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In que’ giorni, capitò in Napoli Agostino Depretis. Me lo vidi, una mattina, accanto, in tempo di colazione, e non sapendo chi fosse, domandai a chi mi stava a sinistra, il nome dell’uomo barbuto ed ispido come un orso, che mi sedeva a fianco dall’altro lato. Mi fu risposto essere il prodittatore di Sicilia. Costui era venuto a Napoli in tutta furia, perché in Palermo si trovava ridotto a mal partito, per le insistenti premure di certi faccendieri che esigevano immediata l’annessione dell’isola al regno di Vittorio Emanuele, senza aspettare che Garibaldi avesse compiuto la sua impresa. Erano i discepoli del La Farina, che continuavano usque ad finem l’opera di lui, senza avvedersi che facevano oltraggio indegno alla lealtà del dittatore e il Depretis aveva, senza dubbio, accettato la prodittatura coll’intendimento di compiacerli, per quanto gli fosse possibile il farlo, senza far dispetto a Garibaldi.
Il Depretis era taciturno e pensieroso e tirava già gran bocconi, rispondendo brevemente a qualche domanda, che gli faceva, di tanto in tanto, il dittatore.
Seppi poco dopo che il prodittatore della Sicilia, trovando Garibaldi irremovibile nel suo proposito, aveva dovuto piantare il banco e il benefizio, e non gli restava altro se non tornarsene a Torino per render conto a Cavour delle difficoltà insuperate, e della pertinacia del dittatore, fisso nell’idea di non voler esser vinto né dai raggiri, né dalle blandizie di chi non si fidava di lui. Sul mezzogiorno, venne in palazzo il Mordini, e Garibaldi stette chiuso in colloquio col vecchio repubblicano, per un’ora e più.
Sul far della sera, fui chiamato dal generale, che mi disse:
– Andate alla maggioria della marina, e fate che il comandante Vacca mi faccia tener pronto un buon vapore per le dieci precise.
Andai alla maggioria e comunicai l’ordine al comandante Vacca, il quale mi chiese quanto tempo dovea viaggiare quel vapore.
– Non si sa, né si può sapere – risposi sorridendo – perché Garibaldi non dice mai a nessuno dove va. Però, non credo che voglia andare alle Antille, mentre i borbonici accampano sul Volturno.
– Va bene – soggiunse il comandante. – Dite al dittatore che sarà obbedito.
Alle nove e mezzo escimmo dal palazzo d’Angri in tre carrozze, e giungemmo alla marina in mezzo alle grida e agli evviva della gente, che s’affollava sul passaggio del gran capitano. Il vapore che ci aspettava, era l’Elettrico, cioè lo stesso che da Paola m’aveva portato a Napoli, pochi giorni innanzi. Il generale fu accompagnato a bordo da parecchi ufficiali della antica marina borbonica, e noi salimmo dopo lui. Eravamo dieci, e tra questi dieci c’erano il Mordini, il Missori, il Nullo, il Canzio, il Caldesi e frate Pantaleo. Il vapore procedé alquanto senza che sapesse nessuno (tranne il Mordini) dove eravamo diretti: poi, quando fummo distanti dalla spiaggia un paio di miglia, Garibaldi disse forte:
– A Palermo!
Viaggiammo lietamente perché il tempo era calmo e quel vapore era il più veloce di tutta la marina borbonica, filando col mare buono circa tredici miglia l’ora. Garibaldi, parlando di quella velocità, straordinaria nei piroscafi di quell’epoca, ci diceva:
– Con sei legni come questo, pigli l’impegno di tenere in faccende la prima flotta del Mediterraneo.
Scendemmo a Palermo sul mezzogiorno. Soffiava un vento di scirocco, caldo e soffocante come il vento del deserto. La marina era solitaria, e solitaria pure ci apparve la via Toledo.
