi a tutto vapore il Torino, e sorpassato il Franklin, lo facesse dare in secco in un basso fondo.

Per buona sorte, il basso fondo non era molto distante dalla spiaggia, e il mare era sempre calmo, e sereno era il cielo, e fu facile il mettere in mare le lance e cominciare in fretta a sbarcar la gente.

Garibaldi, accortosi subito di quel nuovo malestro di Bixio gridò:

– E due! Anche a Marsala accadde lo stesso!

Ma come e’ non fu mai uomo da perdersi in rammarichi volse tosto il Franklin accanto al Torino, e dato ordine che questi si alleggerisse il più possibile, si preparò a mettere in opera tutti gli argomenti che erano del caso per ritornarlo a galla.

Due ore ci vollero perché il pericolante legno fosse scaricato della gente e del bagaglio; ma per quanto Garibaldi e Origoni almanaccassero e facessero, il Torino non dava segno di sollevarsi sull’acqua, perché non c’era verso di muoverlo dalla sabbia, nella quale avea fitta, a mo’ di vomere, la prua.

Garibaldi non sapea risolversi ad abbandonare quel bel legno, tanto per lui prezioso, e bene immaginava che a giorno chiaro sarebbe impossibile nasconderlo alla crociera borbonica; per la qualcosa, veduto che tutti gli argomenti che avea tra mano riescivano inutili, decise andarsene col Franklin al Faro a cercare aiuto.

Salito dunque dalla lancia su cui avea diretto il salvataggio, sul Franklin, lo fece correre velocemente verso lo stretto; ma appena girato il Capo d’Armi, si trovò preso tra i due legni borbonici, l’Aquila e la Fulminante, che navigavano a breve distanza tra l’isola e la terra ferma.

Garibaldi, ritto sulla passerella del Franklin, in quel terribile momento, non disse una parola, ma col cannocchiale in mano contemplava tranquillo i due minacciosi vicini, mentre tutti gli sguardi eran fissi in lui, cercando di cogliere su quel volto un segno di trepidazione o di speranza.

Non s’udiva una voce; tutta quella gente accalcata sul ponte, sembrava attonita per la terribilità dell’impreveduto incontro, e non sperava salute se non dalla fortuna dell’uomo fatale, che sembrava superiore a tutti i rischi e a tutti i maligni scherzi del caso.

Il Franklin era privo d’artiglierie, sopraccarico di gente disavvezza al mare; mentre i due legni borbonici apparivano bene armati e adattatissimi al combattere.

Qual partito poteva scegliere ed avrebbe scelto Garibaldi?

Tutti lo dimandavano; nessuno era buono ad indovinarlo.

I momenti volavano, e la distanza che separava il Franklin dai due pericolosi vicini, diminuiva a vista d’occhio.

Origoni guardava anche egli il generale, e pareva impaziente di ricevere da lui qualche ordine.

Molti occhi si staccavano, di quando in quando, di sulla maschia e pittoresca figura del generale, per guardare i fianchi delle due navi nemiche, che apparivano muniti di grosse artiglierie... Ad un tratto, Garibaldi gridò:

Origoni, alzate bandiera americana.

L’ordine fu eseguito in un baleno. Tosto la Fulminante, dopo molti giri e rigiri, simili a quelli che fa per aria il falco, prima di piombare sulla sua preda, si pose sopravento al Franklin, mentre l’Aquila gli si poneva sottovento.

Dopo poco, il portavoce mandò dalla Fulminante le parole che seguono:

– Di dove venite?

Origoni, impugnato, a sua volta, il portavoce, rispose in lingua inglese:

– Non vi capisco.

Allora, la Fulminante pose in mare una lancia, e la lancia venne vogando verso il Franklin. Una voce rinnovò di sulla lancia la domanda:

– Di dove venite?

Questa volta, Origoni aveva un buon pretesto, non solo per non capire, ma anche per non udire, giacché il Franklin, che pochi momenti prima s’era messo in panna, avea cominciato a fuggir via velocemente, per ordine di Garibaldi, e il rumore della macchina e il gorgoglio delle onde non lasciavano giungere all’orecchio ben distinti i suoni del portavoce.

Per verità, in quel momento fu miracolo che qualche cannonata non volasse da’ fianchi della Fulminante, ma la bandiera americana seppe fare quel miracolo.

Si noti che pochi mesi prima, quando il Franklin fu catturato nelle acque di Piombino, la cattura fu fatta dalla stessa Fulminante. Deve, dunque, credersi che il capitano di questo legno non ardisse ripetere il giuoco, e non credesse prudenza il cercar nuovamente lana da filare dai fieri repubblicani dell’America del Nord, i quali non perdonarono mai che la loro stellata bandiera patisse sfregio per opera dei tiranni.

