Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE TERZA Da Palermo a Capua

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Giungemmo due giorni dopo in Cosenza, e Nino Bixio cavalcava dinanzi a noi. Appena che fummo giunti in città, mille voci domandarono: «Dove son sepolti i Bandiera? Dove è sepolto Moro? Dove giace Ricciotti?».

E poco dopo baciammo una tomba, e visitammo un campicello solingo, dove i martiri magnanimi avevano espiato con la vita l’amore d’Italia. Era con una gran croce in mano il prete che li aveva confortati alla morte, era il becchino che li sotterrò, erano parecchi spettatori del supplizio, e tutti ci narrarono come i campioni d’Italia marciassero con fronte alta alla morte, cantando il coro di Donna Caritea.

 

Chi per la patria muor

Vissuto è assai;

La fronda dell’allor

Non langue mai!

 

E Nino Bixio si scoverse il capo e, girando gli occhi di falco, ci arringò come avrebbe fatto sul cominciare d’una battaglia, e i nostri occhi luccicavano di lacrime e le nostre labbra mormoravano tra’ singhiozzi una benedizione e le destre strinsero le destre, e poi un urlo feroce riempì l’aria, e quell’urlo intonava un giuramento che fu compiuto a Capua e fu compiuto a Roma. Inginocchiamoci tutti, e leggiamo:

 

Il 14 marzo 1844, alle ore sette e mezzo pomeridiane, un trabaccolo, comandato dal napoletano Caputo, partiva dalle acque di Corfù verso la costa calabrese. V’erano dentro Giuseppe Miller, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca, Domenico Lupatelli, Giuseppe Pacchioni, Carlo Osmani, Francesco Berli, Anacarsi Nardi, Domenico Moro, Niccolò Ricciotti, Pietro Piazzoli, Tommaso Mazzoli, Francesco Tesei, Giuseppe Tesei, Luigi Narni, Giovanni Manessi, Paolo Mariani e Pietro Boccheciampe, còrso, che doveva fra tanti martiri occupare il posto di Giuda.

A tutti sovrastavano per grado e valore, ma non per fermezza magnanima d’intendimenti, Attilio ed Emilio, baroni Bandiera. Figli di un ammiraglio al servizio dell’Austria, essi occupavano il grado di alfiere nella marina austriaca; e Attilio si trovò con Domenico Moro nella flotta d’Europa confederata, che bombardava San Giovanni d’Acri. Quando i prodi veneziani andarono a piantare la bandiera europea sui contesi baluardi di Tolemaide, Attilio, nell’ora del trionfo, fu preso da un sacro fremito; e voltosi a Moro, gli corsero sul labbro quelle patriottiche parole che Pellico pone in bocca a Paolo nella sua Francesca. Stringendo la destra a Moro: «Non abbiamo ancora noi» gli disse «una patria a cui consacrare il nostro sangue?». Si guardarono l’un l’altro, vergognosi delle austriache insegne che indossavano, della bandiera sotto cui avean militato fino allora; e sotto il cielo di Palestina fecero solenne giuramento di abbandonare il vessillo straniero e di spender la vita soltanto per la indipendenza d’Italia.

 

Questo narrava, sette anni dopo, il Regaldi; e chi in queste parole del poeta non sente rivivere le ire, le ansie, le lacrime or di speranza, or di rabbia, che la vista della conculcata Italia, strappava in quei tempi a tutti gli italiani?...

I fratelli Bandiera e Domenico Moro disertarono; e rifugiati a Corfù, mentre l’Austria li condannava e pubblicamente cercava d’infamarli, raccoglievano intorno a sé un piccol numero di prodi, e si apparecchiavano a discendere sulla riva calabrese. Il tragitto fu prospero, ma alquanto lungo, a cagione della mancanza di vento. Verso la mezzanotte del 15 giugno, trovavansi non molto lungi dalla spiaggia di Crotone. Spesero nel sonno le poche ore che li separavano dal nuovo giorno; se non che essendo saliti sul cassero al primo albeggiare, si avvidero con gran meraviglia e rammarico, essere così distanti dal lido, da non poterlo discernere. Richiesto il capitano del perché di un tal fatto, ei rispose che un vento contrario essendosi levato durante la notte, lo aveva costretto a retrocedere, ma la verità era che aveva pensato di sbarcare di notte per evitare ogni rischio. Sbarcarono, e i Bandiera, il Nardi, Ricciotti, Domenico Moro, si inginocchiarono e baciarono la sacra terra italiana, dicendo: «O sacra terra, tu ci hai dato la vita, e noi la spenderemo per te!...».

Non seguirò più oltre il racconto; sarebbe impossibile il descrivere con degne parole il tradimento del Boccheciampe, l’urto contro Urbani e i cacciatori spediti da Cosenza, e la nobile lotta. Caddero: Miller morto e Tesei ferito, Nardi e Moro furono colpiti da palle; Emilio Bandiera si slogò un braccio. Vennero finalmente presi tutti, e cominciò il giudizio che fu campo a que’ prodi di esprimere i nobilissimi pensieri che li avevano indotti alla magnanima impresa.

Il tribunale giudicò nelle spedite forme dei consigli di guerra; e, meno il Boccheciampe, condannato, per dar la polvere negli occhi, a cinque anni di prigione, tutti ebbero sentenza di morte. Il Borbone confermò le sentenze, lasciando al tribunale di accordare grazia della vita a tre soli, e furono scelti, come meno rei, l’Osmani, il Pacchioni, il Manessi.

