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Non è possibile fermarsi col racconto al Pizzo, senza far parola di Giovacchino Murat, perché appena tu giungi sulla piazza che sovrasta alla marina, vedi un tetro ed augusto castellaccio dentro il quale venne compiuta la tragedia di cui fu vittima l’indomito cavaliere, che parve l’Achille dell’epopea napoleonica. Nella piccola corte di quel castello si vedono tuttavia sul muro le impronte delle palle, che trafissero il petto dell’eroe; e, a poca distanza, in una bella e vasta chiesa, è la tomba dove giacciono le sue ossa.
Due vecchi, che erano stati testimoni della rea tragedia, mi narrarono per filo e per segno la storia dello sbarco di Murat, e dissero come avvenne che, abbandonato dai compagni, venisse preso sulla spiaggia e tratto prigione nel castello. Il racconto dei due vecchi fu, nella massima parte, conforme a quanto avevo letto su tal proposito, nelle storie nostrane e nell’Histoire de la Réstauration di Lamartine; una sola cosa però mi giunse nuova, e fu questa: che Giovacchino Murat avrebbe potuto saltare in una barca e salvarsi, se uno dei suoi speroni non si fosse impigliato in certa rete, che un pescatore aveva distesa sul lido, perché s’asciugasse. Quella rete maledetta fu cagione che l’eroico capo della cavalleria di Buonaparte cadesse a terra, e che gli sgherri del Borbone lo acciuffassero.
Udita sino in fondo, colla maggiore avidità, quella storia per me pietosa, i due vecchi mi condussero in una bella chiesa, e additandomi una lapide all’altar maggiore, mi dissero: «Qui sta re Giovacchino».
M’assisi sopra una panca e meditai lungamente: la tomba di quell’eroe esercitava su di me una specie di fascino. Avrei voluto scoperchiare quella tomba, e vedere che cosa restava dell’uomo che meritò tra i moderni il nome di Achille, e che, dopo avere empito il mondo della fama del suo valore, era venuto a morire in una squallida cittaduzza della Calabria, giudicato ed ucciso come un malfattore o come un ignobile avventuriero.
Ad un tratto, alzando il capo verso la volta del tempio, vidi appesa, a sinistra dell’altare, una gran pezzuola di seta. Dimandato che cosa significasse quello strano pezzo di seta, che non poteva certamente essere stata una bandiera, mi fu risposto:
– Era il fazzoletto che aveva in mano re Giovacchino, e lo andava agitando per aria, nel chiamare il popolo alle armi.
Intesi subito che quella pezzuola veniva conservata lì come un trofeo, e parea consacrata alla divinità, non altrimenti che una spoglia, tolta a un nemico scellerato e temuto, vinto per miracolo, cioè per grazia di Dio, più che per virtù degli uomini.
Mi venne la tentazione di strappare quel compassionevole trofeo, e fui lì lì per ordinare a diversi soldati che eran meco, di recarmi una scala. Ma non sapendo se quell’atto sarebbe piaciuto o dispiaciuto a Garibaldi, mi tenni in cristi, ed uscito di chiesa, tornai tutto mesto sulla piazza.
La compassione per il povero Murat non l’avevo provata io solo; anzi, debbo dire che tutti quanti ebbero contezza della dolente storia, si commossero a segno tale, che a molti venne voglia di vendicar l’eroe, atterrando la statua del re Borbone, suo carnefice.
Quella statua sorgeva (e credo che sorga tuttavia) dinanzi al Castello, proprio in faccia al luogo dove ebbe il patibolo il prode dei prodi. Sembrava proprio l’apoteosi del carnefice sulla tomba della vittima. Parecchi volontari tolto un grosso canapo, l’avvolsero al collo della statua, e fatta catena, cominciarono a tirare il canapo, perché la statua venisse giù. La statua teneva forte, ma credo che a forza di tirare l’avrebbero smossa e precipitata a terra. Io me ne stavo a vedere senza aprir bocca, e non trovavo fuor di proposito quell’esempio di giustizia contro il perverso marito della regina Carolina, della donna cui fu delizia l’agonia di Cirillo, di Pagano, di Caracciolo, e di tanti altri martiri illustri, consegnati al boia pel delitto d’avere amato la patria.
Ma ad un tratto, una voce gridò:
– Fermatevi, è una statua modellata da Canova.
