Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE TERZA Da Palermo a Capua

XIII

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XIII

 

Non conoscevo Mazzini nemmen di veduta, ma per lungo tempo avevo avuto secolui corrispondenza epistolare, essendo segretario del comitato fiorentino della Giovine Italia membri del quale erano Giuseppe Dolfi, Luigi Romei, Annibale Lapini, Carlo Bosi, Emilio Bacci ed altri che non rammenterò. Avevo un desiderio infinito di vederlo, di conoscerlo da vicino, quell’uomo, che solo, inerme e fuggiasco, avea fatto tremare sul trono tutti i tiranni d’Europa; mi parea mille anni d’udire quella voce, che da lungi avea tante volte fatto battere il mio cuore e m’avea spremuto dagli occhi lacrime di dolore e di tenerezza; quella voce che ci avea confortati a sperare e ci avea tenuto viva nell’animo la fede nel trionfo prossimo di una causa santa, mentre tutti disperavano, mentre i più si rassegnavano codardamente a vivere e morire schiavi.

Io spesso, guardando Garibaldi e pensando a Mazzini, dicevo tra me: «Qual miracolo d’uomo non avrebbe l’Italia, se Garibaldi e Mazzini fossero un uomo solo; se vivesse tra noi un uomo che chiudesse in sé le virtù dell’uno e dell’altro!».

Ma purtroppo Garibaldi e Mazzini non solo non furono un sol uomo, ma furono quasi sempre discordi, né potrei assicurare che si volessero scambievolmente quel gran bene che molti credono. Io, che sovente volte ho sentito Mazzini giudicare Garibaldi e Garibaldi giudicar Mazzini, tengo per fermo che il bene che questi due grandi uomini si volevano, non fosse diverso da quel che sogliono e possono volersi due donne egualmente belle e carezzate dalla fortuna e dal mondo. Non dirò con questo che s’invidiassero, perché la ignobile passione dell’invidia non poté aver luogo in quelle anime egregie; ma vero è che ogni qualvolta accadde che la somma delle cose richiedessero necessarie al bene della patria la concordia di questi due uomini, Mazzini pigliò ombra di Garibaldi, e Garibaldi si guardò da Mazzini, come da un consigliere pericoloso e quasi da un emulo fatale. In una parola, ciascun di essi ebbe forse paura di dover correre il rischio di sacrificare all’altro qualche raggio della sua gloria e d’apparir secondo accanto a lui. Però è vero che Garibaldi non sdegnò essere secondo a Vittorio Emanuele, mentre Mazzini non volle essere secondo a nessuno.

Sapendo dunque quanto poco buona armonia fosse corsa e corresse tra Mazzini e Garibaldi, che si erano lasciati in Roma poco men che nemici, non pensavo nemmen per sogno che avrei veduto in Napoli il grande agitatore.

Narrerò adesso come avvenne che in Napoli lo vidi ed ebbi da lui dimostrazioni di benevolenza, che ricordo e ricorderò per tutta la vita con un sentimento di tenerezza e d’orgoglio.

Certa sera (parmi fosse quella del 20 settembre) me ne stavo nell’anticamera di Garibaldi leggendo un libro. Eccoti comparire un giovane alto e biondo, che con accento veneziano dimandommi:

– Il maggiore Bandi, è qui?

– Sono io, – risposi.

– Allora, – soggiunse l’altro – prenda questa lettera, che viene a lei.

Appena messi gli occhi sulla sopraccarta, riconobbi la scrittura di Mazzini, e guardai stupito il mio interlocutore, che mi rispose con un sorriso.

Apersi la lettera. Mazzini mi rammentava l’antica nostra relazione, e mi pregava di andarlo a trovare il seguente. Poi mi diceva che annunziassi a Garibaldi il suo arrivo, e gli riferissi in qual modo avesse accolto Garibaldi quell’annunzio, senza dubbio per sapere come regolarsi con lui.

Andato che se ne fu il visitatore, rilessi la lettera e poi tornai a rileggerla. Ci voleva poco a capire che la venuta di Mazzini avrebbe fatto tutt’altro che comodo al dittatore, in quel momento nel quale si trovava stretto fra quelli che pretendevano l’annessione immediata, e quelli che nell’udir discorrere dell’annessione diventavano tanti diavoli. Perciò m’aspettavo che Garibaldi, udendomi annunziargli l’arrivo di Mazzini, m’avrebbe tutt’altro che ringraziato della buona novella, sebbene in quel tempo avesse alquanto cessato dal far di lui quel severo, anzi, acerbo giudizio che ne faceva per lo innanzi, e che io aveva spesso udito, non senza gran dispiacere, in Bologna, in Rimini ed in Genova.

Il generale s’era coricato da due ore, e non mi pareva buono il destarlo; ma caso volle che indi a poco mi chiamasse per ordinarmi non ricordo che; onde io, colta al balzo la palla, gli dissi:

Indovini un po’, generale, chi è giunto in Napoli?

Garibaldi fissò per qualche istante i suoi occhi ne’ miei.

Mazzini! – esclamò.

Appunto.

E gli lessi la lettera.

Dite a Mazzini, – ripigliò Garibaldi con voce commossaditegli che lo accoglierò come un fratello deve accogliere un fratello.

Me ne andai tutto allegro, ma quasi vergognoso d’aver dubitato, per un momento, del gran cuore di Garibaldi. Come poteva mai un uomo di quella sorta, nel punto più glorioso della sua vita, nel più bello della sua fortuna, non schiudere le braccia al vecchio amico, al maestro?

Non vedevo l’ora che que’ due valorosi e provvidenziali campioni del nostro riscatto s’abbracciassero, e insuperbivo meco stesso che Giuseppe Mazzini si fosse rammentato di me, e avesse dato a me l’incarico d’annunziare il suo arrivo al generale.

Due ore innanzi giorno, il generale chiamò e volle vestirsi. Mentre beveva il caffè, gli chiesi:

– Posso ripetere a Mazzini quel che ella mi ha detto?

– Senza dubbio.

– E quando lo vedrà?

Oggi stesso. Ditegli che lo aspetto.

Verso le undici, terminata la mia guardia, andai a casa di Mazzini, e nel battere alla porta, mi balzava il cuore. Il grande agitatore era seduto a tavolino e scriveva, col suo eterno sigaro in bocca. Udendo proferire il mio nome, si alzò, e presomi per la mano, mi condusse al balcone che era aperto, e m’appoggiò ambo le mani sulle spalle e, dopo avermi fissato in volto con que’ suoi occhi d’aquila, mi disse:

– Ho tanto piacere di conoscervi di persona, e di vedervi con questa camicia addosso. Lo sapete; è un pezzo che vi voglio bene.

Quindi tornò a sedere, e pigliò a domandarmi tante cose. M’accorsi subito che egli era avido di conoscere minutamente tutto quanto accadeva presso il generale, ed io mi proposi di contentarlo sin dove la discrezione mel concedesse, cioè senza abusare della confidenza dell’uomo che amavo e rispettavo quanto mio padre.

E parve rallegrarsi molto udendo da me che Garibaldi lo avrebbe accolto come un fratello, e che si proponeva di vederlo in quel giorno. E soggiunto che ebbe alcune parole di ammirazione per i meravigliosi fatti operati in Sicilia e in Calabria, mi disse:

– Io spero, anzi son certo, che voi farete del vostro meglio per tener lontani da Garibaldi i cattivi consiglieri, e per impedirgli di ascoltare certi pessimi suggerimenti che, presi da lui per moneta buona, trarrebbero seco irreparabile la rovina delle cose nostre.

E qui tolse a discorrere della necessità di ritardare, quanto fosse possibile, l’annessione al Piemonte, giurando che quella annessione significherebbe abbandono eterno di Roma e di Venezia al papa e agli stranieri; e finì col dirmi:

– Vi vedo volentieri vicino al generale e in molto credito presso di lui; cercate di persuaderlo a non lasciarsi cogliere al laccio da Cavour e da Napoleone, e fatevi vedere spesso da me.

Al che io risposi:

– Ella s’inganna molto se crede che io possa aver qualche peso nei consigli del generale, giacché non sono, vicino a lui, se non un povero soldato, che obbedisce gli ordini che gli si danno. Garibaldi sa quel che fa, e sia pur certo che e’ non è uomo da lasciarsi menar pel naso da nessuno...

A questo punto, Mazzini m’interruppe con vivacità facendomi intendere che Garibaldi era purtroppo uomo di buona fede eccessiva e capacissimo d’esser tratto pel naso dai furbi che avevano speculato e speculavano specialmente allora sulla sua semplicità.

