Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

XI

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XI

 

Stando in Cosenza, avevo udito l’annunzio del miracoloso ingresso del dittatore in Napoli, e a me tardava raggiungerlo, per ripigliare presso di lui il posto che avevo lasciato per accompagnarmi col colonnello Malenchini. Troppo tempo però ci voleva per giungere a Napoli per via di terra; sicché domandai a Bixio qual fosse il porto più vicino nel quale avrei trovato modo di imbarcarmi. Bixio mi disse che andassi con lui a Paola, e che colà mi imbarcherei prontamente con la sua divisione perché nel venturo, tre legni a vapore dovevano giungere in porto, per toglierla a bordo e trasportarla a Napoli.

Mi posi, dunque, in cammino insieme alla sua gente, in una serata afosa e scura, che ci prometteva una cattiva notte; e ben presto, lasciato il piano, cominciammo a salir su pei monti. Appena fatto buio, principiò il tuono a brontolare in lontananza, poi brontolò da vicino; e grossi goccioloni caddero dalle nugole, rotte, di quando in quando, dai lampi. Avevamo fatto poche miglia, allorché le tenebre si fecero fitte più che mai, e a segno tale, che spesso bisognava che ci fermassimo, aspettando che guizzasse un lampo per farci certi della strada. Cavalcavo accanto a Menotti e ad altri due ufficiali; i soldati ci seguivano cantando allegramente, e ridendo de’ lampi e de’ tuoni, e dell’acqua che veniva giù a catinelle, e ci aveva tutti zuppi dal capo ai piedi.

Io non rammento una bufera eguale a quella; raffiche furiose di vento minacciavano, a tratti, di rovesciarci giù, e ci mozzavano il fiato; le folgori scoppiavano con immenso fragore in mezzo alle vallate solinghe, e la luce dei lampi ci faceva vedere alla sfuggita i burroni spaventosi, che di qua e di fiancheggiavano la strada, serpeggiante sui fianchi delle montagne dirupate.

Due o tre volte udimmo gran tonfi e grida disperate, e ci fermammo. Alcuni carri e cavalli erano precipitati giù negli abissi, trascinando seco i disgraziati uomini, che li conducevano. Saputo di che cosa si trattasse, seguitavamo a marciare, raccomandando alla gente che si tenesse guardinga nel mezzo della strada e procedesse in buon ordine. Durò quella furia un paio d’ore o tre, e ci fu proprio chiara la verità del proverbio che dice: «Gente allegra il ciel l’aiuta».

Finalmente, come a Dio piacque, la bufera si calmò alquanto, ed i nostri poveri occhi distinsero diversi lumi, segno certo che ci avvicinavamo a luoghi abitati da creature umane.

Giungemmo al villaggio di Santa Fele, che siede sopra un breve altipiano; e fatta sosta, chiedemmo ed avemmo ricetto per le botteghe e per le case, occupandoci a rasciugare al fuoco i nostri panni, fradici mezzi.

Tre ore dopo, essendosi rasserenato alquanto il cielo, le trombe suonarono l’assemblea, e ci rimettemmo in cammino. A due ore di giorno, cominciammo a scoprire di sulle creste dei monti, che man mano si venivano abbassando, la marina di Paola. Quando fummo vicini a quella città un tre miglia o quattro, Bixio ci passò accanto, di gran galoppo, col suo stato maggiore, e disse qualche parola a Menotti. Tosto la truppa accelerò il passo, e ad un certo punto cominciò a correre.

Dimandai a Menotti che cosa significasse quella fretta, ma e’ mi serrò la bocca col rispondermi che così aveva ordinato Bixio.