Eravamo giunti inaspettati, e nessuno in Palermo pensava all’arrivo di Garibaldi, ma appena i palermitani seppero d’avere ospite il loro eroe, le campane cominciarono a suonare a distesa e parve che la città passasse in un baleno dal sonno alla festa. Le botteghe, chiuse quasi tutte per il gran fastidio dello scirocco, si apersero, le finestre si schiusero, le bandiere sventolarono, e in un attimo la vasta piazza del palazzo reale fu gremita di popolo acclamante.
Appena giunto in palazzo, Garibaldi convocò subito il ministero, e trovatolo concorde nel proposito di voler immediata la annessione, gli annunziò che lo mandava a spasso; e, in quattro e quattr’otto, fece ministri nuovi, e a questi presentò il nuovo prodittatore Mordini. Quel modo di procedere, assoluto e spiccio, dispiacque molto ad alcuni, ma piacque grandemente a me. Non eran tempi quelli da chiacchiere e da rettoricumi, ma sì da pronte e vigorose risoluzioni. A me piacque Garibaldi capitano, e lo ammirai dittatore.
Rinnovato così il governo nell’isola, egli s’affacciò al balcone e parlò al popolo esortandolo a guardarsi «dai falsi profeti» e ringraziandolo della piena fiducia di cui lo aveva gratificato e lo gratificava tuttavia. Disse dell’annessione intempestiva, protestando che a Palermo si voleva imporre l’annessione perché non si passasse lo stretto, e si voleva imporre a Napoli perché non si passasse il Volturno. Attestò solennemente la sua sincera amicizia a re Vittorio, e terminò dicendo che raccomandava il nuovo governo alla fede del popolo palermitano. Le ultime sue parole furono queste: «Addio, popolo, abbi fede in me, che mai non ho ingannato nessuno, né son capace d’ingannare!».
*
* *
Era notte buia, quando escimmo dal palazzo per imbarcarci e tornare a Napoli. La piazza era gremita di popolo, e la via Toledo, affollatissima anch’ella, appariva illuminata come per festa. Le carrozze procedettero di passo lento sino al porto, perché i cavalli duravano fatica a rompere l’onda del popolo che ci veniva sopra, quasi volesse travolgerci. Non è possibile descrivere l’entusiasmo di quella folla, né la ressa che ci faceva; ogni parola sarebbe al di sotto della verità. E dalle finestre piovevano fiori e ramoscelli di lauro, e le donne agitavano i fazzoletti, e ci salutavano con affetto indicibile. Garibaldi, che per il solito, non dava mai segno di commuoversi per queste dimostrazioni, disse più volte: «Oh, vedete voi come mi vuol bene questa gente!».
Giunti al porto, scendemmo, e ci volle una fatica d’inferno per dare agio al generale di scendere dalla panchina in una barca, senza che la gente, precipitandosegli addosso, nol rovesciasse giù in mare. Ma ciò che non accadde al grande uomo, accadde a me, povero uomo spicciolo che scrivo queste pagine; perché non appena Garibaldi ebbe messo i piedi sulla barca, fui sbalzato da un grand’urtone, e tosto il fresco dell’acqua marina mi fece accorto che ero precipitato giù nel grembo di Teti. Ma non ebbi quasi tempo d’aprir le braccia per nuotare, ché una mano vigorosa mi prese pel colletto della camicia e io mi avvinghiai subito a quella mano, e mi sentii tirar su nella barca. Garibaldi m’avea afferrato pel primo; e gli altri che erano seco, furono solleciti a dargli aiuto; sicché appena intinto nell’acqua, fui tratto a salvamento. Le prime parole che udirono le mie orecchie furono queste:
– Eh diavolo! Volete farmi affogare questo ragazzo!...
Riconobbi la voce del generale, e risi di gran cuore; e tutto fradicio com’ero, salii cogli altri sull’Elettrico, dove sedetti a mensa tutto nudo de’ miei panni, ma avvolto in un lenzuolo, come in un paludamento romano.
L’Elettrico era lontano più d’un miglio da terra, e udivamo tuttavia le grida, colle quali il popolo di Palermo salutava il suo liberatore.
Giungemmo a Napoli il giorno seguente, nella mattinata. Il generale si chiuse nella sua stanza con Sirtori, e vi rimase a lungo.