Capii bene che Mazzini voleva rammentarmi che io ero stato un de’ suoi, e che intendeva mi conservassi tale anche in casa di Garibaldi. Onde, io cercai persuaderlo che ei mi attribuiva meriti ed influenze che ero mille miglia lontano dal possedere, e conclusi:

Veda, noi non parliamo col generale se non quando c’interroga, massime quando si tratta di negozi che non han che fare colle nostre attribuzioni ordinarie. Ora egli non ha mai dimandato a’ suoi aiutanti di campo il loro parere circa l’annessione, e c’è da scommettere che nol dimanderà. Per me, credo che egli farebbe male a lasciarsi trascinare dall’annessione, mentre la guerra continua; ma tosto che sia presa Capua, bisognerà pur venire a quel passo. Del resto, ella ci parlerà quanto prima, e potrà dirgli l’animo suo. Rifletta poi che intorno a Garibaldi c’è Crispi, c’è Medici, c’è Sirtori, c’è Cosenz, e ci sono tanti altri che godono meritamente molto credito presso di lui... Non creda che egli prenda consiglio da me né da altri che son con me.

M’accorsi che la mia risposta non era ita molto a fagiuolo a Mazzini, il quale, dopo qualche momento di silenzio, ripigliò a discorrere, dicendomi che in ogni modo procurassi di esercitare una buona influenza intorno al generale, e pensassi bene che in que’ giorni non si trattava di giocar di noccioli, ma si trattava delle sorti della patria.

Prese quindi a parlarmi dei romani impazienti di insorgere, dei veneti apparecchiati alla riscossa, dei reggimenti ungheresi, pronti a far causa comune con noi, e si dolse della poca fede nostra, e tanto si animò nel discorrere, e tante belle cose disse con quel suo linguaggio affascinatore, che io rimasi a bocca aperta ad udirlo e non gli seppi più rispondere. Anche avendo in mano un fascio di ragioni, bisognava stare zitti dinanzi all’eloquenza di quell’uomo, che aveva la virtù d’innamorare; perché Giuseppe Mazzini, per dono rarissimo di natura, parlava come scriveva, ed ebbe nella lingua lo stesso fuoco, gli stessi incantesimi che ebbe nella penna.

Quella mia visita durò poco meno di due ore, e io me n’andai innamoratissimo di lui, ma tutt’altro che convinto delle sue ragioni. Dal modo col quale m’accomiatò, mi avvidi essergli dispiaciuto che io fossi «troppo garibaldino» e giurassi ciecamente sulle parole del maestro. Ma io, oltre a non avere autorità, né veste per far da consigliere al generale Garibaldi, non pensavo, in quel tempo, che a combattere i nemici della indipendenza e dell’unità d’Italia, né mi pareva il caso di pensare ad altro.

In quello stesso giorno, Garibaldi e Mazzini si rividero dopo dieci anni, ma io non assistei al loro incontro. Chi vi fu presente, narrommi che i due grandi italiani s’abbracciarono lungamente e versarono affettuose lacrime, e poi ragionarono alquanto e si lasciarono amicissimi.

 

*

* *

 

La battaglia del primo ottobre, degna d’esser chiamata il capolavoro del dittatore, e la quale mise in maggior luce la sapienza militare dell’uomo che pettegoli superbiosi chiamavano «un ardito guerriero», poco mancò non gli costasse la vita, sul suo primo principio.

Egli s’era accorto, il giorno innanzi, specolando di sul monte Sant’Angelo, che il nemico preparava novità, e argomentando dalle notizie recate dai disertori, capì non trattarsi di qualche spicciola avvisaglia, ma sì di uno sforzo supremo, col quale avrebbe giocato re Francesco l’ultima sua carta coll’intenzione di tutto perdere o di tutto riguadagnare. Così, non si lasciò cogliere alla sprovvista, ma anzi avvertì i comandanti della sua divisione che si tenessero in buona guardia e pronti a rispondere all’assalto del nemico, numeroso e disposto a giocar tutto per tutto.

Dati che ebbe gli ordini opportuni, si coricò, la sera del 30 di settembre, all’ora usata e dormì placido fino alle tre del mattino. Poi, quando furono le cinque, salì in carrozza con tre aiutanti di campo, e seguito da un’altra carrozza, piena egualmente d’ufficiali, lasciò il palazzo reale di Caserta, dicendo:

Oggi avrem da fare.

Infatti, appena fuori dalla città, udì spesseggiare i colpi di fucile, ed esclamò:

Cominciamo di buon’ora!

Fatto sosta a Santa Maria, che era uno dei punti principali della sua linea di battaglia, parlò brevemente col generale Milbitz, incoraggiandolo a tener duro, mentre non tarderebbero a giungergli notevoli rinforzi da Caserta, rinforzi che mandava a chiedere in tutta fretta.

Avuto parola da Milbitz che Santa Maria sarebbe difesa fino all’ultimo sangue, volle continuare subito il cammino alla volta di Sant’Angelo, dove aveva il suo osservatorio e di dove egli riputava assai comodo il regolare la battaglia.

Avevano corso le carrozze un miglio o poco più, quando improvvisa s’udì una grande scarica di fucilate, e le carrozze si fermarono. Uno dei cavalli della prima carrozza era stramazzato a terra, il cocchiere era caduto giù morto, alcune palle avevano forato le pareti della carrozza, ma Garibaldi era salvo. Egli balzò a terra d’un salto e trasse la sciabola. Gli altri che erano seco fecero altrettanto e gli si strinsero intorno, mentre grossi manipoli di nemici comparivano a poca distanza, gridando a squarciagola: «Viva lo re!».

Questo terribile episodio è stato narrato in diverso modo nei vari libri che si scrissero intorno alla guerra delle Due Sicilie; io lo narrerò come udii raccontarlo la sera stessa del primo giorno d’ottobre, e come me lo andarono poi confermando i volontari di un battaglione della brigata Spangaro, comandato da Luigi Castellazzo.

Un volontario che faceva parte di quel valoroso battaglione mi diceva:

 

La mia compagnia era comandata dal vecchio romagnolo Romano Pratelli, patriotta del vecchio stampo, conosciutissimo in Firenze, dove dimorava da molti anni.

La sera del 30 di settembre la compagnia fu mandata agli avamposti e passammo la notte tutti in continua veglia, perché il capitano, cui s’era raccomandata la maggior vigilanza, voleva veder bene il fatto suo.

Ai primi chiarori dell’alba, che fu bella e serena, venne il maggiore Castellazzo, col resto del battaglione. Cominciavano già a sentirsi le fucilate, quando il maggiore ci fe’ marciare innanzi. Marciammo alquanto per certi campi coltivati e frastagliati da fossi e da siepi finché non si scorse il nemico, che ci veniva incontro numeroso e in colonne serrate, tempestandoci alla maledetta con un fuoco infernale. Rispondemmo allegramente a questo primo fuoco; ad un tratto notai verso il centro del battaglione un certo scompiglio, e dissero che il maggiore era morto. Seppi più tardi che non era morto, ma era però ferito gravemente. Comunque fosse, seguitammo a tirare, e il capitano Pratelli pigliò a comandarci, e vedendo che il fuoco ben nutrito del nemico, soverchiante per numero, minacciava finirlo, volle tagliar corto, ordinandoci la carica alla baionetta. La carica venne eseguita, ma non giunse a fondo, perché il nemico era troppo forte e il suo fuoco non ci dava respiro. Il bravo Pratelli, veduto allora un poco di disordine, ci trasse un po’ indietro per rimetterci a sesto e per tentare una seconda carica, quando dalla parte di Santa Maria, vedemmo venire di gran galoppo sulla strada due carrozze. Le carrozze erano lontane da noi forse cinquanta passi, quando le fucilate del nemico che fioccavano a tutto spiano, fecero stramazzare un dei cavalli di quella che veniva innanzi, e subito dalla stessa carrozza vidi escir fuori Garibaldi. Mi si ghiacciò il sangue nelle vene, vedendolo in quel gran pericolo. Ma Garibaldi ci rincuorò tutti, perché ritto nel mezzo della strada e colla sciabola sguainata in pugno, si diè a gridare con voce tonante: «Viva l’Italia!».

Il capitano Pratelli corse vicino a lui, e parecchi di noi lo seguimmo. Il generale, nel vederci, sorrise come se il pericolo corso fosse stato un sogno, e il pericolo che correva tuttavia fosse una burla. In quel momento le palle fischiavano da tutte le parti e gli urrà del nemico si facevano vicini sempre più. Il fumo era tanto fitto, che si vedevano i lampi delle fucilate, ma il nemico non si vedeva.

Garibaldi disse allora al Pratelli:

Capitano, difendete questa posizione fino all’ultimo uomo.

Queste parole, pronunziate a voce alta ebbero la virtù di convertire i volontari in tanti leoni. Subito, il nostro battaglione e certe altre truppe, accorse dalle vicinanze, si slanciarono gridando sul nemico. Il nemico che avanzava baldanzoso contro di noi, sopraffatto da quella improvvisa furia s’arresta e indietro. La ritirata del nemico viene salutata da voci unanimi di gioia. Le trombe suonano avanti, e noi andiamo avanti ancora, senza badare a chi casca.

Sopraggiunse in quel punto il generale Medici, e si trattenne a parlare con Garibaldi, poi Garibaldi si allontanò e salì rapidamente sul monte Sant’Angelo, senza volere che nessuno lo seguisse, tranne un solo aiutante suo, che fu Vincenzo Cattabene.