M’accorsi allora che Bixio aveva in animo di giungere colla sua divisione a Paola innanzi che vi giungessero le truppe che, durante la notte, avevano marciato dinanzi a noi. Curioso di vedere come sarebbe finita quella gara, spronai il cavallo e raggiunsi certi battaglioni di Cosenz, che andavano marciando alla distanza d’un miglio o poco più, comandati dal colonnello Faldella. Trottai ancora qualche tempo, e mi trovai in mezzo ad un reggimento di Medici. Giunto che fui in Paola, vidi nella rada il Governolo, corvetta della marina reale sarda, e tre grossi piroscafi da trasporto, e vidi che i soldati di Medici avevano già trasportato sulla spiaggia i bagagli, e si disponevano a cominciarne l’imbarco. Sulla spiaggia erano due ufficiali dello stato maggiore generale, lasciati quivi dal Sirtori per vegliare l’imbarco delle truppe, con ordine espresso che la divisione Medici s’imbarcasse per la prima; e c’era il capitano Andrea Fossi, che i miei lettori già conoscono, e che fu il timoniere del Piemonte, nella traversata da Genova a Marsala.

Ora narrerò i casi che accaddero in quel giorno, comici in parte, ed in parte tragici, dai quali apparirà chiaro sempre più che l’occhio e l’autorità di Garibaldi erano tra noi più necessari del favore della divina provvidenza, e che dove mancavano quell’occhio e quella autorità, c’era da aspettarsi, da un momento all’altro, una seconda edizione della torre di Babele.

A una cert’ora, Bixio che colle sue genti era passato di corsa in mezzo ai battaglioni di Cosenz e a una parte della divisione Medici, giunse in Paola; e recatosi sulla spiaggia, e veduto che Medici aveva tutto pronto per l’imbarco, disse:

– Nessuno partirà prima di me; io partii primo da Genova, e non voglio che chi partì dopo me, mi preceda in Napoli a fare il bello.

Indarno fu detto a Bixio quanto aveva ordinato Sirtori, capo dello stato maggiore generale; indarno gli si volle far notare esser regola che le truppe s’imbarcassero regolarmente, a misura che arrivavano sul luogo dell’imbarco; incaponito nel proposito d’imbarcarsi pel primo, egli scacciò di sulla spiaggia que’ soldati di Medici che già l’aveano occupata, e fece avanzare i suoi, e si tenne pronto, senza voler udir ragioni da chicchessia. Ci fu un momento in cui temetti che la caparbietà del focoso Bixio non avesse ad essere causa di qualche maledetto guaio, perché i soldati di Medici masticavano male quella specie di prepotenza, e Medici stesso non sembrava disposto a tollerare in pace una riffa di quella sorta. I ferri erano caldi da ambedue le parti, e non mancava se non una scintilla per dar fuoco alle polveri. Per buona sorte, Medici, che fu sempre uomo ragionevole, seppe fare di necessità virtù, e cedette, pro bono pacis, alla strana pretesa del furibondo amico, e risolvette lasciare che e’ s’imbarcasse a suo agio e se ne andasse con Dio e col suo capriccio.

Qui ebbe fine l’avventura che chiamerò comica; ma adesso comincia la narrazione d’una avventura che, a buon diritto, dee chiamarsi tragica, e della quale nessuno (per quanto io sappia) fece cenno nelle storie o nelle cronache della guerra per la liberazione delle due Sicilie.

Erano le tre dopo mezzogiorno, quando i soldati di Bixio cominciarono ad imbarcarsi. La giornata era caldissima, e il sole picchiava forte, né bastava a temperare gli ardori il venticello fresco che cominciò a spirar sulla sera.

Bixio, che stava sulla spiaggia a regolare l’imbarco, aveva ordinato che si vietasse ai soldati di sdraiarsi sul ponte dei piroscafi, parendogli che, essendo questi troppo piccoli per contenere comodamente l’intera sua divisione, fosse indispensabile il far sì che nessuno collo sdraiarsi occupasse maggiore spazio di quanto era necessario per un uomo in piedi.

