Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

XIV

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XIV

 

Pochi giorni erano trascorsi da quel doloroso fatto, quando il generale Corte mi chiamò col mio battaglione presso Sant’Angelo, dove egli avea preso stanza in una piccola villa, spesso e volentieri salutata dalle palle dei grossi cannoni di Capua.

Clemente Corte, uomo animoso quant’altri, e insofferente di riposo, usciva non di rado a cavallo scorrazzando sulla linea degli avamposti, sempre più vicini alla piazza assediata, sia per visitare la sua gente, sia per trovarsi con gli ufficiali dell’esercito regolare, suoi antichi compagni, che davano opera a rizzare le trincee per collocarvi le artiglierie.

Un tal giorno, essendo esciti fuori alcuni battaglioni borbonici per darci un po’ di noia, il Corte mosse con qualche centinaio de’ suoi a rintuzzarli, aiutando così per suo diporto un reggimento della brigata Simonetta, che essendo il più vicino al nemico, s’era messo a respingerlo in città.

Respinto che fu il nemico, inseguito dai nostri quasi fin sul ciglio della piazza d’arme di Capua, Clemente Corte, che aveva un cavallo bellissimo e lo governava con molto bel garbo, si pose a farlo caracollare nel mezzo d’una strada, che conduce in linea retta alla città. Ad un tratto una palla di cannone, colse sul muso il bel cavallo, e glielo portò via di volo con una parte della testa. La povera bestia diè un lancio e cadde giù, trascinando seco il cavaliere. Noi che eravamo dietro a lui forse quaranta passi, lo credemmo morto; ma in meno di quel che si dice, il fortunato uomo si rialzò salutandoci con uno scroscio di risa, e noi lo salutammo con fragorosi evviva.

 

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Non voglio dilungarmi nel narrare i molti e svariati episodii che occorsero nei giorni che, dopo la battaglia del primo d’ottobre, passammo sotto Capua, ma il lettore non abbia male che gli descriva ciò che mi accadde nella penultima notte di quel mese, col quale terminarono le fatiche nostre.

Il battaglione che comandavo io, era composto di romagnoli, massime ravennati e cesenati, e di parmigiani e modenesi, e c’era qualche raro veneto, e qualche toscano, e solo un napoletano e questi fu un ragazzo di undici o dodici anni, che suonava la tromba, ed era il mio trombettiere prediletto; spesso me lo recavo in groppa al cavallo e ne facevo le più gran feste del mondo.

Quei volontari erano gente fatta, per la più parte, come annunziavano i grossi baffi e i musi duri, per menar le mani; ma negli alloggiamenti ci voleva la pazienza di Cristo a tenerli, e non conoscevano che l’erba voglio, e non obbedivano volentieri se non a due soli ufficiali ed a me, che forse eravamo loro più simpatici e più piacevoli ad obbedirsi. Spesse volte que’ diavoli entravano in ruzza pel troppo riposo che dava loro l’assedio, e ci voleva il pungolo per menarli all’esercizio e ci volevano le funi per tenerceli, e inviperivano se qualche ufficiale vietava loro che giocassero alle carte o li rimproverava perché le armi non eran ben lustre o perché gli abiti erano sudici ed invocavano con aperte bocche l’ago ed il refe.

E io dicevo agli ufficiali: «Guardate alle cose che meritano, e passate sopra alle bazzecole, e pensate che questi son soldati per oggi e per domani, e vi stia soltanto a cuore che facciano buona guardia, che custodiscano le munizioni e le armi e che, all’occorrenza, sappiano menar giù bòtte da orbi». E questo non voleva dire che avessi paura delle loro bizze, perché quante volte ebbi voglia e riputai necessario di farli rigar diritti, non ebbi da pigliarmi altra briga, che quella di entrare a muso duro in mezzo ad essi e far vedere che mi sarei lasciato mettere a pezzi, prima di tollerare che si pigliasse a gabbo chi aveva diritto di comandare e non comandava se non delle cose giuste.

Comunque fosse, e’ volevano un gran bene a me, ed io ne volevo loro altrettanto e fummo sempre amici e ci lasciammo, alla fine della campagna, colle lacrime agli occhi.