Ma sul monte Sant’Angelo poco tempo si trattenne, e quando la battaglia fu diventata generale, e quando pareva che in certi punti i borbonici soverchiassero i nostri e fossero in procinto di pigliarci Sant’Angelo, Garibaldi corse giù dall’altura e parve un angelo salvatore; proprio in quel momento apparve l’uomo del miracolo.

Mi par di vederlo tuttora; si fece presso Sant’Angelo con una trentina di soldati sbandati, raccolti qua e , e alla testa di quella povera schiera, gridava:

– Su da bravi, venite con me, e vedrete come fugge quella canaglia!

La gente, nel vederlo, si rincorava, i fuggiaschi si vergognavano e volgevano di bel nuovo la fronte. In un baleno, quel manipolo diventò legione, e dinanzi a quella legione spariva il nemico. Il buon genio della vittoria era tornato con noi. Viva Garibaldi!

E Garibaldi, tolto il cavallo mezz’arrembato d’una guida, vi salta su, e lo spinge innanzi percuotendolo con un ramoscello d’albero, e riesce a farlo correre; e la gente a frotte dietro a lui, senz’ordine, senza comandi, ma tirando e picchiando avanti e sempre avanti!... Il gran capitano era dappertutto; tutti gli assalti li guidava lui, tutte le posizioni le pigliava lui; correva innanzi, correva indietro, raccozzava i dispersi, li conduceva all’attacco... E così, a forza di tirare pei capelli la fortuna capricciosa, che minacciava abbandonarci, la vittoria fu nostra, e Garibaldi poté gridare con ragione:

– Siamo vincitori su tutta la linea!

Ma qui non finirono le fatiche del nostro buon battaglione, che sempre condotto dal capitano Pratelli, il quale, parea tornato a venti anni, dové combattere fino alla fine della sanguinosa giornata.

 

Riferisco volentieri queste cose, in quanto che il vecchio e valoroso Pratelli è stato dimenticato in tutte le narrazioni, che sino ad oggi vennero pubblicate intorno alla battaglia di Capua, e solo la signora White Mario, ne fa parola, così di volo.

Verso sera, quando la zuffa sanguinosa fu terminata, Garibaldi, memore del buon contegno, tenuto sotto i suoi occhi dai volontari del Pratelli, volle rivederli, e mandò un suo aiutante ad avvertire il Pratelli che mettesse in ordine il battaglione.

Udendo il nome di Garibaldi, i volontari sebbene trafelati dalle fatiche di quella giornata, si alzarono lietamente e formarono le file, salutando l’eroe, che non tardò a comparire dinanzi a loro.

Questo accadde a Sant’Angelo. Garibaldi, dopo aver rivolto al battaglione alcune parole di lode, notò tra le file un giovanotto coi piè nudi, e disse al Pratelli:

– Come va, comandante, che quel povero diavolo è senza scarpe?

Il Pratelli, fece uscir dalle file il povero scalzo, il quale, avvicinatosi a Garibaldi, rispose:

– Che vuole? Le scarpe mi facevano male, e per far meglio il mio dovere, le ho buttate via. Dietro a lei si cammina bene anche senza scarpe.

E Garibaldi esclamò:

Soldati di ferro!

 

*

* *

 

Io non intendo, nemmen per sogno, di descrivere per filo e per segno la battaglia di Capua, mentre tanti l’han descritta minutamente, e mentre mi mancherebbero le precise notizie, che a tale uopo sono indispensabili, se pur non volessi intessere un racconto cervellotico, col rischio inevitabile di pigliar lucciole per lanterne e rendermi degno delle baiate. Per la qualcosa, fedele sempre al mio assunto, debbo ristringermi a riferire gli episodi più notevoli che accaddero sotto i miei occhi, o che qualche amico, degnissimo di fede, mi raccontò, né il lettore vorrà sapermene male, perché io non son tenuto a dargli nulla, oltre quello che gli promisi.

Dico dunque che mentre accadde dinanzi a Sant’Angelo quel repentino assalto nel quale mancò poco che non rimanesse morto il dittatore, a Santa Maria si combatteva con egual furia tra i borbonici, che numerosi assalivano, e i volontari che cercavano contenerli nell’improvviso loro impeto.

Comandava presso Santa Maria, molto innanzi alla nostra linea, un piccolo posto di venti uomini, un fiorentino valorosissimo che ebbe nome Giuseppe Viti, e fu soprannominato Frego, per una ferita di lama, che gli aveva sfregiata la faccia. Era un di quelli che, a somiglianza del cavallo, descritto poeticamente nel santo libro di Giobbe, s’accendono e divengon tutto fuoco al primo squillo di una tromba, e corrono alla zuffa, come correrebbero a nozze. Costui, sebbene avesse ordine preciso di ripiegare sulla gran guardia, al primo assalto del nemico, parendogli che i suoi venti uomini, anzi che drappello, fossero falange, si pose a correre gloriosamente innanzi, tanto che la gran guardia, per non lasciarlo solo nelle péste, dovette corrergli dietro e mescolarsi insieme ai suoi, facendo causa comune con la temerità. La gran guardia era comandata dal capitano Tamburini, figlio del celebre basso cantante, il cui nome è scritto in lettere d’oro nei fasti del teatro lirico italiano, e dal sottotenente Giovanni Del Greco, dipoi valoroso chirurgo in Firenze, come allora buono e arrischiatissimo soldato.

L’audace compagnia tanto fece, che per qualche tempo, a forza di schioppettate e di squilli di trombe e di grida poté tenere in cristi il nemico, che s’avanzava all’incerta luce del crepuscolo, e per buona pezza seppe fare del suo meglio, avanzando e dando indietro e tornando poi alle offese, e spiegandosi e ripiegandosi, a seconda dell’occasione.

 

«In una delle nostre avanzate», scrive uno di que’ bravi volontari, «accadde che un soldato nemico, o più tenace degli altri o smemorato o distratto, non seguì i fuggenti compagni e restò fermo al suo posto. Lo vedemmo confusamente in mezzo alla nebbia, e da principio, ci pareva e non ci pareva un uomo; ma quando fu certo che era un uomo di carne e d’ossa ed era un nemico, pensammo che si volesse arrendere e gli fummo sopra in diversi, gridandogli che posasse l’arme. Ma quel caparbio, che dovette essere una vera anima dannata, ci lasciò avvicinare senza far mostra d’aver capito, e quando gli fummo a distanza di pochi passi, tolse di mira un de’ nostri e lo freddò con una palla in pieno petto. A quella vista, i miei compagni si slanciarono sull’implacabile nemico, e l’uccisero. La legge della guerra portava così, e non c’era nulla da dire né da ripetere; ma a me rincrebbe forte di vederlo morire, perché quel suo coraggio, benché insensato e feroce, era sempre degno d’ammirazione. Però, nessuno si meravigli di questo atto, giacché i volontari stessi, i quali non seppero perdonare a quell’uomo, avean trovato, pochi momenti innanzi, presso l’argine della ferrovia, il cadavere d’un loro compagno, ferito in petto da una palla e crivellato da innumerevoli colpi di baionetta. E quell’infelice compagno loro e mio, era uno dei due francesi, che avevamo in compagnia e si chiamava d’Alégre.

 

Ora, io dirò che questi due francesi furono appunto Romain d’Alégre e De Fonvielle, carissimi giovani ambedue, innamorati della nostra Italia, e di null’altro vogliosi che di morir per lei. Io voparlare alquanto di loro, perché li ebbi cari mentre comandai quel battaglione, e li notai valorosissimi a Coriolo e a Milazzo, e furono, per la loro indole lieta e per il loro ottimo cuore, les enfants gâtés dei loro compagni. Il De Fonvielle fu quello stesso, che, qualche anno dopo, fece tanto parlare dei fatti suoi, quando accompagnò Victor Noir in casa di quel feroce prepotente del principe Pietro Bonaparte, che ad una sfida a duello rispose con un colpo di pistola e uccise, da vero assassino, lo sfidatore. Era giornalista e poeta, meccanico ed anche un po’ pittore.

Romain d’Alégre fu marsigliese, ed aveva compiti con amore i suoi studi, e maneggiava anch’egli con garbo la matita e il pennello. Giovanissimo, aveva vestito la divisa degli zuavi, combattendo in Crimea e in Lombardia; ma poi aveva piantato in asso il tiranno Napoleone (come lo chiamava lui) ed era venuto a chiedere una camicia rossa a Garibaldi, suo sogno e suo idolo.

La sera innanzi, il povero d’Alégre, novellando con un volontario fiorentino, che gli fu amico indivisibile ed affettuoso, parlava con maggior tenerezza che mai della sua famiglia e di un suo fratello, morto su di una nave francese, dinanzi a Sebastopoli, e del vecchio padre, rimasto solo; e diceva: «Ieri, gli ho scritto; quando saprà che sono vivo e son qui con voi, avrà una consolazione e un dolore nel tempo stesso... Oh, rivedere il buon vecchio e poi morire, oui, mourir pour l’Italie!». Ma il povero d’Alégre non doveva più mai riveder suo padre!... Benedetto lui, e quanti francesi lo somigliarono o sapranno rassomigliarlo!