Ora accadde che alcuni volontari che si erano imbarcati pei primi e che da più di un’ora e mezzo stavano a rosolare sotto la sferza del sole, sentendosi stanchi, si stesero sul ponte e cominciarono a dormire la grossa. Questo accadde specialmente sul piroscafo Elettrico, dove io m’imbarcai, e che per essere più degli altri vicino a terra, si serbò per caricarvi sopra le truppe che ultime rimanevano sulla spiaggia. Caso volle che quando gli altri due legni furon carichi del tutto, restassero ancora da imbarcarsi due o tre centinaia d’uomini, i quali vennero spediti all’Elettrico. Il comandante dell’Elettrico, senza badare che molta gente giaceva sdraiata sul cassero, e che facendola alzare, si sarebbe guadagnato assai luogo, mandò a dire a Bixio che il suo legno era pieno zeppo, e che non stesse a mandargli altri ospiti.

Tuttociò accadeva mentre io me ne stava a sedere a poppa, ragionando col brigadiere Dezza e coi colonnelli Piva e Taddei, i quali, al par di me, eran lungi le mille miglia da sospettare che Bixio fosse per saltare in bestia, e per fare la gran corbelleria, per non dir peggio, che fece di a poco.

Ragionavamo, dunque, tranquillamente, col nostro bravo sigaro in bocca, quando una lancia si venne avvicinando all’Elettrico, e ritto sulla prua di quella lancia vedemmo Bixio, col suo mantello di lana bianca sulle spalle, che gesticolava furiosamente col braccio destro, mentre il sinistro, colla mano ferita, aveva adagiato sulla sciarpa, che annodata gli pendea dal collo.

– Ecco Bixio, – dissi. – O che diavolo ha costui? che cosa accenna?

Ma Bixio, oltre agitare il braccio, urlava con quella sua voce argentina, peggio d’un ossesso.

La lancia avanzava velocissima con quattro remi; onde, di a poco, udimmo chiaro che Bixio gridava: «Carogne, carogne tutti!» e simili altri titoli che aveva sempre in bocca, quando il diavolo gli metteva addosso il rovello.

Ci guardammo in faccia meravigliati non sapendo, né potendo indovinare con chi l’avesse costui; ma di a un minuto, la sua voce annunziò che ei l’aveva a morte col capitano del vapore, col brigadiere Eber e con tutti gli ufficiali che erano a bordo.

Giunta la lancia sotto il fianco dell’Elettrico, Nino Bixio, senza aspettare che gli calassero la scala, tolse dalla sciarpa il braccio ferito, e con ambo le mani afferrò una cima, e venne su, lesto come un gatto selvatico, a bordo; e veduto il ponte pieno di gente che dormiva, distesa come a letto, e fatto capace che i suoi ordini non erano stati obbediti, divenne peggio dell’arcidiavolo. E cominciò a gridare:

– L’avevo detto io, che non mi si è voluto obbedire, l’avevo detto?... Su, poltroni, su tutti!

E in così dire, dato il piglio alla canna della prima carabina che si trovò fra’ piedi si dette a menar giù col calcio non altrimenti che battesse le spighe del grano col correggiato sull’aia, non pensando che percuoteva teste e membra di poveri soldati tedeschi, della brigata del nostro buono e bravo colonnello Eber. Quella tempesta di colpi sollevò un tumulto indescrivibile, perché la gente percossa cominciò a urlare dal dolore, e tutti quelli che erano sdraiati sul ponte, saltaron su gridando e bestemmiando, e da ogni parte non si udirono se non voci di alto sdegno e minacce terribili.

Noi che stavamo sulla poppa, non avevamo veduto ciò che a Bixio avesse fatto fare la sua furia; ma udendo le grida e vedendo muoversi la folla, e sguainarsi lame ed agitarsi schioppi, fummo solleciti ad accorrere, e dico veramente gran ventura che così fosse, perché il Dezza e gli altri ufficiali superiori insieme al brigadiere Eber, poterono solo a gran stento trattenere i tedeschi, e gli italiani, massime i marinai dell’Elettrico che, inveleniti com’erano, non facessero a Bixio qualche mal giuoco. E il furibondo, appena vide farsi un po’ di largo, si slanciò sulla prua, e quivi, col revolver in pugno sfidava la folla, gridando con inaudito ardire: «Avanti, avanti, chi ha coraggio di toccare Nino Bixio!». E parea volesse ad ogni costo battaglia, mentre i suoi ufficiali, in lingua nostra e in lingua tedesca, s’adopravano a salvarlo e gli cercavano una via di scampo.