Un giorno però, che fu il ventinovesimo di ottobre, accadde che certi soldati del battaglione, parendo loro che fosse cattivo il pane, pessimo il vino e abominevole tutto il resto, cominciarono a fare il diavolo a quattro, e quasi tutti gli altri tenner loro bordone. A poco a poco, le vociferazioni furono infinite, e volarono per aria i pani, e le minestre si sparsero per terra, e parve che il mio alloggiamento diventasse un inferno. La rabbia di quella gente era tale, che si accusavano a voce alta gli ufficiali di non aver punto amore pe’ loro uomini, e si minacciava di piantar banco e burattini e correre ad arruolarsi in folla nel reggimento più vicino, dove non sarebbe mancato al povero volontario quel tanto che Garibaldi gli assegnava, e dove superiori più amorosi avrebbero avuto maggior cura che i fornitori ladri non rubassero a man salva.

Udendo quel gran romore, e fatto certo che i miei ufficiali non erano buoni a quietarli, scesi giù dalla mia stanzetta, e pigliai ad ammonire i rabbiosi, dicendo loro che avrei fatto reclamo al generale Corte peviveri che a loro parean cattivi, e che d’ora innanzi sarei andato io stesso a tener d’occhio i fornitori e a cercar di coglierli in peccato, perché ne pagassero il fio. Del resto, dicevo loro che rammentassero il proverbio francese: «À la guerre comme à la guerre», e il proverbio italiano: «In tempo di guerra, pan di vecce»; e dicevo:

– O che ho forse mangiato io roba diversa dalla vostra? E avete voi bocca più fine della mia? Su, pigliate il mondo com’egli viene, e non vi fate scorgere in questi ultimi giorni che ci rimangono da faticare. Altri, prima di voi, credettero andare a nozze, mangiando assai peggio; i poveri Mille si pascean di fave e gridavano evviva e si battevano da bravi, come se avessero avuto nello stomaco polpe di cappone e vino di Barolo.

Queste mie parole parvero aver quietato il chiasso, ma appena io fui sparito per tornarmene nel mio abituro, la gazzarra cominciò più forte che mai, e due o tre ufficiali che voller fare alto ! dovettero correr su da me, dicendomi:

Torni giù lei, perché la faccenda ingrossa, e cominciano a minacciar cose brutte.

Era una giornata, in cui pativo fortissimo di mal di testa, perché l’aria di quelle maremme m’avea messo addosso un po’ di febbre, e il medico mi faceva ingoiare il chinino; sicché al mal di testa aggiungendosi la stizza, sentii le caldane salire al cervello, e in mezzo a tanti furibondi diventai furibondo anch’io. E provato di bel nuovo a farmi intendere e visto che parlavo ai sordi, feci sellare il cavallo e vi salii su gridando:

Adesso vi medico tutti, e giuro a Dio che diventerete tante pecore.

Udendo queste parole, i volontari tacquero, come per incanto: temettero forse ch’io corressi da Garibaldi a rammaricarmi di loro e a chiedere man forte per ridurli al dovere, e qualche voce volle rassicurarmi ed esortarmi a non andar via. Ma io spronai il cavallo e corsi dal generale Corte. Il Corte non era in casa, ed io galoppai dal Medici, e col Medici trovai anche il Corte, e dissi ad ambedue:

– Io ho meco un battaglione di diavoli cui prudono le mani e puzza il benestare. Fate che stanotte io possa condurli in luogo dove fischino le palle e siano almen vicine a fischiare, perché io vi giuro che divento matto e son per fare quel che fanno i disperati.

I due generali risero delle mie parole, e vedendomi tutto acceso in volto e con un diavolo per capello, m’offersero da bere, e vollero che narrassi loro dall’a alla zeta la dolorosa mia storia. Tirai giù un bicchier di vino per affogar la rabbia e narrai tutto.

Tosto, Medici disse a Corte:

– Ma è facile il contentare Bandi; stanotte appunto minaccia fare un po’ di caldo agli avamposti, ed è bene che ci sia gente fresca; e se i suoi uomini hanno i grilli pel capo son proprio la gente che ci vuole.

E chiamato il suo capo dello stato maggiore, disse che facesse condurre il mio battaglione agli avamposti a un’ora precisa di notte, e che la linea degli avamposti si spingesse innanzi, secondo il convenuto.

Tornai di botto al mio alloggiamento e tutto allegro com’ero comandai che il battaglione fosse pronto tra venti minuti e non più.

Appena ebber preso le armi e furono in ordine, dissi ai volontari:

– Ecco, vedremo adesso alla prova tutti quei gran bravacci che si agitano e paiono voler mangiar bestie e cristiani. Io vi conduco per castigo agli avamposti, e sentirete che vento tira!