Comunque andasse la faccenda, è certo che le due navi borboniche lasciarono il Franklin continuare la sua corsa e virarono di bordo. Ma appena esse ebbero girato il Capo d’Armi, videro il Torino, lo riconobbero per un legno nemico, e si dettero a cannoneggiarlo. Quando poi il capitano del Fulminante s’accorse che cannoneggiava una nave abbandonata, messe in mare le lance, mandò gente a bordo, che pigliasse quel che c’era da prendere, e spiegate le vele e impeciatele ben bene, vi appiccasse il fuoco. Tosto messo fuoco al Torino il valoroso capitano della Fulminante, ritirata a bordo la sua gente, cominciò a sfolgorare bravamente coi cannoni l’acceso legno, e non ristette dalla sua brutale e ridicola battaglia, finché la magnifica nave, rotta e sfasciata, non sprofondò nei flutti.

Garibaldi fu spettatore lontano di quell’incendio e di quella batteria furibonda, e tanto gli increbbe il barbaro scempio, che accennando la fregata napoletana, esclamò:

– Ecco le loro battaglie!

Mentre il Torino bruciava, ci fu chi disse a Garibaldi:

Datevi pace, generale: a Marsala perdeste un vapore e guadagnaste la Sicilia; oggi perdete un altro vapore, e guadagnate Napoli.

Garibaldi tenne queste parole per augurio lietissimo, e veduto che le navi borboniche, intente a distruggere la facile loro preda, più non si occupavano del Franklin, fe’ tosto virar di bordo, e dopo alquanto cammino, gittò il naviglio sulla costa di Calabria, e prese terra colla sua gente.

Le cose avean proceduto a seconda; la perdita del Torino era per lui dolorosa, ma non pregiudicava punto il buon successo dell’audace impresa, per la quale la sua bandiera liberatrice sventolava sulla terraferma, con una scorta di qualche migliaio di uomini.

Le forze nemiche erano numerose due volte tanto, ma Garibaldi non contava i nemici: era certo che i popoli delle Calabrie non avrebbero tardato ad insorgere.

Poche ore dopo lo sbarco, seppe intanto che Bixio aveva occupato buone posizioni in vicinanza di Reggio; laonde, presa la via dei monti, e inoltratosi per alquante miglia, mandò in cerca di Missori, che sapeva essere in Aspromonte, ordinandogli che lo raggiungesse tosto colla sua gente in un punto indicato. In quel punto però lo attese invano per l’intiera notte, e per il giorno che seguì, giacché il messaggero, avendo smarrito la via, non giunse a Missori se non ad ora molta tarda, e così accadde che la marcia del valoroso comandante delle guide fosse ritardata oltre i calcoli del generale.

Il piccolo esercito passò tranquillo le prime ore della seconda notte sui monti, tenendosi in buona guardia, giacché era certo che due corpi di truppe borboniche, comandati dal Briganti e dal Melendez, avuto contezza dello sbarco dei garibaldini, accennavano muovere da San Giovanni e da Piale in soccorso di Reggio.

Verso le ore nove, giunse finalmente Missori coi suoi due o trecento uomini, e Garibaldi, contentissimo per l’arrivo suo, dormì sino alle undici sotto una tenda formata con due coperte, senza dare ordine che lo svegliassero e senza comunicare ad alcuno se avesse in animo di passar la notte in quel luogo, o intendesse invece di partirsene innanzi giorno.

Poco dopo le undici si destò; e incontanente fece chiamar Missori e volle che la colonna si mettesse subito in marcia alla volta di Reggio, designando di assalire innanzi giorno la città, difesa da due forti e presidiata da oltre duemila uomini.

Nino Bixio, il quale sin dal giorno innanzi aveva ricevuto dal dittatore ordini ben chiari, si mosse nello stesso tempo per assalire di fronte il castello, dove era chiusa la metà della guarnigione, mentre Garibaldi e Missori si sarebbero adoperati a sloggiare l’altra metà da una posizione che aveva occupata fuori dell’abitato, dietro un torrente, che in quella stagione estiva era secco.

L’attacco ebbe principio alle tre, cioè poco tempo innanzi l’alba. Bixio, alla testa dei suoi cacciatori, si spinge alla carica, e cogliendo il nemico quasi alla sprovvista, lo sforza con un furioso assalto a sloggiare dalla sua posizione e a riparare dentro le case. Il combattimento tra i nostri che tempestavano allo scoperto ed i regi che rispondevano con un fuoco ben nutrito di dietro ai ripari delle case, durò accanitissimo per un bel pezzo; ma alla fine, la pertinacia di Bixio l’ebbe vinta, e il nemico riparò entro il castello.