In quel punto parecchi marinai erano saliti sugli alberi e gridavano: «In mare! in mare!». Questo grido suonò, in un baleno, per cento e cento bocche; e io non so ancora per grazia di qual santo genovese ci venne fatto di aprire a Nino Bixio un varco fino alla scala, in fondo della quale l’aspettava il suo canotto con quattro rematori. Condotto, quasi a forza, sino alla scala, ei la scese minacciando sempre, e minacciava ancora mentre la barca lo traeva via, e non ristette dal gridare e dal maledire sinché non fu a terra.

Quietato a bordo il tumulto, si vide che tre o quattro tedeschi erano, più o meno, malconci, e che un povero trombettiere ungherese aveva offeso così crudelmente il cranio, da lasciar poca o punta speranza di sopravvivere sino al venturo.

I feriti vennero subito medicati e si consolarono taroccando in tedesco; ma il povero trombettiere ci rattristò coi suoi gemiti per quasi l’intera notte, e non saprei dire se la mattina lo trovasse vivo.

Quel disgraziato fatto ci addolorò, ma non se ne fece né allora né poi, a Nino Bixio, tutto il gran carico che meritava, giacché la gente era usa perdonargli volentieri per la sua gran bravura, e perché sapeva che certi tratti di ferocia fu solito commetterli quasi senz’accorgersene, trascinandovelo con forza superiore alla volontà l’indole impetuosa e insofferente d’ogni contrasto, anche minimo.

Si seppe poi che dolendosi amaramente, come era uso, del gran peccato commesso, pianse per tutto il viaggio e si morse le mani e maledisse la sua furia; e chiunque conobbe il gran cuore che egli ebbe, non dubiterà che e’ non avrebbe dato volentieri tutto il suo sangue perché l’accaduto non fosse.

Io, per mia parte, pensando a quel fatto, rammentai i peccati di manesca ferocia, nei quali molti illustri capitani del tempo andato trascorsero sovente, e trovai, anche da quel lato, la figura di Nino Bixio somigliante assai a Giovanni dalle Bande Nere o a Francesco Ferrucci, ai quali però vuol darsi scusa con maggior larghezza, per la diversità de’ tempi in cui vissero e degli uomini che ebbero a comandare. E mi parve non dovere essere stato molto diverso da Bixio il condottiero dalle Bande Nere, quando, dopo una zuffa, tornandosene all’alloggiamento, trovò certi suoi soldati, intenti a scaldarsi al fuoco, acceso con i pezzi d’un crocifisso, che avean rotto, e due ne uccise a stoccate, e gli altri pose in fuga malconci.

E narrai, quella stessa notte, a chi mi era accanto dentro una delle cabine dell’Elettrico, che Francesco Ferrucci, essendo in Pisa, pochi giorni innanzi la morte, ed avendo udito che i soldati còrsi s’erano abbottinati perché non aveva danari da pagarli, uscì loro incontro in giubbone e senza nulla in testa, e messo mano allo stocco, ne ammazzò tre, uno dopo l’altro, restando attonito tutto il resto, come racconta lo storico fedele.

Non riferisco questi esempi per attenuare la colpa di chi ultimo peccò, cercandogli una qualche scusa nel mal esempio: voglio soltanto dire che frequenti accorsero tra gli uomini di guerra più audaci e pigliatori di gran partiti siffatte nature impetuose, alle quali, per la minima ombra, si fa velo agli occhi, e non sanno comandare a se stesse, mentre paiono eccellentissime per aver sugli altri grande autorità.

Onde è sempre più degno di ammirazione e di lode Giuseppe Garibaldi, che mai non discompagnò l’autorità sua, che grandissima ebbe oltre ogni esempio, da quella pacatezza di modi e da quella osservanza scrupolosa della giustizia, che sembrano maggiormente proprie del filosofo che del soldato. E credo, come molti lo credono, che appunto da cotale equanimità procedesse la sterminata autorevolezza sua, giacché non fu cenno o comando o rimprovero escito dalla sua bocca, che non si obbedissero e non si rispettassero generalmente, siccome ispirati da sereno e quasi infallibile giudizio.