Il 25 luglio i condannati, scalzi, coperti d’una tunica nera, e col capo velato, uscivano di Cosenza e venivano condotti al Vallone di Rovito, letto asciutto di un torrente poco distante. Nel tragitto cantavano inni patriottici. I soldati non osavano tirare; tantoché Ricciotti gridò: «Tirate pure; siamo soldati anche noi, e sappiamo che quando s’ha un ordine, s’ha da eseguire». Occorsero tre scariche per finirli; e fino all’ultima gridarono: «Viva l’Italia!».

 

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Adesso oda il lettore ciò che aggiunge un vecchio calabrese cui chiesi contezza del memorando episodio:

Volete permettere ad uno che fu testimone di quei fatti, aggiungere qualche notizia più precisa alle notizie che voi avete raccolte?

Nel 1844 i patriotti calabresi aveano deciso d’insorgere. Si contarono una notte nel bosco della Sila, tutti vestiti da cacciatori ed armati; ed erano mille. Fu deciso, sotto i pini della vecchia foresta, di assaltare la città di Cosenza, capitale morale delle Calabrie, far prigioniero l’Intendente (Prefetto), chiamar tutta l’Italia alle armi, proclamare un governo provvisorio.

Raccolse il giuramento de’ congiurati una giovine di maravigliosa bellezza, vedova, in freschissima età, di un barone delle Calabrie; signora di un gran castello nella Sila. Nel qual castello, dopo la riunione, si raccolsero i capi de’ congiurati, tra’ quali primeggiava il giovine Camodeca, albanese, uomo di figura omerica. Era passata la mezzanotte, era finita la cena e tutti stavano silenziosi. Un vecchio e fidato servo della signora del castello si presentò tutto convulso, esclamando:

– Egli è qui!

La giovine signora si alzò impetuosa dalla sua sedia e nel tempo stesso, spalancata la porta, si presentò un giovine da’ baffi biondi, colla carabina ad armacollo, vestito di velluto, dicendo:

– Son Giosaffatte Talarico! Sono il re della Sila!

A quel nome temuto, tutti si diè di piglio alle armi. Ma il brigante, senza scomporsi e con la massima calma, soggiunse:

– Voi non vincerete, ragazzi, senza di me. Accettatemi nella vostra compagnia, e vi do parola che solleverò le plebi della Calabria, c’impadroniremo di Cosenza, piomberemo su Napoli e la bruceremo!

Tutti gli animi esitarono a siffatta ardita proposta, innanzi a quell’uomo terribile; ma la nobile signora, cogli occhi lampeggianti e senza esitazione, rispose:

– No! Giosaffatte Talarico; tu non sei degno di alzar la bandiera della libertà calabrese. I liberali calabresi non ponno accettare il tuo aiuto. Tu contamineresti la nostra causa purissima e santa!

Nel stabilito, invece di mille, si presentarono a Cosenza, circa sessanta giovani, chiamando il popolo alle armi. Il capitano dei carabinieri Galluppi (figlio del celebre filosofo) innanzi al piazzale della Intendenza, ove gl’insorti si eran trincerati, alla testa di due squadroni diè l’assalto ai liberali: colpito al petto e alla fronte cadde morto: ma i suoi e altre truppe oppressero col numero i pochi generosi, tra i quali era il giovane Camodeca, che con sette compagni fu chiuso in prigione.

Conosciuti questi fatti, Mazzini organizzò la spedizione de’ fratelli Bandiera. E quando i Bandiera coi compagni partivano da Corfù, il giovane Camodeca co’ suoi sette compagni furono fucilati in Cosenza, precisamente nel luogo ove i Bandiera e i compagni furono fucilati di poi.

Camodeca dormiva quando gli fu annunziata la sentenza di morte. L’ascoltò senza muover ciglio, da eroe antico. Quando la sentenza di morte fu annunziata ad Emilio e Attilio Bandiera, essi chiesero di scrivere una lettera al Re di Napoli. E la scrissero e offrirono al Re di Napoli, in nome della rivoluzione italiana, il regno d’Italia. A cui il brutale Borbone rispose affrettando l’esecuzione della sentenza.

Quando io che scrivo, dopo lunghi anni di esilio, giunsi nella mia terra diletta, sconosciuto a tutti, appena si oscurò il giorno, mi recai sulla fossa di Camodeca e dei Bandiera. Era una sera di maggio, le siepi erano tutte fiorite, le onde del Crati e del Busento mormoravano parole d’amore. Cosenza e il suo nero castello si perdevano fra le ombre. Conobbi il loco funesto, e la funesta valle: caddi affranto su le zolle.

E quando mi rialzai, vidi al lume delle stelle una donna d’età matura, immobile, come una statua.

Abbandonai quella notte stessa la mia patria, né l’ho più mai riveduta. Ma quando penso alla tomba di Camodeca e dei Bandiera, e a quella valle del Crati, e a quelle siepi fiorite, mi vien sempre dinanzi al pensiero l’immagine di quella donna, vestita di nero, alta, immobile, silenziosa.

E dico sovente ne’ miei sogni:

– Oh, come non mi sono avveduto che era la castellana della Sila, la quale veniva a piangere su le fosse de’ nostri eroi?.

 

 


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