Quando la compagnia tornò indietro dalla temeraria sua corsa, tutto il reggimento del Malenchini era schierato in linea ed apriva il fuoco contro le colonne nemiche, che, essendo ormai giorno chiaro, venivano innanzi a passo di carica, sostenute dalle batterie da campagna che suonavano a doppio. Il vecchio generale Milbitz, che fu cattivo parlatore, giacché masticava assai male la favella nostra, ma uomo di molti fatti, s’era afforzato in Santa Maria con qualche trincea, e vegliava con special cautela sulla porta Capuana, verso la quale erano rivolti i più furiosi assalti del nemico. I quattro cannoni che aveva seco, fecero veramente miracoli, e parvero moltiplicarsi, e spesso fermarono con ben dirette scariche a mitraglia le colonne borboniche, che baldanzose procedevano per la facile vittoria guadagnata sui nostri deboli avamposti. Santa Maria era il punto più debole della lunghissima nostra linea, che si estendeva su di una fronte di venti chilometri, e bene se ne avvide Garibaldi, che di buon’ora rinforzò Milbitz colla brigata Azzanti, fatta venire a corsa dalla vicina Caserta.

Colà si combatté ostinatamente per più di cinque ore, tanto che i nostri erano stanchi e cominciavano a veder tutt’altro che lieta la fine di quella sanguinosa giornata, perché i borbonici, smisuratamente superiori per numero, rinnovavano di quando in quando gli assalti con truppe fresche. Dopo mezzodì, la foga degli assalitori parve scemare alquanto la sua furia da quella parte, ma il rallentare dell’offesa non fu lungo, perché verso il tocco, nuove colonne nemiche sboccarono dalla piazza di Capua e rinfrescarono, con più gagliardia che mai, la battaglia.

Era quello il momento più critico della giornata. Milbitz, sudato e rosso come un gambero, correva qua e col suo magro cavalluccio, ora incoraggiando gli artiglieri a tener duro dinanzi alle granate che piovevano sulla misera batteria, ora raccomandandosi ai pochi che tenevan fermo alle barricate, ora ingegnandosi a raccozzare gli sbandati; ma pel poco numero di gente che gli rimaneva, la sua difesa era ridotta alla porta Capuana. Ma Garibaldi che vedeva tutto, non si smarrì un istante per quel tremendo pericolo che lo minacciava; dico tremendo, perché se le colonne borboniche s’impadronivano di Santa Maria, la giornata era perduta senza rimedio; e fatte venire con gran celerità le poche riserve che il Sirtori aveva ancora intatte, ordina a Türr di unirsi a Milbitz e di difendere sino all’ultimo uomo, sino all’ultima cartuccia, la minacciata posizione.

Adesso, io racconto il bellissimo episodio della celebre carica della cavalleria garibaldina, che ebbe anch’essa la sua pagina gloriosa in quella memoranda giornata, nella quale il dittatore delle Due Sicilie non fu l’audace guerrigliero che gli strateghi dottissimi degnavano appena d’uno sguardo di benevolenza, ma fu il capitano sapiente, tutt’altro che inetto al comando di numerosi eserciti ed alle fazioni della grossa guerra.

Quell’episodio non potrei narrarlo meglio di quel che lo narra un ufficiale che ebbe onorata parte nella carica, e che, pregato da me, ha scritto quel che trascrivo:

 

... Verso mezzogiorno, si presentò a Medici un ufficiale, che poi seppi chiamarsi Carcano, dicendogli che il general Milbitz lo pregava di inviargli tutti gli uomini a cavallo che avea seco, perché i regi accennavano di attaccare con poderose forze Santo Tammaro e poi forzar il centro della linea.

Medici fece tosto riunire tutti i pochi uomini a cavallo che erano con lui o a poca distanza da lui, e tra questi ero io che scrivo. Traversammo i campi, dove si era trincerato alla meglio colla sua gente il calabrese Stocco, e così per una linea diagonale fummo in breve all’arco di Santa Maria. Si combatteva dappertutto, e le palle piovevano fin vicino all’arco, dove trovammo il general Milbitz. In quel momento, il prode polacco diceva in lingua tedesca al maggiore ungherese Künn e al capitano Kovac, ungherese esso pure:

Riunite subito i vostri cavalieri, e caricate sullo stradone, perché se diamo tempo al nemico di spiegare una batteria siam belli e fritti.

In un baleno, gli ungheresi furono in ordinanza, e saranno stati centoquaranta, o giù di . Li raggiungemmo insiem con altri e ci unimmo a loro; ricordo che trovai meco in quello squadrone il Melegari di Bologna, il Ceresetto di Genova, il marchese Guadagni di Firenze, e il signor Cipriani. In tutti non eravamo duecento; e fuor di me, e quei pochi che ho nominati, eran tutti ungheresi e polacchi, tra cui moltissimi ufficiali. Fummo tosto ordinati per plotoni in colonna per scendere sullo stradone, e ricordo che passammo dinanzi a un piccolo reggimento, comandato dal colonnello Langè, polacco, nel qual reggimento erano parecchi toscani, che nel vedermi, mi salutarono colla voce o col gesto.

Suonato il galoppo, ci cacciammo a tutta furia per lo stradone, e gridavamo, ciascuno nella propria lingua, quel che suol gridarsi quando ci si avventa a testa bassa sul nemico.

Le palle fischiavano, i tonfi ci assordivano, ma noi badavamo a correre, senza curarci d’altro, e correvamo come il vento. Dopo pochi momenti, mi trovai in mezzo a due obici, serviti da cannonieri napoletani, e vidi fuggire di carriera gli altri sei cannoni della batteria coi loro bravi ufficiali e con tutto il resto; e noi avremmo potuto pigliar tutto, come avevamo preso i due obici, non badando più nessuno ai tiri della fortezza, dalla quale non ci divideva che la piazza d’arme, se non era uno squadrone di lancieri, che, proprio in quel punto, fece sembiante di volerci caricare. Ci volgemmo allora addosso a quello squadrone: e i nostri ungheresi parevano tanti diavoli. Fra gli urli che cacciavano costoro e tra la confusione d’un reggimento di granatieri borbonici, che si ritirava fuggendo, parve un vero diavoleto. Seguì una zuffa accanita tra noi e i lancieri, e combattemmo mescolati gli uni con gli altri, in un vero parapiglia. Cipriani ed io, veduto dinanzi a noi un ufficiale col suo trombettiere accanto, ci slanciammo ad assalirli. Cipriani tirò un colpo di pistola all’ufficiale, ma non colse che il cavallo; io, più fortunato, balzai giù di sella il trombettiere. Altri episodi accaddero in quella mischia, i quali non rammento; ma non andò molto che que’ poveri lancieri, suonati pel delle feste, fuggiron via a rotta di collo, lasciando in mezzo a noi alcuni morti e diversi feriti ed alcuni prigionieri. Intanto che ripigliavamo fiato, i cannoni di Capua avean ricominciato la loro musica, e il Kovac ordinò la ritirata.

Nel ritornarcene, notai che i cavalli dei due obici, avean preso la fuga coi loro rispettivi avantreni, ed erano corsi a costituirsi prigionieri a Santa Maria; cosa che fece ridere noi tutti e fece dire ad un bell’umore che i quadrupedi avean interpretato a meraviglia le idee dei loro educatori.

Dirò ancora che la nostra carica venne appoggiata dalla sesta compagnia del reggimento Malenchini, comandata da un bravo ufficiale, il signor Carbone di Genova, uno dei Mille e poi capitano dell’esercito. Fu questa compagnia che s’impadronì dei due obici, belli e lustri come specchi, che si chiamarono il Giusto ed il Mago, come poté leggersi sulle loro culatte.

Nel tornare in giù pei campi, sulla strada di Santa Maria, scesi di sella, perché sentivo un dolore acuto ad una costola, e guardai se il mio cavallo era ferito. Per buona sorte, non aveva addosso una mezza tacca, e respirai di gran cuore! Povero cavallo! M’era costato sessantadue napoleoni d’oro, suonanti e ballanti, e in quella stessa mattina ebbe l’onore di essere montato per qualche ora dal generale Garibaldi, quando accadde che si trovò a piedi come un cappuccino sulla strada fra Santa Maria e Sant’Angelo, dopo che i borbonici ebbero forato con una grandine di palle la sua carrozza ed ebbero ucciso uno de’ cavalli e il vetturino, che li guidava.

Era davvero un fior di cavallo, e rammento bene che mentre ci ordinavamo per far la carica, Virginio Pecchioli, che divenne ufficiale superiore de’ carabinieri, ed allora era sottotenente nel reggimento di volontari del colonnello Langè, gridò salutandomi:

Selvaggi, adesso è tempo davvero di far lavorare il tuo famoso sauro!