L’alba splendeva bella e serena, quando si spiegò ai nostri occhi l’incantevole meraviglia del golfo di Napoli.

Durante il breve viaggio, avevo stretto amicizia col luogotenente Caffaro, uno degli ufficiali di bordo dell’Elettrico, che fu poi capitano di fregata nella marina reale italiana.

Questo ufficiale non sapeva darsi pace della selvaggia sfuriata alla quale aveva trascorso il Bixio, e mi diceva:

– O come mai Garibaldi può tollerare quell’uomo?

– Che volete? – risposi. – Quell’uomo è veramente il braccio destro di Garibaldi ed ha un cuor di leone; ma quando lo piglia la mattana, diventa tigre. Però, se lo vedeste dinanzi a Garibaldi, vi parrebbe un agnellino. Adesso, son certo che è pentito di quel che fece, e piange a calde lacrime.

– Lo credo, – soggiunse l’ufficiale – ma le sue lacrime non disfanno il mal fatto. Io ho servito per alquanti anni nella marina borbonica, ma non ho veduto mai commettere certe cose, né si sarebbero commesse impunemente.

Mentre così andavamo parlando, venne il capitano Wolf, insieme ad altri ufficiali tedeschi, e mi disse:

Vedesti bene quanto accadde ieri sera dinanzi a Paola?

Purtroppo, – risposi.

– Or bene, ne informerai tu Garibaldi?...

Amici, – dissi – se egli me lo dimanderà, siate certi che non risponderò bugia; ma non vogliate pretendere da me che vada spontaneo ad accusare Nino Bixio.

Allora il Wolf mi fece sapere che per quanto il colonnello Eber e gli altri ufficiali superiori lo avessero scongiurato a far monte e a non dolersi dell’accaduto presso il dittatore, esso aveva in animo di presentarsi a lui e di chiedergli severa giustizia. E io dimandai:

– O dov’è adesso Nino Bixio?

E seppi che, invece di seguire la sua divisione, era rimasto a Paola, e s’era imbarcato sul Governolo. Immaginai subito che costui non aveva cuore di presentarsi a Garibaldi, e voleva starsene lontano per qualche giorno, sinché le prime e maggiori furie della tempesta non fossero sbollite. E così fu veramente, perché è certo che egli se ne andò a Genova e rimase quivi alcuni giorni, finché rassicurato dagli amici, o richiamato fors’anche dal dittatore, non se ne venne a Napoli, dove il destino gli serbava così gloriosa parte nella battaglia di Maddaloni.

 

*

* *

 

Sceso che fui a terra, chiesi dove abitasse il generale, e facilmente trovai chi si fece premura d’accompagnarmi al palazzo d’Angri in Toledo. Ero vestito, come potea essere un uomo che avea corso le Calabrie, senz’altro ben di Dio al di della roba che avevo in dosso; sicché non è a dirsi se mi paresse millanni di avere agio di mutar pelle e di rimettermi all’onor del mondo, sentendo quasi vergogna di trovarmi in quel misero arnese in mezzo al lusso che sfolgoreggiava nella bellissima strada.

Tosto salii su ed ebbi udienza dal generale, che mi disse:

Tornate ancora con me.

E, data un’occhiata a’ miei panni, soggiunse:

Andate a cambiarvi, giacché vedo che ne avete bisogno, e ci rivedremo fra qualche ora.

Non dirò quel che feci per procedere ad un totale mutamento de’ miei panni; i negozi di Napoli erano già pieni di camicie rosse, di calzoni neri colla striscia verde, di stivali, di cappelli alla calabrese, di sciarpe azzurre, e di quant’altro occorreva perché un giovane ufficiale garibaldino si mettesse in ghingheri, in un batter d’occhio. Fatto è che due ore dopo, tornai al palazzo d’Angri, e non parevo più quello. Colà rividi ancora alcuni de’ componenti la vecchiacasa militare” del dittatore in Palermo, ma la famiglia era cresciuta d’assai; “lo stato maggior generale” come lo chiamavano, sarebbe stato, pel suo gran numero, degno d’un imperator di Germania.