Dopo pranzo, spedì diversi ordini, e si coricò di buonissim’ora, dicendo a me, cui toccava la guardia, che lo svegliassi innanzi le tre, e mentre lo aiutavo a spogliarsi, soggiunse:
– Credo che domani faremo qualche cosa.
Queste parole in bocca sua dicevano chiaro che eravamo in procinto di menar le mani e di ricominciare la vera guerra, lasciata in tronco dopo le facili vittorie di Calabria, per le quali tante migliaia di soldati regi, posando le armi s’eran dileguate al cospetto delle nostre avanguardie.
Racconto ciò che accadde il giorno 19 settembre per far sapere come in quel giorno Giuseppe Garibaldi corresse pericolo vicinissimo d’esser morto e non fosse debitore della vita se non alla buona fortuna sua.
Partimmo da Napoli in ferrovia, mentre ancora era buio, e giungemmo a Caserta sul far del giorno. Quivi, dopo breve sosta, trovammo le carrozze che ci condussero a San Leucio. Scendemmo e il generale rimandò via le carrozze. Proseguendo a piedi il cammino, giungemmo in un luogo, dove la strada, inoltrandosi in una stretta gola fra due colline, fa capo ad una breve pianura che si stende sino al Volturno, innanzi al luogo che è detto Scafo della Formica. Colà ci venne incontro il generale Türr, che aveva disposto per combattere alcune compagnie della sua divisione, le quali cominciavano già a scambiar fucilate con gli avversari regi, che costeggiavano la opposta riva del fiume.
Pochi momenti dopo il nostro arrivo, cominciò a sentirsi il cannone. I regi avevano rinforzato gagliardamente la linea dei loro avamposti, e due batterie da campagna avevan preso posizione sulla sponda destra del Volturno.
Türr non aveva che due soli cannoni, e questi risposero al fuoco dei regi, mentre i nostri cacciatori, sospinti dalla bramosia di misurarsi da vicino col nemico, si avanzavano correndo sino al fiume, non curando le fitte scariche di moschetteria né la mitraglia, che seminava la morte nelle loro file.
Garibaldi vide agevolmente che Türr si era impegnato in una faccenda assai rischiosa ed avea trascorsi di gran lunga gli ordini ricevuti, secondo i quali, avrebbe dovuto fare una ricognizione, assaggiar le forze del nemico e nulla più. Ma ormai, il dado era tratto; un battaglione, comandato dal Cattabeni, varcando il fiume per il passo di Limatola, s’era spinto su Caiazzo, e non si poteva troncare il combattimento, senza sacrificare quel battaglione, e senza dare, per la prima volta in quella guerra, lo spettacolo d’una ritirata, che avrebbe molto sminuito presso il popolo di Napoli la fama d’invincibile che circondava il nome del dittatore.
Per la qual cosa, Garibaldi, lasciando Türr, che dirigeva la sua fazione, asciugandosi, tratto tratto, colla pezzuola il sangue che gli fluiva dalla bocca, come suol fare chi patisce l’emottisi, s’incamminò con noi verso un colle che serrava la gola della valle a man sinistra per specolare da quella eminenza la battaglia e per vedere che cosa consigliassero gli avvenimenti.
Tornando indietro ci occorse passare dinanzi all’ambulanza, presso la quale giacevano parecchi feriti, che man mano venivano medicati e messi sulle vetture che dovean trasportarli a Caserta. Alcuni di que’ feriti, assai malconci, si lamentavano, altri piangevano. Appena una voce gridò: «Ecco Garibaldi», que’ poveretti si tacquero, e si sollevarono da terra per vederlo, e raccolsero quanto fiato avevano per gridare: «Viva Garibaldi!».
Salimmo sul colle, e tosto qualche palla di cannone ci ronzò vicina. Alcuni volontari che erano stesi in catena sul colle, cominciarono a fuggire, ed uno di essi s’appiattò in una fossa. Garibaldi, vedutolo, gli si fe’ sopra e sollevandolo per un braccio gli disse:
– O non ti vergogni ad aver paura?