Quella carica fu una vera man di Dio; e bene a ragione fu salutata da grida e da battimani senza fine. Si può dire veramente che la carica degli ungheresi fu il principio della vittoria, e fece volgere in vittoria una battaglia, che pareva perduta più che per metà.

Ora, dovrei dire quanti di noi morirono o furono feriti, ma non saprei dirlo con esattezza. Ricordo solamente (e come potrei averlo dimenticato?) che il povero Ceresetto cadde accanto a me, colpito da una palla in fronte, proprio nel momento in cui si sguainavano le sciabole. Lo uccise un soldato sbandato, che non tornò certamente in Capua a far pompa della sua bravura.

 

Non racconterò i prodigi di valore che fece in quel giorno il focoso Nino Bixio, giacché, come ripeto, io non ho promesso di scrivere una storia vera e propria della campagna delle Due Sicilie, ma ristrinsi il mio cómpito in termini assai modesti, proponendomi di raccontare gli episodi che accaddero sotto i miei occhi e quelli che udii per bocca di qualche amico cui debbo credere come crederei a me stesso.

Perciò non si meravigli il lettore se passo sotto silenzio tante cose che meriterebbero tutt’altro che silenzio, e se non vede descritto in queste pagine il triste ma glorioso episodio di Castel Morrone, dove Pilade Bronzetti immolò generosamente sé e gran parte dei suoi per trattenere le soldatesche del colonnello Perrone, che marciavano sopra Caserta.

Ma non voglio chiudere questa pagina senza due parole a quei signori, i quali con infinita compiacenza giurarono allora, e giurano forse anche oggi, che Giuseppe Garibaldi non avrebbe vinto la partita nel giorno primo di ottobre, se non fossero giunte da Napoli ad aiutarlo le truppe regolari.

Quel gran soccorso, magnificato a isonne daglinvidiosi di Garibaldi e da coloro che non seppero mai digerire in pace l’idea che le Due Sicilie fossero liberate per opera delle camicie rosse, fu un soccorso di due battaglioni. Un battaglione di bersaglieri, giunto in Caserta, nel momento critico della battaglia del primo ottobre, unendosi, il giorno dipoi, alle forze comandate dal Sirtori, bruciò volontariamente qualche cartuccia, e dette mano a respingere i soldati dell’avanguardia del Perrone, che avean fatto punta sino alle prime case della città. Il Perrone, che, trattenuto dalla eroica resistenza del povero Bronzetti, non era potuto giungere a Caserta durante la battaglia, aveva pernottato sui poggi e s’era fitto in testa di pigliar Caserta ad ogni costo, sia perché ignorasse la sconfitta patita dal grosso dell’esercito, il giorno innanzi; sia perché gli piacesse dar segno di essere uomo, prima di deporre le armi e arrendersi con tutta la sua gente.

Mentre il Sirtori attaccava con le sue truppe e col battaglione dei bersaglieri il corpo del Perrone, forte di duemila uomini e non più, Garibaldi si fece innanzi con forze considerevoli alle quali s’era aggiunto un battaglione della brigata Re, e così il Perrone, circondato e disperato d’ogni soccorso, s’arrese.

Questo e non altro fecero i due battaglioni dell’esercito regolare, né potevano far di più.

I malevoli, confondendo le due giornate, scrissero e predicarono che l’esercito regolare aveva combattuto per salvar da certa sconfitta l’esercito di Garibaldi, nel giorno della gran battaglia; mentre i due battaglioni regolari non poterono far di meglio che dare una mano ai garibaldini nel giorno dipoi, quando si circondò e si fece arrendere a discrezione un corpo di truppe sviato e vagante alla ventura, oltre la linea del nemico vittorioso.

 

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* *

 

La battaglia del giorno primo d’ottobre, cominciata quasi innanzi giorno, terminò prima di notte. I borbonici, respinti da tutte le posizioni che avean prese, e successivamente perdute, e poi riprese, si ridussero nelle città, stanchi e sbattuti e sfiduciati dell’aiuto di Dio, promesso a iosa dai loro cappellani e dai predicatori. Perché è fama che nei due giorni che precedettero quel della battaglia, re Francesco facesse confessare e sacramentare i soldati, e mandasse per le caserme e pecampi certi frati fanatici, che promettevano la vittoria certissima da parte di Dio, e di non so quanti santi, e la gloria eterna dei cieli a chiunque sarebbe morto per la difesa del monarca, e della religione cattolica contro i nuovi turchi dalla camicia rossa.

Venuta la notte, i volontari si raccolsero nelle loro posizioni, pronti a rendere al nemico anche il resto, se il resto del carlino fosse mai venuto a chiedere. E quelli che erano sulle alture videro per lungo tratto la campagna piena d’incendi, perché il paese di Santo Tammaro bruciava e bruciavano qua e i poderi, a’ quali aveano messo fuoco i borbonici nel fuggire, per malvagia ferocia d’animo e per libidine di vendetta. Da ogni parte, le famiglie dei poveri campagnuoli correvano a frotte a rifugiarsi in mezzo alle truppe salvatrici, fuggendo i miseri abituri messi a ruba. In parecchie case che ardevano, eran chiuse tuttavia le stalle, e i muggiti dei buoi e il nitrir dei cavalli e il belare lamentevole delle pecore e delle capre facevano pietoso concerto alle orecchie dei vincitori.

Garibaldi rimase a dormire nel paesello di Sant’Angelo, e riposò placidamente alcune ore, sinché non lo destarono nel cuor della notte per avvertirlo che il colonnello Perrone alla testa di duemila borbonici campeggiava, come ho già detto, al di qua del Volturno accennando a voler tentare novità sopra Caserta. Appena udita questa notizia, dicono esclamasse:

– Eh, per Dio, non ci lasciano neanche dormire!...

E poi saltò subito a cavallo e galoppò verso Caserta per esser pronto a farsi vivo dinanzi a quel nemico inaspettato, a’ primi chiarori dell’alba.

La battaglia del Volturno, o di Capua, che voglia dirsi, costò ai volontari quasi cinquecento morti e oltre mille feriti, e altrettanti che rimasero prigionieri o non trovarono, come si suol dire, la via per tornare a casa. I borbonici ebbero forse minor numero di morti e di feriti, perché non lottarono contro artiglierie numerose, né contro schioppi molto buoni o maneggiati con buona pratica del mestiere; lasciarono però in poter nostro più di tre migliaia di prigionieri e sette pezzi d’artiglieria.

Nel tempo della battaglia, la popolazione di Santa Maria aiutò di gran cuore i volontari; la guardia nazionale stette di continuo presso le barricate, e meritò gli elogi del dittatore. Altrove però, massime nelle vicinanze d’Aversa, i contadini aspettavano incerti l’esito della battaglia e parve che il partito borbonico li avesse sobillati e sperasse averli seco ad aiutarli, se mai le cose de’ volontari fossero vòlte in malora.

La guardia nazionale di Napoli non fece un passo fuori delle porte, ma si tenne pronta in buon numero per guarentire l’ordine pubblico e per impedire qualche audace tentativo dei fautori del Borbone, i quali avevano, senza dubbio, paglia in becco, ed aspettavano a gloria il segnale per farsi vivi.

Certi cannonieri della squadra inglese, ancorata nel porto, avendo avuto licenza di recarsi a terra, vennero a Santa Maria, e si posero volentieri a lavorare alla batteria, e tornarono poi a bordo, tutti gloriosi e trionfanti, recando seco palle e granate nemiche, come trofeo della battaglia.

Di ciò mosse lamento all’ammiraglio Munds il re Francesco, ma l’ammiraglio fece rispondere che non poteva vietare ai suoi uomini di prendersi nelle ore di libertà quello svago che più si confacesse al loro gusto.

Dicono alcuni che qualche artigliere dell’esercito regolare nostro accorresse in camicia rossa a puntare i due pezzi, che Garibaldi aveva piantati sul monte San Niccola per difesa di Sant’Angelo; ma questo non saprei affermarlo.

I borbonici che ebbero a combattere contro la divisione di Nino Bixio, raccontarono cose terribili di quel gran diavolo, dipingendolo vestito di pelli d’orso, e invulnerabile alle palle, e formidabile per lo aspetto selvaggio, e per la voce tonante, e lo dissero nemico di Dio e di misericordia.

Questo ho udito per bocca di qualche mio amico che fu tratto prigioniero in Capua; il quale amico mi disse ancora di aver veduto re Francesco desolatissimo; quando, sul far della sera, vide convertita in una sconfitta vergognosa la battaglia, cominciata con tanto buoni auspici, e condotta con tanto prospera fortuna sino a due ore dopo mezzodì.

Il re aveva a fianco il conte di Trani e il conte di Caserta, seguiva con febbrile ansietà tutti gli andamenti della battaglia, ma non si fece mai innanzi a dare alle truppe il buon esempio.

Nella mattinata, gli vennero condotti innanzi certi volontari, presi prigionieri agli avamposti, ed ei pigliò ad interrogarli, e poi disse:

– O che v’ha fatto mai il re di Napoli, perché abbiate ad odiarlo tanto?