 

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Nel palazzo andava e veniva la gente alla bella libera, e questo ci dava pensiero non poco, tanto più che frequenti lettere anonime avvertivano sovente il generale a guardarsi e a non ricevere, colla solita facilità, persone sconosciute; facendogli sapere che sicari audacissimi, prezzolati dalla corte del re Francesco, erano in giro per fargli un mal tiro.

Il generale rideva di questi benevoli avvertimenti, ed era sempre fisso nel proposito di non voler guardia alla porta del palazzo, parendogli che la coscienza pura dovesse essere sufficiente usbergo contro qualunque pericolo; ma il colonnello Paggi, suo vecchio compagno d’America, che avea il comando del palazzo, dispose intorno a lui una severa vigilanza, e prescrisse a noi un servizio rigorosissimo nell’anticamera.

Durante il giorno, l’anticamera era piena d’ufficiali, ma nella notte vegliavamo soltanto in due, pigliando qualche riposo, a intervalli, sopra un materasso, disteso innanzi la porta della cameretta del generale.

La mattina seguente al giorno del mio arrivo, Garibaldi mi chiamò e mi disse:

– Non abbiamo ancora un sol uomo fuori di Napoli, dalla parte di Capua: pigliate con voi un sott’ufficiale delle guide, e recatevi subito a Caserta, e informatevi con precisione dove ed a qual distanza da quella città son gli avamposti del nemico.

E in così dire, tolto un foglio di carta mi scrisse la mia commissione, e mi accomiatò soggiungendo:

Badate bene, ve’, che non vi piglino prigioniero. Vi aspetto di ritorno innanzi notte; e sappiate dirmi ancora se in Caserta si credono minacciati.

Condussi meco un sergente delle guide, che vegliava presso la porta del palazzo, insieme ad altri due compagni; e recatomi alla ferrovia trovai per l’appunto il treno in procinto di partire, e salito su, fui in pochi minuti a Caserta.

L’arrivo della prima camicia rossa fu un avvenimento solenne per la città, e la gente ci accompagnò in gran folla al palazzo del municipio, dove, chiamato il comandante della guardia nazionale, esposi la mia commissione; quindi mi recai fuori per vedere quanto m’era dato vedere, senza pericolo d’esser preso. Tornai a Napoli innanzi notte, e riferii che la linea dei borbonici si stendeva da Caiazzo a Castel Volturno, e che i loro avamposti non erano vicini a Caserta più di tre miglia. Soggiunsi però che le pattuglie della cavalleria scorrazzavano talora in maggior vicinanza, perché io stesso ne avevo distinta una, coll’aiuto del mio binoccolo. Circa alle minacce che potean temersi dagli abitanti di Caserta, riferii che non si credeva tanto probabile che i regi s’avessero a fare innanzi tanto presto.

Garibaldi si pose a guardare una carta topografica, e poi m’accomiatò. Nell’uscire dalla sua camera, m’imbattei nel capitano Wolf, che insieme ad altri ufficiali tedeschi chiedeva udienza. Wolf mi disse:

Ehi, rammenta ciò che vedesti, e guarda che io ti chiamo per testimone.

Il maggiore Stagnetti, mio collega, li fece entrare e chiuse la porta della camera. Ma Fruscianti la riaperse tosto, dicendo, coll’aggiunta d’un sagrato di nuovo conio:

– Sei tu matto a lasciare il generale solo con quella gente?…

– Come? – esclamai. – Avresti paura che?...

– Non ho paura di nulla, – rispose il vecchio. – Ti dico soltanto che questi stranieri saranno buoni e cari, ma il figliuolo di mio padre non se ne fida.

Dopo pochi momenti, la voce del generale chiamò Fruscianti.

Fruscianti entrò nella camera e ne escì dopo poco, dicendomi:

Bandi, vuol te.