Il volontario, che era un ragazzo poco più che sedicenne, riconosciuto Garibaldi, si fe’ rosso come il fuoco, e correndo innanzi, sparò il suo fucile contro il vento.
Fatto ancora qualche passo, fummo in vetta al colle, dov’era una breve spianata, e di lì vedemmo le batterie dei regi che sfolgoravano i nostri, di mezzo agl’intervalli dei battaglioni, i cui fuochi erano stupendi a vedersi e ordinati come negli esercizi di piazza d’armi. Eravamo quindici o venti persone intorno al generale, e formavamo con lui un bel gruppo, che il nemico dovea discernere a meraviglia anche senza l’aiuto del cannocchiale.
Garibaldi guardò alquanto la linea del nemico con un binoccolo, poi volgendosi al colonnello Paggi, cominciò a dargli certi ordini. Noi stavamo disposti a cerchio dinanzi a lui. In quel mentre una granata ronzò sopra di noi e si ruppe con gran fracasso, ed una grossa sua scheggia cadde giù a fittoni, come un aereolite ai piedi del generale.
Egli non si mosse, ma ci gridò:
– Scostatevi tutti!
Ci scostammo chi in qua chi in là e fu fortuna che così facessimo, perché una intiera batteria cominciò a sfolgorare la cima del colle, ed avemmo appena il tempo di svignarcela, pigliando un sentiero boscoso, che per un altro colle più erto, guidava al monte Sant’Angelo.
Giunto a Sant’Angelo, il generale sapendo Türr in gran pericolo e premendogli di aiutarlo col distrarre una parte delle forze nemiche, ordinò un finto attacco contro Capua, attacco che, pel soverchio ardore dei volontari, si risolvette in un attacco vero, quanto pazzo, contro le mura della fortezza. Vedemmo in quel giorno alcuni battaglioni correre alla baionetta fin sull’orlo del fosso della fortezza, e quivi essere decimati dalla mitraglia e quindi pesti dalla cavalleria, che uscì tempestando a frotte.
Le perdite nostre furono assai gravi, in quel giorno, ma parvero compensate ad usura dalla presa di Caiazzo, vittoria audace e funesta, che dovea essere amaramente scontata innanzi che ventiquattr’ore fossero corse.
Rammento che la brigata la quale, sulla sera, andò a rompere il capo contro le mura di Capua, spiegando senza frutto un mirabile ardore, era comandata dal colonnello Puppi, toscano vecchio ufficiale delle truppe del granduca, e venuto via dall’esercito per certi suoi particolari disgusti. Era costui un vero capoarmonico; bizzarro, loquace, tutto di sua testa, suonatore di violino, ma non privo di buon cuore e d’ingegno. Lo avevo conosciuto parecchi anni innanzi, e gli volevo bene perché la sua compagnia m’era piacevolissima, come quella che facea mirabilmente ufficio di scacciapensieri.
Caso volle che andassi io ad avvertire il colonnello Puppi che il dittatore lo aspettava colla sua brigata a Sant’Angelo, perché il dittatore m’avea ordinato di recarmi a Caserta e di mandargli a passo di corsa la brigata che troverei sulla piazza del palazzo reale.
Ero a piedi e la strada era lunga e non era prudenza il perder tempo e risposi:
– Generale, se vuole che eseguisca presto i suoi ordini, mi faccia dare un cavallo.
Tosto fu fatto scendere da cavallo un ungherese, e io salito in sella, m’avviai di galoppo. Giunto sulla piazza di Caserta, vidi parecchie compagnie a bivacco, e chiesi del brigadiere, che non sapevo chi fosse. M’accennarono un uomo che dormiva, steso per terra, ed avvolto in un mantello. Scossi, tutt’altro che dolcemente, il dormiglione, e questi, svegliandosi a malincuore, mi salutò con un sagrato. Poi, riconosciuto che m’ebbe, esclamò:
– O matto del diavolo, di dove se’ tu escito? Si diceva per Firenze che i borbonici t’avean fatto la festa, ed eccoti invece qui, più fresco e più scellerato di prima... Che vuoi da me, chi ti manda?...