Fatto certo che la battaglia era perduta, re Francesco scese da cavallo, e tornossene in carrozza a Gaeta.

 

*

* *

 

Grandi e solenni furono le dimostrazioni di gioia, colle quali il popolo napoletano salutò la vittoria dei volontari; ma in mezzo alle grida festose che celebravano il valore e la fortuna, si sentiva da ogni parte salutare l’Italia una e invocar pronta l’annessione, il cui ritardo pareva inesplicabile, e ingenerava sospetti infiniti.

Il prodittatore Pallavicini, che della sùbita e incondizionata annessione fu propugnatore caldissimo, scrisse in que’ giorni una lettera a Mazzini, scongiurandolo ad abbandonare quelle province, uniche nelle quali gli fosse lecito dimorare, senza pericolo, in Italia; e Mazzini rispose sdegnosamente, e continuò a dimorare in Napoli, dichiarando sempre che l’annessione era, per lui, un tradimento bell’e buono.

Pertanto, l’antipatia che molti nutrivano per il temuto agitatore, veniva manifestandosi sempre più con pubblici segni, e non mancava chi cercasse di trasfonderla nel volgo, bucinando Mazzini essere nemico ostinato della concordia e pertinace nell’avversare ciò che era voto di tutti i buoni. Ci volle poco ad indovinare che, seguitando egli a trattenersi in Napoli, non avrebbero i malevoli tardato molto ad aizzargli contro la popolaglia, massime allora, che Garibaldi non compariva quasi mai in Napoli o vi si tratteneva qualche ora soltanto, per sbrigare in fretta le faccende più urgenti.

Una mattina (saranno state le undici) ero venuto dal campo in città per comprarmi certe robe, e sceso di sella in piazza del Mercatello, non arrischiandomi fare a cavallo la via Toledo, su cui scivolavano i ferri, peggio che sul ghiaccio, me ne andavo a piedi verso il caffè d’Europa, quando vidi venire in su una gran folla di gente. Quella gente aveva seco certe bandiere tricolori con lo scudo di Savoia in mezzo, e gridava a più non posso.

Sulle prime, non feci caso di quelle bandiere, né di quelle grida, non essendo strano che gli urloni si facessero a frotte per le vie di Napoli, in un tempo nel quale le grida e i suoni erano pane di tutti i giorni. Ma quando mi fui avvicinato ed ebbi letto sulle bandiere ed ebbi udito dalle voci che si volea fuor di Napoli il Mazzini o si voleva morto, allora conobbi che si trattava di qualche cosa di più grave delle solite dimostrazioni, ed esclamai:

– A questo si doveva venire, dove comanda Garibaldi?

Avevo meco un giovane ufficiale toscano al quale dissi:

– Ve’, questa gente m’ha l’idea di voler fare qualche soverchieria a Mazzini approfittandosi che quasi nessuno de’ nostri è in città, o ve ne sono alcuni, occupati nel giuoco e nello stravizio, che s’impiperanno di scomodarsi per difendere quel povero vecchio. Ora io corro a casa di Mazzini, e tu corri al caffè Europa, e va dappertutto e vedi di far gente e di correre in buona compagnia a darci aiuto.

E gli dissi la strada dove alloggiava Mazzini e il numero della casa.

L’ufficiale mi promise che l’avrei riveduto quanto prima, poi corse verso la piazza del palazzo e io volsi per certe strade, avviandomi alla casa di Mazzini, che non era molto lungi.

Giunto che fui, dovei battere alla porta due volte o tre, prima che venissero ad aprirmi. Mi si fece innanzi finalmente Giovanni Nicotera con due o tre calabresi, e mi salutò, dicendo:

– Hai fatto bene a venire, giacché quella canaglia non starà molto a venir qua.

Saputo che io avevo mandato a cercar rinforzo, soggiunse che egli pure aveva mandato in giro qualcuno a far gente ed anche ad avvertire il comandante della piazza, che era, se non sbaglio, il generale Türr.

Nicotera era verde, e tremava dalla rabbia.

Mazzini, nel vedermi entrare nella sua stanza, mi venne incontro e mi strinse la mano, e offerto che m’ebbe uno de’ suoi sigari Cavour, mi disse:

– Vi ringrazio tanto di questa visita; è proprio il caso di ripetere che l’occasione fa conoscere gli amici.

E si mise a passeggiare su e giù per la stanza, dicendo, tratto tratto, qualche parola per abbonire Giovanni Nicotera, che tempestava come un indemoniato.

Egli, il Mazzini, era già consapevole di quanto accadeva, e solo mi domandò se la dimostrazione venisse fatta da gente pulita, ovvero da lazzaroni. Risposi che era gente di pessimo aspetto, e pagata, novantanove per cento, da chi aveva interesse ad imbrogliar le carte, cioè dai borbonici.

– Eh via! – interruppe Mazzini. – Non si tratta di borbonici, che non c’entrano per nulla; si tratta dei soliti amici che ben conosco.

Mentre stavamo discorrendo così, fu picchiato alla porta. Nicotera scese ad aprire e tornò conducendo seco sette o otto ufficiali, che ci annunziarono vicinissima la dimostrazione.

E per vero, le grida cominciarono a farsi udire, sebbene le finestre della stanza fossero chiuse; e già i curiosi si vedevano sbucare di qua e di , facendosi sulla piazza e guardando la strada per la quale dovean venire i poco graditi visitatori.

Dopo qualche momento, la dimostrazione comparve. Era una masnada di birboni, guidata da un brutto ceffo, che avea tutta l’aria d’un gran camorrista; tra urloni e curiosi potevano essere un migliaio e mezzo e non più. Gridavano: «Viva l’unità italiana! Morte a Mazzini!» e si fermarono dinanzi alla casa.

Mazzini esclamò con voce di dolore:

Sentite eh? viva l’unità italiana e morte a me; a me, che per aver sognato per primo l’Italia una, fui gridato matto!

Queste parole ci commossero tutti; molti di noi avean sugli occhi le lacrime.

Una voce gridò di sulla piazza: «Fuori Mazzini!» e la folla parve per un momento volesse avventarsi sulla nostra porta.

Tosto Nicotera impugnò il revolver, e disse a noi:

Andiamo, carichiamo questa canaglia.

Mettemmo mano alle armi e ci disponevamo a scender giù con Nicotera, ma ci contenne Mazzini, dicendo:

– No, non voglio; non soffrirò mai che una goccia di sangue si versi per cagion mia. Giù le armi, figliuoli, giù le armi!

Obbedimmo di botto e ci facemmo alla finestra.

La folla cominciò ad andarsene, seguitando però ad urlare nello stesso metro.

Nicotera si mordeva le mani. Mazzini, col suo eterno sigaro in bocca, fumava in silenzio.

Improvvisamente, da una strada opposta comparvero cinquanta o sessanta camicie rosse, e la marmaglia si dette a fuggire, e credo non le mancasse qualche saluto discreto dalla sciabola e dai frustini dei volontari, tanto per incoraggiarla a correre di buona lena e a non farsi più rivedere.

Ma il chiasso non doveva finir . Tutta Napoli aveva addosso in quel giorno, più indiavolata che mai, la mania dell’annessione, e pareva non dovesse farsi notte senza che le Due Sicilie s’avessero a dichiarare strette con indissolubil vincolo alle altre province libere d’Italia.

Garibaldi, avvertito di quanto accadeva, corse sollecitamente a Napoli, e sulla sera parlò al popolo in piazza, rimproverando che si fosse gridato morte agli amici suoi, che avean contribuito a fondare l’unità d’Italia. E poi soggiunse: «ieri vi dissi che sarebbe venuto il re. Oggi ho una lettera di lui. Il 9 le sue truppe passarono il confine e Vittorio Emanuele si pose alla testa del suo esercito. Tra breve vedremo il nostro re!». Il resto del discorso fu una severa reprimenda al partito, che aveva mandato a Palermo il La Farina per troncare a mezzo la liberazione delle Due Sicilie coll’annessione immediata, perché si impedissero così il passaggio dello Stretto e la cacciata di Francesco II.

La parola del dittatore venne udita con reverenza, e Napoli si quietò.

 

*

* *

 

Di a qualche giorno, rividi Mazzini, che abitava in un’altra casa, e, se non sbaglio, presso la vedova dell’infelice Pisacane. Questa volta, ebbi ricorso a lui perché sentenziasse circa un caso di coscienza, cioè perché dalla coscienza di un caro amico mio togliesse un certo bruscolo che non ci aveva che fare.

Si trattava d’uno di quei pochi ufficiali della brigata cosiddetta di Castel Pucci, che insieme a Giovanni Nicotera avevano sdegnato e sdegnavano pigliar parte all’impresa di Garibaldi sotto le insegne regie e col motto: «Italia e Vittorio Emanuele».