Appena i regi accennarono di dar volta, il valoroso Bixio, sospinto il cavallo, entrò in città quasi solo, e giunse con pochi uomini in una piazza, ove i regi lo accolsero dalle case e dalle cantonate delle vie con una tal furia di fucilate, che fu prodigio se il condottiero ardito non patì altro danno se non una ferita di palla nella mano destra. Ora, io rammento bene che pochi giorni dopo quel fatto d’arme, Nino Bixio essendo venuto a Scilla a far visita al colonnello Malenchini molto amico suo, e abbisognandogli di racconciare la fasciatura alla dolente mano, io chiamai uno dei nostri medici che lo curasse. E mentre il medico lo curava, egli mi disse:

Vedi questa ferita? Non me l’han fatta i borbonici, no; me l’ha regalata un mio soldato!...

Queste parole di Bixio sono assai per confermare ciò che mi assicurarono diversi in proposito della confusione infernale che ci fu in quel combattimento per le vie della città, dove è certo che i volontari, sboccando per diverse parti e tirando alla cieca, non poterono far a meno di non ricambiarsi qualche schioppettata tra loro.

Nino Bixio, sebbene invelenito per il dolore della ferita e impaziente di trarre a compimento l’impresa, seppe far tanto da rimettere a sesto la sua gente; e riordinate le cose, per quanto il castello non cessasse di cannoneggiare, riescì a rendersi padrone assoluto della città.

I volontari, veduto il nemico chiudersi nel castello, si dettero a gridare: «La scalata! la scalata!». Ma il castello aveva alte le mura ed era ben fornito di artiglierie; oltre a ciò, non erano in pronto gli argomenti necessari all’uopo; laonde fu ordinato che il castello si circondasse, aspettandosi che Garibaldi comparisse e risolvesse il da farsi. Intanto, Bixio, che non sapeva darsi pace, facendo suo pro di due cannoni tolti al nemico, li volse contro il castello e cominciò a batterlo. Ma quei due pezzi da campagna non eran tali da poter aprir la breccia nelle grosse mura del vecchio castello; sicché la batteria di Bixio non poteva venire a capo di costringere il comandante borbonico alla resa, mentre gli restasse speranza di essere soccorso con sollecitudine dalle truppe di Melendez e di Briganti.

Garibaldi, avvicinatosi a Reggio, ed avuta piena contezza dell’accaduto, avvisò indispensabile di impadronirsi del castello innanzi che gli aspettati aiuti giungessero, e si dette a circondarlo e a coronar di truppe le alture che il castello signoreggiano. Mentre egli a questo si adoprava, il castello spiegò bandiera bianca e si rese.

Il giorno appresso, il generale Cosenz, imbarcato buona parte della sua gente sulla flottiglia che ancorava presso Torre del Faro, scese in Calabria, tra Fiumara Alta e Forte Cavallo, pigliando posizione dietro le truppe del generale Briganti, che dovevano soccorrere il castello di Reggio.

La brigata capitolò senza colpo ferire. I soldati borbonici, vaganti qua e , come predoni fuggiaschi, incontrarono, dopo due , a Mileto, il loro generale e lo uccisero a fucilate sulla piazza dell’arcivescovado.

 

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Triste e doloroso per tutti, ma dolorosissimo fu per Garibaldi l’aspetto delle soldatesche borboniche, le quali, disarmate ed avide di bottino, si dispersero per rubare o per far mercato dei cavalli e delle robe, senza che fosse possibile ispirare in esse un sentimento di patriottismo e di onore, senza che ci venisse fatto di fare intendere a que’ figli indegni d’Italia che lungi dal considerarli come nemici vinti, anelavamo il momento di accoglierli nelle nostre file, di chiamarli fratelli e d’averli compagni in maggiori e più gloriose battaglie.

Da Reggio su su per la Calabria fin presso Cosenza, non si vedevano se non torme di borbonici, che vagavano per la campagna, sordi a qualunque preghiera, a qualunque rampogna, e irremovibili nel proposito di volersene tornare alle loro case.

Garibaldi pianse più d’una volta nel vederli, e non si stancava mai di ripetere:

Peccato! Che bei soldati sarebbero! Che bel marciare sarebbe con questa gente alla volta di Roma!

E veramente, quando si preparava in Genova alla stupenda sua impresa, non pensò mai che i soldati del Borbone non sarebbero stati buoni né pel loro re, né per l’Italia. Egli accarezzava allora la speranza di potere unire quei bei battaglioni ai battaglioni dei volontari, e formare così un esercito poderoso, e rompere la tregua coll’Austria e chiamare i romani alla riscossa. Era un sogno audace, senza dubbio, ma un sogno generoso, e noi non dobbiamo ascriverlo a peccato all’uomo che ebbe tanta poesia nel cuore ed amò tanto l’Italia.

 

 


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