Un lungo applauso tenne dietro al mio discorso, e tutti parvero contenti e lieti, come se andassero alla festa da ballo, e non finivano di gridare bravo e di pregarmi che perdonassi loro la breve bizza.

Io perdonai e risi di vero cuore; e quando gli ufficiali dello stato maggiore di Medici vennero per condurci al nostro posto, i più allegri intonarono un inno, e tutto il battaglione fu un coro. Se non che io comandai silenzio, e da quel punto non s’udì rifiatare.

Giungemmo sulla linea degli avamposti, che era occupata, dinanzi a Sant’Angelo, da un battaglione di calabresi. Gli ufficiali di Medici mi fecero oltrepassare parecchio la linea, e non mi dissero che mi fermassi, se non quando fummo sulla strada, che spalleggia gli spalti della città, nel punto in cui la spianata serve ad uso di piazza d’armi.

La notte era chiara, e si distinguevano benissimo tra una lieve caligine le torri e le mura della città, che non potevano esser distanti da noi oltre quattrocento cinquanta metri, o cinquecento al più.

Collocai la mia gente, come meglio seppi, ordinando severamente che nessuno facesse fuoco senza mio ordine, e dissi che stessero bene all’erta, perché da un momento all’altro poteva capitarci addosso quel che men si cercava.

Mentre così dicevo, due gran cannonate della fortezza ci avvertirono che i borbonici non dormivano, e che stavano in orecchio e ci vedevano anche al buio.

Pochi momenti dopo, un altro battaglione della nostra brigata venne ad unirsi a noi, e il maggiore Friggessy, ungherese, che lo comandava, mi disse avere avuto ordine di costruire, durante la notte, una grande trincea. Infatti, capitarono parecchi contadini con zappe e pale e con sacchetti pieni di rena o da riempirsi e aiutandoli i nostri uomini, si dette tosto mano al lavoro, cuoprendo i lavoratori con un cordone di “sentinelle mortescelte fra i più svelti e fra i più volenterosi.

Mentre noi lavoravamo alla trincea nostra, mi accorsi che dietro noi c’erano i soldati del genio dell’esercito regolare che lavoravano anch’essi, e i loro ufficiali mi fecero intendere che si costruiva una batteria per bombardare la città.

La notte passò tranquilla, salvo qualche cannonata, che, di tanto in tanto, ci regalava la fortezza; e, innanzi giorno, la nostra trincea fu compiuta, ed era alta e robusta e ben lunga.

Appena fatto giorno, vedemmo escir dalla città qualche drappello di cavalleria, ed a gran stento tenevo le mani ai miei uomini, che volean tirare ad ogni costo. Verso le otto capitò Medici col Corte, e con alcuni ufficiali, e la numerosa cavalcata fece sì che i cannoni nemici mostrarono di essere desti. Medici, senza curarsi delle granate, che ronzavano a iosa, speculò e vide quel che gli piacque vedere, e mandato un suo ufficiale ad ordinare non so quali movimenti a vari battaglioni, che stavano a sinistra del mio, disse:

Ora facciamo colazione.

La colazione era stata imbandita in mezzo a un campo, dove le ondulazioni del terreno formavano un piccolo anfiteatro, nel quale ognuno di noi potea starsene in piedi, senza mostrare al nemico null’altro che il berretto. Seduti in quella specie di catino, il quale ci capiva tutti per l’appunto, ci mettemmo a divorare la polenta e i tordi coll’appetito che suole aver ogni buon soldato in campagna; quando, sia che i borbonici ci avesser veduti entrare nella buca, sia che il movimento dei battaglioni vicini al mio avesse dato loro un po’ troppo nell’occhio, i cannoni della piazza cominciarono a tirare con indicibile accanimento.

Le granate scoppiavano vicino a noi, e grossi pezzi ne caddero sull’orlo della buca; gli alberi, flagellati dalle schegge e dalle palle piene, si rompevano crosciando; si sarebbe detto che i soldati di re Francesco volevano impedirci di finire il nostro beato pasto o ammonirci almeno che dal banchetto alle esequie il passo era, più che breve, brevissimo.

In quel punto, Giacomo Medici, che era la bravura in persona, disse:

– Che direbbero adesso que’ gran fanfaroni, che quando si trovano lontani cento miglia dalle palle, giurano non aver mai provato un gusto eguale a quello che provarono, stando al fuoco? Non pare a voi che chi così dice, dica una bugia ben grossa?

E Corte e noi rispondemmo di sì e ciascuno fece la sua coda alla savia considerazione del generale.