– Sta su, – risposi – e fa dare nelle trombe. Garibaldi vuole che tu venga subito meco ed ei t’aspetta a Sant’Angelo.
Il colonnello Puppi accarezzò i suoi gran baffi, fe’ scorrere la mano sulla sua testa monda, e compiuta così l’acconciatura, radunò in un baleno la sua piccola brigata, e partimmo insieme.
Dopo un’ora, o poco più, accadde quel che accadde. Incapace di fermare i suoi soldati che avean preso l’aire, e correvano gridando: «Savoia!» contro i bastioni della fortezza, galoppò anch’egli all’assalto, e una scheggia di mitraglia lo colse nel ventre e l’ebbe rovesciato a terra moribondo. I soldati regi lo raccolsero e lo trassero dentro Capua, dove innanzi notte rese l’anima a Dio.
In proposito di quanto accadde il giorno 19 di settembre ed agli errori che furono commessi, Garibaldi lasciò scritto quanto segue, nel suo libro dei Mille:
Obbligato di lasciare l’esercito sul Volturno, e di recarmi a Palermo per placare quel bravo e bollente popolo nell’esaltazione in cui l’avean spinto gli annessionisti, io avea raccomandato al generale Sirtori, degno capo dello stato maggiore dell’esercito meridionale, di lanciar delle bande nostre sulle comunicazioni del nemico.
Ciò fu fatto, ma pure chi ne avea incarico immediato, stimò opportuno di fare qualche cosa di più serio, e col prestigio delle precedenti vittorie non dubitò qualunque impresa essere eseguibile dai nostri prodi militi.
Fu decisa l’occupazione di Caiazzo, villaggio all’oriente di Capua, sulla sponda destra del Volturno.
Il 19 settembre ebbe luogo l’operazione: si occupò Caiazzo, ed io giunsi lo stesso giorno per assistere al deplorevole spettacolo del sacrificio dei nostri poveri volontari, che avendo marciato, secondo il costume loro, intrepidamente, sul nemico sino all’orlo del fiume, furono poi obbligati, non trovandovi alcun riparo contro la grandine delle palle nemiche, a retrocedere fuggendo, fulminati alle spalle.
Il giorno seguente, credo, il nemico inviò un forte nerbo di forze ad attaccare i nostri in Caiazzo, che in pochi furono obbligati ad evacuare, e ritirarsi precipitosamente verso la sinistra del Volturno dopo essersi valorosamente battuti ed aver perduto non pochi militi, morti, feriti od affogati nel fiume. L’operazione di Caiazzo fu, più che un’imprudenza, una mancanza di tatto militare da parte di chi la comandava.
E serva quest’esempio ai nostri giovani militi, tuttora obbligati a studiare quella manìa di macellar gli uomini, che si chiama arte della guerra.
In quel disgraziato giorno fu tanto l’accanimento dei soldati regi che presso Scafo della Formica, parecchi di loro osarono passare il fiume ed assalire i nostri a colpi di baionetta. Parecchi nostri feriti che giacevano sul greto, e non ebbero forza di trascinarsi molto indietro, non ebbero quartiere dai bavaresi furibondi.
Garibaldi tornò in Napoli ad ora tarda, e ordinò sollecitamente che tutte le truppe si recassero il giorno dipoi a coprire la nostra linea di battaglia, che da Maddaloni si stendeva sino a Santa Maria. Lo vidi in quella sera pensieroso e taciturno, e soventi volte lo udii rammaricare che tanto sangue e tanto valore si fossero sprecati senza frutto in quello sciagurato giorno.
Vero è quel che ha scritto il Guerzoni: «Il dittatore aveva certamente ordinato che si spedissero scorribande oltre il Volturno, ma non aveva inteso ordinare che si pigliassero posizioni fisse, e molto meno che si dessero battaglie per prenderle. Quando egli giunse, la mattina del 19, allo Scafo della Formica, era troppo tardi per impedire ciò che avvenne, e non restava da far altro che attenuare più che fosse possibile le conseguenze d’una impresa inconsulta».