Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

XV

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XV

 

Non capiva nel generoso animo di Garibaldi il pensiero che per una necessità inesorabile di guerra s’avesse a bombardare una città, e specialmente una città italiana, mettendo in risico i poveri abitanti, su’ quali non era ragionevole il far cadere con tanta crudeltà il castigo dei peccati altrui.

Per la qual cosa, quell’uomo generoso, sordo alle sollecitudini di chi avea furia di terminare quel noioso assedio, proibì rigorosamente che si tirassero cannonate su Capua, anche nei momenti nei quali il fuoco della piazza travagliava con maggiore asprezza i nostri avamposti.

A questo proposito, rammento che un tal giorno, mentre si collocavano in batteria sul monte Sant’Angelo certi grossi cannoni, il colonnello Giacomo Griziotti, credendo assente e molto lontano di il dittatore, caricato un cannone, volle mandare un saluto alla città di Capua e lo mandò, dandogli fuoco di proprio pugno e carattere, come si piaceva narrare a quanti avean voglia di conoscere quella avventura. Il Griziotti era quello stesso che nel porto di Marsala avrebbe voluto mandare a picco a furia di cannonate le lance regie che vogavano, cariche di soldati, per abbordare i nostri due vapori, e non se ne tenne se non perché Garibaldi (come i miei lettori rammenteranno) glielo aveva vietato a gran voce, rimproverandogli che per un capriccio matto volesse dar luogo a una rappresaglia feroce contro la povera Marsala.

Questa volta, dunque, Giacomo Griziotti poté levarsi il capriccio di tirare una cannonata, ma appena ebbe tuonato il cannone, si udì Garibaldi, sbuccato non so di dove, gridare: «Chi è quello sciagurato che tira? chi è che tira contro mio ordine?».

E Griziotti, udita quella voce che facea paura a tutti, anche a quelli che il dittatore avea in maggior benevolenza, inforcato il cavallo, se ne fuggì via come il vento, e venuto a Caserta mi raccontò, colle più pazze risa del mondo, il suo caso.

Ma quando furono giunte dinanzi a Capua le truppe del generale Della Rocca, e cominciarono insieme con noi a stringere più da vicino la piazza, Garibaldi non fu più padrone di impedire che Capua si bombardasse, e i preparativi per quel negozio si cominciarono di concerto fra i due eserciti assedianti.

Tralascerò di raccontare i fatti d’arme che si combatterono sulla linea degli avamposti sino al giorno trentesimo d’ottobre, e dirò soltanto che Capua fu bombardata nella sera del primo novembre. Il fuoco delle nostre batterie doveva aprirsi alle quattro.

Verso le tre, Garibaldi montò a cavallo sulla piazzetta di Sant’Angelo, e se ne venne verso Santa Maria per andarsene a Caserta.

Comandavo allora un battaglione del reggimento di Griziotti, che fu il primo della brigata Basilicata, e dovevo passar la notte presso il cimitero di Santa Maria.

Quando Garibaldi comparve in fondo alla strada, feci pigliar le armi ai soldati per salutarlo. Garibaldi, giunto in faccia al battaglione, fermò di botto il cavallo e mi fece cenno che m’avvicinassi a lui.

Vedete, – mi disse – vogliono bombardare a tutti i costi, e io me ne vado via perché non ho cuore di assistere a tanto barbaro spettacolo. Nessuno deve aver diritto di chiamarmi bombardatore.

E strettomi la mano, salutò i volontari, gridando loro con quella sua voce che innamorava:

Addio, figliuoli, addio.

I volontari ruppero toste le righe, e colle armi in mano gli furono attorno, e tutti volean baciargli la mano, o per lo manco le vesti o le stoffe, ed ei dovette spronare il cavallo e spingerlo al galoppo, per liberarsi da quell’affettuoso tumulto.

Era sparito da poco tempo il dittatore quando le batterie del generale Della Rocca e le batterie garibaldine apersero il fuoco con indicibile frastuono. Le artiglierie della piazza presero tosto a rispondere con grandissima furia, e per qualche ora il cannoneggiamento somigliò al rullo d’una immensa banda di smisurati tamburi. Si sarebbe detto che la terra tremasse, e l’aria pigliasse fuoco. Le nostre bombe s’alzavano a volo e dopo breve tratto ricadean giù a piombo e credemmo che cadessero tutte sulla città, e ci parve che questa, innanzi giorno, sarebbe incenerita. I proiettili che lanciavano le artiglierie del nemico cadevano a pochi passi da noi, e scoppiavano pei campi, ma non fecero se non danni lievissimi.

A noi, che per la prima volta assistevamo allo spettacolo d’una città bombardata, parve che a Sebastopoli non si fosse fatta maggiore gazzarra; ma in sostanza il bombardamento di Capua non fu se non molto chiasso per nulla e poche buche spalancò e pochissimi morti vi cacciò dentro, e si contarono sulle dita i tetti che ne furono sprofondati e le muraglie che ne furon rotte. Le nostre bombe, per la più parte, sospinte dal vento, che soffiava forte, caddero nel fiume, a tergo della città, e solo quando la cupola del duomo fu rotta in due punti, il popolo spaurito andò a piangere dall’arcivescovo, e questi supplicò il generale comandante che avesse compassione e non si ostinasse in una inutile difesa.