Mentre ragionavamo o in tal guisa, l’occhio di Medici, che non perdeva di vista il nemico, scorse che un buon nerbo di truppe esciva dalla piazza.

– Una sortita, – disse il generale. – Vada ciascuno al suo posto; e lei, Bandi, lasci avvicinare il nemico alla barricata, senza mai far fuoco, e poi faccia una bella scarica.

Escimmo dalla nostra buca, sfolgorati più che mai dalle artiglierie, che per buona sorte non ci seppero cogliere; Medici salì a cavallo insieme a’ suoi compagni e andarono di galoppo sulla sinistra; io e Friggessy tornammo alla trincea. I nostri uomini eran distesi, bocconi, per terra, tranne quelli che potevano starsene in ginocchio dietro la trincea.

Si cantava ad alta voce l’inno di Garibaldi, e a me pareva essere una man di Dio quel canto, perché i volontari si astenessero dal tirare. Ma la musica non li tenne al canapo eternamente. Quando videro che due o tre dei compagni loro caddero feriti dalle schegge delle granate, e quando poi distinsero i fanti ed i cavalli borbonici che si facevano innanzi, un fucile sparò, e poi due spararono e poi tre, e non ci fu verso d’impedire che tutti facessero il loro colpo: per quanto si gridasse, e si bestemmiasse, e si minacciasse con le sciabole e con revolvers.

La fucilata divenne generale, e durò un bel pezzo. La sortita dei regi fu respinta, ed io e Friggessy impedimmo a gran fatica che alcuni de’ nostri uomini non si cacciassero al dilà della trincea per assalire il nemico che era assai lontano da noi e ritornava in città.

Friggessy, indispettito per non vedersi obbedire così sollecitamente come voluto avrebbe, impugnata una carabina tirò una botta a un mio soldato, Ilario Conti di Livorno, il quale, con una bandiera in pugno, aveva saltato la trincea e invitava tutti gli altri compagni a seguirlo. Friggessy non colse il Conti (e certo non volle coglierlo) ma il Conti voleva poi coglier lui, e sarebbe terminata male, se non entravo io di mezzo.

Rientrate in città le truppe nemiche, il cannone ricominciò a tuonare e i nostri seguitarono a tirar giù come prima, né c’era verso di farli smettere.

Dopo un bel pezzo, due bombe colsero in pieno la trincea, già malconcia da parecchi tiri, e scoppiando, buttarono giù i sacchetti, che con gran spolverìo ci vennero addosso. Mi trovai, per un momento, quasi soffocato dalla rena, e quando fui buono di salir su, vidi morto uno dei miei volontari, e tre o quattro ne vidi feriti, tra i quali fu il piccolo trombettiere. I borbonici, a forza di tirare, avevano imbroccato il segno, e la trincea era mezzo disfatta. Pure si continuò a tirare; e, poco dopo, giunsero a rinforzarci altri due battaglioni, inviati a noi dal quartier generale, quando furono viste sortir da Capua le truppe e venirci addosso.

Presi in collo il trombettiere, come avrei fatto a un figliolino mio, e lo posi su d’una carretta perché lo portassero all’ospedale.

Verso sera ci dettero lo scambio, e partimmo, salutati dalle palle dei cannoni della fortezza, che vollero darci l’addio.

Ricordo che mentre salivo a cavallo sulla via maestra, una grossa palla investì un massiccio tabernacolo, dentro il quale era una Madonna, e lo ruppe in due, come se fosse stato un colonnino. In quel punto mi vennero intorno due bei signorini, vestiti di seta cruda e col frustino in mano, che riconobbi essere reporters di certi giornali inglesi, e rammentai averli veduti, poco tempo innanzi, in Sicilia. Dissi che quel luogo era poco adatto per gente della loro fatta; ma quei signorini, forse, e senza forse, un po’ in bernecche, ridevano a crepapelle e ci volle un buon moccolo per indurli ad andarsene e a non scherzare più a lungo col fuoco e non star più a lungo intorno a me ad ingrossare il bersaglio, già abbastanza grosso.

Tornati che fummo all’alloggiamento e fatta la chiama del mio battaglione, mancavano dodici uomini: tre morti e nove feriti.

Ma i superstiti e gli incolumi mi ringraziavano e mi facean festa, dicendo:

– Ha veduto che qualche volta siamo un po’ matti ma non siamo capaci di farle disonore?

Il castigo era stato per quei demoni una festa.

 

 


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