Il nome di Canova salvò il simulacro del re Ferdinando I, sebbene ci volesse del buono e del bello a persuadere i volontari che, in grazia di Canova, principe de’ moderni scultori, perdonassero il re Nasone.
Lasciata che fu in pace la statua, andai ad alloggiare in una casa molto alta, che è in fondo alla piazzetta, dirimpetto al castello, e che guarda di fianco la marina. Il padrone di quella casa, uomo sulla sessantina, mi condusse ad una finestra, che dà sulla spiaggia, o per dir meglio sulla ripida scesa che mena giù nella spiaggia; e mi disse:
– Ecco, quarantacinque anni or sono, da questa stessa finestra vidi cascare a terra re Giovacchino, e lo vidi prendere e trascinar su in piazza, col viso tutto insanguinato dai colpi, che gli menavano gli sbirri, guidati da Trentacapilli.
E mi narrò il funesto episodio con tante particolarità, che io potrei nel riferirlo empire molte pagine, se non temessi che i lettori avessero ad accusarmi d’essermi dilungato soverchio in una narrazione, che non ha attinenza alcuna all’assunto che mi son preso.
Non voglio però lasciare il Pizzo, senza accennare che la famiglia de’ Borboni fu riconoscentissima agli abitanti suoi, per la cattura di Murat, ed accordò loro diversi privilegi ed un’annua distribuzione gratuita di frumento. Quei privilegi e quel dono li abolì Garibaldi, e il governo di re Vittorio ne confermò l’abolizione. Fu proprio la disgrazia che trascinò Murat a sbarcare al Pizzo, mentre è certo che se avesse preso terra altrove e fosse potuto giungere a Monteleone, la fine della sua impresa sarebbe stata tutt’altra.
Non mi sentii punto disposto a voler bene agli abitanti del Pizzo, per quanto innocentissimi tutti del peccato dei loro babbi e dei loro nonni. Ma dappertutto non vedevo che Murat, non vedevo se non quel leggendario cavaliere, vera immagine del buon tempo antico, trascinato nell’infame castello dagli sgherri villani, in mezzo agli evviva della plebaglia sacrilega, che poco tempo innanzi aveva applaudito re Giovacchino vittorioso e potente, e aveva da lui accettato il denaro per fabbricare la chiesa, che poi diè sepoltura al suo cadavere.
Murat non fu italiano, e fu complice e servitore d’uno dei peggiori tiranni, che mai desolassero la terra; ma la grandezza dell’animo suo e lo splendore delle sue gesta, e, soprattutto, la miseranda sua fine, lo rendono degno d’ammirazione e di pietà a chiunque non abbia cuore diseredato d’ogni gentilezza.
Avrei pagato non so che cosa perché la statua del re Nasone non fosse stata opera di Canova, per potere aggiungere anche le mie mani a quelle che tiravano il canapo, che le avea avvinto il collo con un nodo vendicatore, e che doveva trascinarla in pezzi sulla terra, bagnata dal sangue di un eroe.
Mi trovai al Pizzo, due giorni dopo che la divisione del generale Ghio, forte di dodicimila uomini, aveva deposto le armi a Soveria, dinanzi a Garibaldi, seguito da poche centinaia dei suoi volontari e dinanzi alle bande calabresi di Stocco. Sulla piazza della città, un centinaio di gendarmi borbonici facean mercato dei loro cavalli, e contrattavano come se fossero stati in una fiera. I cavalli, giovani e robusti e forniti di ottime bardature, si vendevano, su per giù, diciotto o venti piastre l’uno.
Un colonnello siciliano, di cui non ricordo il nome, si fece in mezzo a quegli sciagurati mercanti e propose loro un premio di dieci scudi a testa, se avessero consentito a conservare i loro cavalli e a formare un bello squadrone di cavalleria al servizio di Garibaldi, promettendo inoltre buona paga e buoni viveri e rapide promozioni, secondo i casi.
Non uno di quei gendarmi volle accettar quei patti, e parve che si parlasse loro della China o del Tombuctu, quando parlammo dell’Italia e li scongiurammo per amor suo ad acconciarsi col colonnello.
Uno di que’ gendarmi che mi parve un maresciallo di alloggio, mi rispose, gesticolando alla sua maniera:
– E che vai dicendo, che vai parlando? Noi abbiamo capitolato e vogliamo andarcene alle nostre case. Che dobbiamo incaricarci della vostra Italia!