La notte fu procellosa e buia, e le bombe guizzavano come fuochi d’artifizio, rompendo tristemente le tenebre. Verso le nove o le dieci il fuoco cominciò a rallentare di qua e di , e dopo qualche ora furono rarissimi i colpi.

La mattina del seguente che fu quello dei morti, la piazza non dava segno di vita e le batterie garibaldine tacevano; qualche cannone però del Della Rocca continuava a far fuoco, sebbene le bandiere bianche sventolassero sulle mura e sulle torri della città.

Verso le dieci, sapemmo che i borbonici stavano capitolando; poco dopo, si disse che s’erano resi a patti, cogli onori delle armi.

La mattina che seguì, vedemmo diecimila soldati del Borbone escir dalla porta di Capua e deporre le armi sul campo degli esercizi, e rendersi prigionieri ai reggimenti del nostro esercito regolare.

Tutta quella bella e numerosa guarnigione era stata rannicchiata nelle casematte, durante il bombardamento, e non aveva avuto animo di farsi viva con una sortita; sebbene tanto il Sirtori, quanto il Della Rocca temessero, non senza ragione, il contrario, e vegliassero tutta la notte, per non essere colti alla sprovvista.

Caduta Capua, il nostro compito era finito. L’esercito regolare s’apparecchiava a circondar Gaeta, re Vittorio si avvicinava a Napoli, e Garibaldi non vedeva l’ora di tornarsene alla sua Caprera, dalla quale era lontano da parecchi mesi, e dove l’aspettavano i giocondi riposi, all’ombra d’una gloria incontaminata e invidiabile.

Ormai, cominciava anch’egli ad accorgersi che noi non eravamo più se non ospiti importuni, colà dove pochi giorni innanzi fummo soli di fronte al nemico e soli a gridare al mondo che non c’erano più due Italie, ma una sola Italia, un sol popolo ed un sol cuore.

L’esercito regolare ci guardava tutt’altro che con occhio di simpatia; le nostre lacere camicie rosse parevano fare orrore ai generali carichi d’argento pe’ quali non eravamo se non fortunati scorridori, usurpanti il nome e le insegne della vera e buona milizia.

Ricordo, e giova ricordarlo, che due giorni dopo la resa di Capua, Giacomo Medici volle visitare la città, e si presentò alla porta, seguito da alquanti ufficiali della sua divisione, tra i quali fui io che scrivo. Il Medici era vestito con una tunica nera, ed avea al berretto le insegne del suo grado, eguali a quelle dell’esercito regolare, e non fu uomo che, guardandolo, potesse pigliarsi per uno scannapagnotte o per un soldato da processione. Pure, diversi ufficiali dei granatieri, che eran seduti presso la porta della città, lo guardarono in viso poco men che ridendo, e non degnarono di alzarsi e molto meno di dargli il benvenuto; onde ei divenne rosso come il fuoco, e fu per saltar fuori dai gangheri, e non s’astenne dal lagnarsene con noi, dicendoci: «Vedete, che accoglienza ci fanno costoro! neanche se fossimo tanti poltroni!».

In que’ giorni ci fu detto che re Vittorio sarebbe venuto a vederci; infatti, stemmo una mezza giornata intiera sotto le armi e schierati in quell’ordine che si poté migliore, per aspettare la visita del re d’Italia; ma la sera tornammo agli alloggiamenti senza che egli ci avesse visti.

Ben è certo che il re avea fisso di venire a farci una visita, e ci sarebbe venuto veramente, se certi gran sapientoni che avea d’intorno, non gli avessero dimostrato la sconvenienza di quella visita, facendogli chiaro che non era degno di un re il percorrere a cavallo le file di que’ nuovi sans culottes, e di far loro festa, quasi che fossero soldati suoi.

Garibaldi si afflisse non mediocremente di questo fatto, ma non ne accagionò mai il re; anzi, disse ripetute volte: «Povero re, vedete che cosa gli fanno fare!...».

Ma la più grande e amara delusione che ebbe, fu quella del veder dileguato il suo bel sogno dell’affratellamento delle camicie rosse coi cappotti turchini per seguitare la guerra. Quell’anima generosa non sapea capacitarsi che colla resa di Capua avesse a finire il cómpito suo, e che colla presa di Gaeta avesse a terminarsi la guerra, e si dovessero deporre le armi, lasciando il papa a Roma e gli austriaci in Venezia.

Perciò, negli ultimi giorni che rimase tra noi, lo vedemmo triste e taciturno, e non si udirono da lui se non parole dalle quali traspariva un acerbo rammarico, contenuto, a gran stento, nel cuore.

Per l’ultima volta egli vide quel suo piccolo, ma glorioso esercito, il giorno 6 di novembre, quando lo adunò sulla gran piazza di Caserta per dargli il suo addio. Ma egli non ci disse addio, ci disse arrivederci. E diecimila voci gridavano: «A marzo! a marzo!».

E per vero, non era tra noi chi non sperasse di rivedere fra pochi mesi una nuova Marsala.

 

 


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