– Eravate a bordo dell’Elettrico? – mi domandò il generale, con piglio severo.

– Sì, signore.

– Ma è vero, dunque, che Bixio ha fracassato col calcio d’una carabina tre o quattro volontari della brigata Eber?...

– Sì, è vero...

– O perché non me lo diceste subito?...

Generale, toccava a me a dirvi certe cose?...

Garibaldi s’alzò e percorse due o tre volte per lungo la cameretta, esclamando:

Bixio!... Oh che uomo! Che uomo!...

E fe’ cenno che me ne andassi.

 

*

* *

 

Verso il 12 di settembre, la maggior parte dei vecchi battaglioni di Garibaldi era concentrata in Napoli, e già cominciavano a vedersi i calabresi co’ loro pittoreschi cappellini a punta; onde parve tempo di spingere qualche forza verso il Volturno, dietro il quale re Francesco avea riunito cinquantamila uomini e s’apparecchiava a ripigliar l’offensiva e a giocare grossa l’ultima partita.

Sicché il giorno 13, se non sbaglio, il dittatore, chiamatomi nella sua cameretta, mi disse:

Andate tosto da Cosenz e ditegli che domattina alle tre e mezzo faccia trovar pronta una delle sue brigate alla stazione della ferrovia; quindi dite a Sirtori che io ho fatto dar quell’ordine a Cosenz, e avvertitelo che per la stessa ora faccia sì che una delle brigate della divisione Bixio sia ella pure alla stazione. Poi andate alla ferrovia e ordinate al capostazione che raccolga nella notte i vagoni che potrà avere, e li tenga pronti per le tre e mezzo.

Escii di corsa, perché mancava poco alle ventitré, e mi recai prima da Cosenz e quindi da Sirtori.

Ora, senta il lettore qual gran peccato di scapataggine mi fe’ commettere la mia cattiva stella, e quanto poco corse, che una imperdonabile dimenticanza non mi rendesse eternamente indegno della stima e dell’affetto dell’uomo che sovra ogni altro amai sulla terra, ed amerò finché vita mi resti.

M’avviavo allegramente verso la stazione, quando m’imbattei nel colonnello Malenchini, che accompagnato da parecchi suoi ufficiali, tutti amicissimi miei, veniva su per via Toledo. Ci salutammo, ci abbracciammo, giacché da un pezzo non ci vedevamo, e ci demmo a discorrere di tante cose. Così discorrendo, siccome un discorso tirava l’altro, passeggiammo alquanto; quindi andammo a desinare, e poi fummo al caffè, e dimenticata affatto la mia commissione circa i vagoni della strada ferrata, mi trattenni così a lungo colla buona compagnia, che feci l’ora del dormire.

Gli amici mi accompagnarono sino al palazzo d’Angri: li lasciai, salii su nell’anticamera, dove m’aspettava il romagnolo Faconti, mio compagno di guardia per quella notte, mi tolsi le scarpe, indi mi stesi sul materasso e non tardai a pigliar sonno. A un tratto la voce di Garibaldi (benedetta quella voce!) mi scuote; salto su, piglio il lume, ed entro in camera.

Comanda, generale?...

Dite, Bandi, siete stato da Sirtori e da Cosenz?

– Sì, generale.

– E i vagoni li avete ordinati? Badate, que’ vagoni mi premono molto...

Oh Dio! Se nell’udire quelle parole non cascai morto, fu proprio miracolo di Dio che mi volle bene. Ma che dovevo rispondere? Dovevo dire che m’ero buttata dietro le spalle una commissione di quella sorta? Accanto al letto del generale c’era un tavolino da notte, su quel tavolino c’era il suo orologio... I miei occhi si fissaro su quell’orologio, e vidi che erano le undici e un quarto...

– Tutto non è perduto! – pensai, e con animo franco apersi bocca per dire una bugia, e la dissi.

Risposi infatti:

– Tutto sarà pronto, signor generale, per le tre e mezzo.

Va bene, – soggiunse il generalesvegliatemi un quarto innanzi le tre.