Costoro pigliavano ombre delle croci dipinte sulle piastre dei cinturoni e chiamavano colpevole Garibaldi d’aver servito e di servire più alla monarchia Sabauda che all’Italia, tramutandosi da generale del popolo in un regio fante. E perciò ricusavano venire con noi agli avamposti e se ne stavano a zonzo per Napoli, né c’era verso di persuaderli, per quanto si cercasse di farli capaci della ragione.

Dico dunque che essendo uno di costoro amicissimo mio, cominciai un giorno a stringergli i panni addosso, giurando che nessuna scusa varrebbe a fargli perdonare quel suo contegno, quando si sapesse che mentre si combatteva sotto Capua, egli era stato più d’un mese in Napoli, senza aver veduto il fuoco e senza aver mai dato segno di essere uomo col farsi vivo tra gli amici buoni quanto lui, e meno scrupolosi di lui dinanzi ai nemici della patria.

Disputammo un bel pezzo, e ragionai più di un avvocato per convincerlo, ma fu lo stesso che dire al muro. Invano gli offersi di condurlo meco, invano gli profferii di farlo entrare col grado di capitano, che aveva avuto a Castel Pucci, nel reggimento che Giacomo Griziotti formava in Aversa; non ci fu maniera di farlo muovere da Napoli e di imbrancarlo tra noi poveri «servitori della monarchia» neanche per mezza giornata. Onde io, veduto che si trattava di un caso di coscienza assai sottile, gli proffersi che andassimo insieme da Mazzini, per far decidere da lui qual di noi due fosse dalla parte della ragione e quale dalla parte del torto marcio.

L’amico accettò la proposta ed andammo.

Mazzini lasciò che parlassimo ambedue finché ne avemmo voglia, e poi rispose:

– Ha ragione Bandi; andate con lui e combattete insieme coi vostri amici; quando si hanno a fronte i soldati del Borbone, si debbono combattere sempre, senza guardare la bandiera che sventola sul nostro capo.

Udendo questa sentenza, credetti d’aver vinto la causa, ma l’amico non volle chinare il capo nemmeno dinanzi a tanto giudice, e tenne fermo ne’ suoi scrupoli, e lasciò che tornassi solo agli avamposti. Allora vidi chiaro che c’erano certi mazziniani, più mazziniani assai di Mazzini, nel modo stesso che ci furono, ci sono e ci saranno sempre monarchici più realisti del re.

L’ultima volta che vidi in Napoli Giuseppe Mazzini, fu il giorno dopo il plebiscito. Correva voce che i piemontesi avevano in animo di farlo arrestare, e Giovanni Nicotera aveva un fulmine per ogni capello, e se la pigliava con tutta Napoli e gridava:

– Io, io me ne andrò in una vallata della Svizzera, e quando vedrò un napoletano fuggirò via come se vedessi il diavolo!

E diceva anche di peggio.

Mazzini avea pronte le sue robe, e in quella notte stessa doveva mutare domicilio e tornar a vivere la sua vita del fuggiasco.

Mi parve addoloratissimo e non sapeva darsi pace che Garibaldi si fosse lasciato fuggir di mano un’occasione tanto bella.

– Ecco, – disse – fra pochi giorni, se ne tornerà a Caprera, e questa volta non gli mancheranno davvero cavoli da coltivare.

E io soggiunsi:

Capisco bene quel che ella vuol dire; secondo lei, Garibaldi dovrebbe tenere in mano ad ogni costo l’autorità dittatoria per esser padrone di fare impeto su Roma e poi su Venezia, e quindi, magari Dio, giù giù fino al golfo del Quarnaro che chiude Italia e bagna i suoi termini.... Ma con tutto il rispetto e con tutto l’amore che le porto, le dico francamente che certe cose è assai più facile il dirle che il farle. Venga meco a fare un giro pel nostro campo, venga a vedere quanta gente abbiamo in buon assetto, e disciplinata e capace di misurarsi in una guerra lunga coi tedeschi, e poi mi saprà dire se Garibaldi può arrischiarsi a fare quel che ella vorrebbe, adesso che egli è certissimo che il re, non solo non lo seconderebbe, ma farebbe anche ogni sforzo per impedirgli di rompere la tregua di Napoleone. Alle corte, quell’uomo da cui si pretendono miracoli molto maggiori di quelli che fece, non ha mai avuto, né avrebbe oggi, dinanzi al fuoco, più di dodici o quattordicimila buoni combattenti, a dir molto. Le parrà strano quel che dico, ma pure è così.

Mazzini non seppe o non degnò combattere questa mia ragione, ma non diè segno d’appagarsene, e voltò il discorso bruscamente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

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* *

 

La battaglia del primo giorno d’ottobre tolse ai regi la speranza di rientrare in Napoli vittoriosi e di riaversi, con un sol colpo, dai danni patiti dalla primavera in poi, dissipando il nemico, come suol fare della nebbia il vento. Però, non si rimise punto il re Francesco da’ suoi propositi di resistere gagliardamente fino all’ultima cartuccia; sia che ei sperasse negli aiuti che da qualche parte avesse a mandargli la provvidenza, sia che gli sembrasse impossibile che le grandi potenze del Nord, e la Francia stessa, non fermassero Vittorio Emanuele su i confini del regno, i quali non furono varcati se non il giorno dieci.

Né l’avanzarsi dell’esercito di re Vittorio bastò a persuadere il Borbone che la sua causa era perduta senza rimedio; per la qual cosa, fu mestieri che Garibaldi serrasse più strettamente l’assedio e vegliasse tuttavia, non parendo fuor di luogo che il nemico avesse a tentare qualche nuova impresa per rompere l’assedio, e per vedere se la città di Napoli e la gente dei dintorni facessero in favor suo qualche novità.

Rammento che in quel tempo, trovandomi con un battaglione nella città d’Aversa, ed avendo il carico di vegliare molto vicino a Capua i luoghi che si chiamano i regi Lagni, avevo messo il mio avamposto presso un paesello, che ha nome Frignano.

Certa notte, i miei compagni, scorrendo com’eran soliti la campagna a breve distanza da Capua, fermarono due barrocci, che s’avviavano bel bello verso la città assediata, i quali barrocci eran carichi di roba da mangiare e da bere, e specialmente di dolciumi, di rosoli, di rum e d’altre leccornie. Nel condurre i detti barrocci verso Frignano, l’ufficiale che comandava il mio drappello, sbirciò tra il fosco e il losco in mezzo a un campo dei soldati borbonici, che avevan l’aria di precorrere qualche grossa pattuglia, e fattosi ad inseguirli, li ebbe tra le mani con poca fatica, e senza che di qua o di si sparasse un sol colpo. Erano sei gendarmi, armati di tutto punto, e colle loro brave manette in tasca, come se andassero in cerca di gente da legare.

Condotti che furono dinanzi a me, presi ad interrogarli per conoscere lo scopo di quella notturna loro ronda, ma capii dopo poche parole, che quei poveri diavoli stanchi e annoiati di starsene in Capua, dove c’era penuria d’ogni ben di Dio al di del puro necessario, eran venuti spontanei in bocca al lupo e ringraziavano il cielo d’esser capitati così presto nelle nostre mani.

Infatti, uno di costoro, che era caporale, mi disse:

– Abbiamo servito fedelmente Francesco, e serviremo con fedeltà Garibaldi e Vittorio Emanuele.

Condussi, dunque, meco ad Aversa i prigionieri, insieme a certi villani, sospetti di aver tenuto il sacco a’ due conduttori dei barrocci e di aver fatto frequenti visite a Capua; e chiamato l’ispettore di polizia, che era un vecchio escito da pochi mesi dal bagno, dove l’avea ridotto l’amor di patria, gli dissi:

Sentite vecchio, voi che avete il compito di saper tutto, dovete tener d’occhio i borbonici d’Aversa e dei dintorni, e far sì che, bollandone qualcuno dei più arrischiati, cessi questo viavai di teneroni e di spie, che, a quanto mi si dice, vanno ogni notte in Capua e se ne tornano, senza che nessuno sappia un’acca dei fatti loro. Questa baraonda deve finire, e sta a voi il far sì che finisca presto.

Il vecchio, che l’avea a morte col Borbone e coi borbonici, e che non vedea l’ora di fare un po’ agli altri ciò che gli altri avean fatto a lui, mi fece intendere che avevo invitato la lepre a correre, e rispose:

– Eh, maggiore mio, tanta gente avrei fatto legare a quest’ora, perché i borbonici li conosco al puzzo; ma che volete? da Napoli vengono sempre “ordini inzuccherati”» e mi si dice che la gente si tratti coguanti e non si dia corpo alle ombre. Ma adesso che voi mi date un po’ di braccio, e mi parete l’uomo che cercavo, state pur certo che innanzi domani sera v’avrò servito come va.

E per vero, il seguente venne a cercarmi al caffè e mi pose sotto gli occhi una lista di persone sospette, lunga poco meno di quella delle ganze di Don Giovanni che il fedele Leporello sciorinò dinanzi a chi gli chiese contezza delle amorose bravure del signor suo.