Richiusi l’uscio della camera. Ero più morto che vivo. Il mio compagno, giovane di forse venti anni, che poi fu ufficiale dei bersaglieri ed ebbe il dolore di trovarsi ad Aspromonte, dormiva beatamente; io lo svegliai, dicendogli:

Romagnolo caro, aiutami, o son l’uomo più disgraziato di questo mondo, e non mi resta che bruciarmi le cervella.

E gli narrai quanto mi accadeva.

Il buon romagnolo si vestì in fretta, dicendomi:

Corriamo insieme alla stazione, non disperarti: forse siamo ancora in tempo a rimediare, perché le altre stazioni sono vicine, ed è facile che in un’ora o due tutti i vagoni disponibili sieno a Napoli.

Queste parole mi riebbero. Chiamai le guide che erano di piantone alla porta d’ingresso del palazzo, e detti loro in consegna l’anticamera, e trovata, per somma ventura, una carrozza, vi salii con Faconti, promettendo al vetturino una piastra o quattro piattonate, a seconda del servizio che mi farebbe. Il vetturino frustò a man salva, e in breve fummo alla stazione. Un facchino che trovai addormentato sull’entrata, mi disse, svegliandosi, che tutti dormivano la bella vita, perché nessun treno correva di nottetempo. E io mi detti a scuoterlo per le braccia, gridando che chiamasse il capostazione, chiamasse il telegrafista, chiamasse tutti quanti potea chiamare; e insieme al compagno cominciai a suonar campane e campanelli e a dar calci a tutte le porte, accompagnando questa musica coi moccoli più piacevoli che sapessero coniare, in un duetto rabbioso, un toscano e un romagnolo.

Quel chiasso infernale fe’ sì che una porta s’aprisse, e comparve in camicia il capostazione, al quale sembrò, senza dubbio, che il suo dominio fosse preso d’assalto. Appena lo vidi, pigliai a fargli una gran bravata, chiedendogli se fosse quello il tempo di dormire, mentre avevamo la guerra alle porte della città e mentre il dittatore era in caso di dover muovere truppe da un momento all’altro, e facea calcolo sulla celerità del trasporto per la ferrovia. E tosto, ordinatogli che si vestisse, feci chiamare il telegrafista e quanti altri impiegati erano nella stazione, e, in meno di quel che si dice, ottenni si avvertissero tutti i capi delle stazioni, più o men vicine, che riunite le carrozze da uomini, da bagagli e da bestie, quante ne trovassero, si facessero premura d’avviarle subito e a gran velocità alla volta di Napoli, per un servizio urgentissimo, ordinato dal dittatore, minacciando il malanno a chi non obbedisse a puntino.

Passai qualche momento di terribile ansietà, né ristetti dal minacciare cose gravissime all’innocente capostazione, caso mai i vagoni non fossero stati pronti per le tre, in quella quantità che si voleva. Che sarebbe stato di me, se Garibaldi non avesse potuto eseguire il movimento di truppe che gli pareva necessario, e se in quel mentre, per mia disdetta, le truppe regie avessero fatto qualche movimento che a lui non andasse a’ versi? Quale scusa avrei trovata per attenuare la mia trascuraggine, e più la gran bugia che gli avevo detta?

Gl’impiegati della stazione, udendomi giurare e minacciare piombo e corda, tremavano come tante foglie, e affrettavano a mani giunte le risposte del telegrafo. Finalmente, come Dio volle, il capostazione mi assicurò che tra un’ora e mezzo al più, sessantaquattro vagoni sarebbero stati pronti agli ordini del dittatore, e io respirai.

Tornammo, allegri come pasque, al palazzo d’Angri, e non pensammo a ripigliar sonno. Un quarto innanzi le tre, svegliai il generale, ed offrendogli una buona tazza di caffè gli dissi:

Sessantaquattro vagoni son pronti; non mi fu possibile averne in maggior numero.

Bastano, – rispose, e bevuto il caffè si vestì.

Due ore dopo le prime truppe garibaldine partivano in ferrovia alla volta di Caserta.

 

 


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