Stavo leggendo quella lista, nella quale erano nomi di canonici e di contadini, quando ecco una carrozza si ferma dinanzi alla porta del caffè e vedo scendere un ufficiale. Era un ufficiale dello stato maggiore, che per parte del general Sirtori mi ordinava di far subito arrestare e di spedirgli a Maddaloni un tal Garofolo, incolpato di mantenere segrete relazioni col comandante di Capua e di recarsi spesso, col favor della notte, in quella città. Gli occhi del mio ispettore balenarono di gioia, ed io stesso mi rallegrai nel pensare che trovato il bandolo, avrei potuto dipanare facilmente la matassa. Ma rileggendo la lista dei sospetti e non trovandovi scritto il Garofolo, mi volsi all’ispettore, dicendogli:

Bravo, per Dio! avete empito di nomi un foglio di carta, e dimenticaste per l’appunto il vero Pandolfo... La polizia che dovreste far voi, debbono farla al quartier generale.

L’ispettore diventò rosso come un cocomero aperto, e colla maggior confusione mi confessò di non aver mai saputo che vivesse in Aversa un uomo col nome di Garofolo.

Escimmo dal caffè e ci mettemmo alla cerca. Dopo un quarto d’ora, l’ispettore ci condusse ad una casa di bell’aspetto, dicendoci: «Qui sta Raffaello Garofolo».

Eureka! dissi, e battei piano piano alla porta.

Ci aperse una fantesca, la quale, saputo che cosa volevamo, ci rispose che don Raffaello era fuori.

– O chi c’è in casa?

– Ci sono io, e ci sta la signorina.

Salimmo su e ci trovammo dinanzi alla signorina, che appena udito come cercassimo il babbo suo, cominciò a tremare come una foglia e non ebbe voce per rispondere a tono.

L’ispettore, credendo si trattasse della confusione che suol generare la bugia, si dette a gridar come un ossesso, intimando alla povera ragazza di condurci dal padre suo, che per forza doveva essere in casa, e dichiarando, senza respice, che don Raffaello era reo d’alto tradimento, di spionaggio, di fellonia e di tanti altri simili delitti, e che meritava la morte, e morte avrebbe. E si pose a girar per la casa e a rovistare per tutti i cantucci e a guardar sotto i letti, giurando che don Raffaello era in casa, e minacciando arrestar la figliuola come complice e come manutengola, se don Raffaello non comparisse. La poverina non sapeva più in che mondo fosse, ed io n’ebbi compassione e presi a raccomandarle che dicesse la verità e persuadesse il babbo suo, se veramente era in casa, a palesarsi, ammonendolo che col volersi nascondere ei non avrebbe fatto che peggio e si sarebbe tirato addosso, oltre il male, il malanno.

La ragazza, rassicurata alquanto, cominciò a sciorre la lingua; e dopo alquanto titubare, mi disse che il babbo era fuori di casa, ma che facilmente l’avremmo trovato in un suo podere, a due passi dalla città, dove era solito recarsi ogni giorno per far l’ora della cena, insieme col castaldo.

Ci recammo al podere, e subito c’imbattemmo in don Raffaello, che placidamente passeggiava sull’aia, insieme al castaldo. Appena seppe che cosa da lui si voleva, diventò di mille colori, e volle scolparsi, mostrandoci che pigliavamo un solenne granciporro e chiamando in testimone Dio e i santi, per provare che ei non s’era mai allontanato dalla sua Aversa e che non pensava al Borbone, più che non pensasse all’angelo, nel cui nome l’avevan battezzato. Ma ogni sua ragione fu inutile, perché i miei compagni lo trassero seco in città, e lo chiusero nella carrozza, e l’ufficiale di stato maggiore sel condusse a Maddaloni credendo in buona fede d’aver acchiappato il colpevole e d’aver adempiuto profumatamente il suo compito.

Io non pensavo più a questo fatto, quando il giorno dipoi, mi vidi comparire dinanzi un altro ufficiale dello stato maggiore, dal quale seppi che don Raffaello Garofolo non era il Garofolo che si cercava, ma il vero colpevole andava cercato ed acciuffato altrove, cioè nel paese di Frignano, dove le oche stesse ce l’avrebbero insegnato, solo che ci fossimo tolta la pena di dimandar chi egli fosse e dove stesse di casa. L’ufficiale dava poi termine alla sua commissione con una solenne lavata di capo all’ispettore di polizia, accusandolo di aver preso lucciole per lanterne, e dicendo a me che non mi dessi pace sinché non avessi ghermito la temeraria spia e non fossi certo di aver troncato ogni corrispondenza tra il comandante della città di Capua e i borbonici che annidavano dietro la linea dei miei avamposti. Appena fu partito l’ufficiale, dissi all’ispettore che se n’andasse tosto a Frignano e arrestasse il Garofolo, e che, non trovandolo in paese, pigliasse nota della sua casa, ed al resto avrei pensato io.

L’ispettore partì, e tornossene indi a poco colle mani vuote, ma recava seco un sergente al quale aveva indicato la casa del Garofolo, dicendomi aver saputo che il Garofolo si recava a Capua, quasi ogni notte, e non ne faceva ritorno se non un’ora o due innanzi l’alba.

Chiamai allora un tenente genovese, per nome Cattaneo, che era stato de’ Mille, e che tenevo in conto d’uomo scaltro e fidatissimo, e gli ordinai di recarsi con un drappello a Frignano e di far cautamente la posta alla spia e di guardar bene che non gli sfuggisse dalle mani.

Il tenente, inteso quel che doveva fare, giurò che vivo o morto m’avrebbe recato il Garofolo; e scelti dodici compagni a piacer suo, partì sul far della sera, scostandosi dalla strada maestra e marciando pei campi, acciò la notizia del suo arrivo nol precorresse in paese. Il suo calcolo era questo: giungere improvviso a casa della spia, innanzi che fosse partita pel solito suo viaggio, e coglierla calda calda, Dio sa mai con quali lettere in tasca.

Ora, sappiano i miei cortesi lettori il triste caso che accadde; caso, nel quale non ebbi alcuna colpa, ma che m’addolorò tanto, e non meno di me afflisse il povero Cattaneo.

Arrivò quest’ultimo sotto la casa del Garofolo, che era staccata dalle altre, in cima al paesello, verso tre ore di notte. Faceva un lume di luna così bello, che parea giorno, ma nessuno s’accorse in quella casa dell’arrivo dei molesti visitatori. Le finestre eran chiuse, né alcun lume trapelava per gli spiragli: segno certo che tutti dormivano o facean viste di dormire.

Il tenente, circondato che ebbe la casa, disse a uno dei villani che avea seco per guide, che picchiassero alla porta. I villani picchiarono ripetute volte, e chiamarono a nome il Garofolo e poi la moglie, pregando che aprissero senza paura, ma fu lo stesso che dire ai sordi.

Tutt’a un tratto, ecco aprirsi una finestra dalla parte opposta della casa, proprio in faccia al luogo dove il Cattaneo si era messo in agguato con due compagni, e si vide comparire alla finestra una figura bianca, che spicca un salto e cade per terra, e poi si rialza e se la a gambe pei campi.

L’apparizione ed il fatto avvennero tanto repentinamente, che nessuno ebbe tempo di muoversi, ma il Cattaneo, afferrata una carabina, sparò dietro al fuggiasco, e questi cadde al suolo, gittando un altissimo strido. Oh Dio! La palla del tenente aveva colto nella schiena il figlio sedicenne del Garofolo. Il figliuolo l’avea pagata pel padre, il quale, in quella sera anticipò, per istigazione del diavolo, l’ora del viaggio... Ma il figliuolo sapeva certamente i peccati del padre; e vedendo gente armata, s’aveva tolta paura, e gli era parso men duro il saltar la finestra che il lasciarsi prendere; se pure non vuol dirsi che il giovinetto obbedisse all’amor suo od alla madre e cercasse pigliare il largo per avvertire il babbo che non tornasse a casa mai più.

Vennero tosto ad avvertirmi in Aversa, e io cavalcai colà innanzi che fosse giorno, e vidi una donna ancor giovane e bella che piangeva disperata sul figliuolo morente. Piansi anch’io con quella donna, ed apersi bocca per rimproverare l’ufficiale... Ma che potevo io dire all’ufficiale? Non eravamo a poche miglia da una città assediata? Non si trattava d’una spia che dovevamo pigliare viva o morta? Chi poteva mai immaginar il maledetto caso che il fuggiasco fosse il figliuolo e non il padre?

Il fatto andò proprio così come l’ho narrato; ma il generale Sirtori che scrupolosissimo era, ne fece un vero diavoleto, e non si stancava dal dire che tanto io, quanto il Cattaneo meritavamo un consiglio di guerra, come se io avessi ordinato all’ufficiale di tirare al figliuolo invece che al babbo, o l’ufficiale avesse dovuto indovinare chi era l’uomo che saltava giù in camicia da una casa più che sospetta, e pigliava l’aire attraverso i campi, per andarsene a cercar rifugio tra i nemici.

 

 


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