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La mattina del giorno 7, entrò in Napoli Vittorio Emanuele. Pioveva a dirotto, ma la città era festante come in una giornata di bel tempo. Credo che quel giorno la gran metropoli fosse popolata del doppio. A descrivere la gioia dei napoletani, non c’è lingua che basti.
Io vidi la carrozza del re sulla piazza del Plebiscito. Il re aveva alla sua sinistra Garibaldi, vestito del solito suo abito, col suo fazzoletto sulla spalla e col suo invariabile cappello in testa. Il re e il dittatore parlavano insieme sorridendo, e salutavano colla mano la immensa folla che gridava: «Viva!» ad ambedue.
Scesi che furono di carrozza, salirono in palazzo, e parecchie volte comparvero al balcone.
Un’ora dopo, Garibaldi si accomiatò dal re, e nello scendere nel cortile del palazzo, udii che salutando il mio colonnello Griziotti, gli disse:
Ma non aveva finito ancora. Il dì seguente, dovette tornare in palazzo, e quindi consegnò al re il solenne plebiscito, e udì offrirsi croci, pensioni ed un grado altissimo e di nuovo conio nell’esercito, premi tutti che ricusò, dicendo che l’aver fatto il suo dovere non gli dava diritto ad alcuna ricompensa. Quando escì dalla sala del trono, egli era tuttavia il generale Garibaldi, e non il maresciallo Garibaldi, come i consiglieri di Vittorio Emanuele avrebbero voluto che fosse.
Fu notato allora e fu degno di nota anche in seguito che Vittorio Emanuele non scrisse mai un “ordine del giorno” all’esercito dei volontari che pure aveva intrapreso quella guerra in nome suo, ma lo fece scrivere al generale Della Rocca, i cui elogi suonarono ai nostri orecchi come lodi strappate dalle leggi della convenienza alla bocca di cotale, che non vedeva l’ora di saperci andati tutti con Dio, alla buon’ora o alla cattiva.
Però, se il re non degnò d’una sua parola le povere camicie rosse, senza le quali e’ non sarebbe entrato in Napoli trionfando, un saluto nobilissimo ce lo dette il nostro Garibaldi, le cui parole trascrivo, perché i compagni miei le rileggano, e perché i giovani imparino qual linguaggio tenesse ai suoi volontari l’uomo che fu l’amore della gioventù italiana e che seppe insegnarle a combattere e a morire, e a vincere i tiranni a dispetto della gente tiepida e meticolosa.
Ecco quel che scrisse a noi il gran vecchio, dopo aver deposto nelle mani di Vittorio Emanuele l’autorità dittatoria:
Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire, e prepararci ad attuare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.
Sì, giovani! L’Italia deve a noi un’impresa che meritò il plauso del mondo.
Voi vinceste, e vincerete, perché siete ormai istrutti nella tattica che decide delle battaglie!
Voi non siete degeneri da coloro che entravano nel fitto profondo delle falangi macedoniche, e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell’Asia.
A questa pagina stupenda della storia del nostro Paese ne seguirà una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arrotato che appartenne agli anelli delle sue catene.
All’armi tutti! Tutti! E gli oppressori, i prepotenti sfumeranno come la polvere.
Voi, donne, rigettate lontano i codardi: essi non vi daranno che codardi, e voi, figlie della terra della bellezza, volete prode e generosa prole.
Che i paurosi dottrinari se ne vadano a trascinare altrove il loro servilismo, le loro miserie.
Questo popolo è padrone di sé. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi con la fronte alta; non rampicarsi mendicando la sua libertà, egli non vuol essere a rimorchio di uomini a cuore di fango. No! no! no!
La Provvidenza fece dono all’Italia di Vittorio Emanuele. Ogni italiano deve rannodarsi a lui, serrarsi intorno a lui. Accanto al re galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi! Anche una volta io vi ripeto il mio grido: «All’armi tutti! tutti! Se il marzo del 1861 non trova un milione d’italiani armati, povera libertà, povera vita italiana!... Oh! no: lungi da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del ’61, e, se fa bisogno, il febbraio, ci troverà tutti al nostro posto.
Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di Castelfidardo, di Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non codardo, non servile; tutti, tutti serrati intorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l’ultima scossa, l’ultimo colpo alla crollante tirannide!
Accogliete, giovani volontari, resto onorato di dieci battaglie, una parola d’addio! Io ve la mando commosso di affetto dal profondo della mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L’ora della pugna mi ritroverà con voi ancora, accanto ai soldati della libertà italiana.
Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia, e coloro che gloriosamente mutilati hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno nei loro focolari, col consiglio e coll’aspetto delle nobili cicatrici che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All’infuori di questi, gli altri, restino a custodire le gloriose bandiere.
Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero; noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.
La mattina dipoi Giuseppe Garibaldi, se ne partiva tacitamente e quasi di nascosto dalla città che la sua sola presenza aveva bastato a far libera dalla soggezione borbonica.
Avea passato la notte nell’albergo Inghilterra sulla riviera di Chiaia, volendo far vedere che, deposta l’autorità suprema, sapeva ridursi con lieto animo nella condizione di privato cittadino, e in quell’albergo ebbe la visita di parecchi dei suoi più fidi e di molti cittadini napoletani e dei prodittatori, Pallavicino e Mordini.
Al Pallavicino era stata donata dal re la collana del supremo ordine dell’Annunziata; il Mordini, creduto allora repubblicano ed inviso alla Corte, non aveva avuto alcun segno della gratitudine o della benevolenza regia. Ed è fama che l’ex dittatore rimproverasse al Pallavicino, vecchio ed onorato prigioniero dello Spielberg, l’avere accettato quella magna decorazione, ma io non lo posso assicurare. Augusto Vecchi però deve aver narrato al figliuolo, ed il figliuolo ha scritto nella sua pregevole vita di Garibaldi, quanto segue:
Garibaldi lasciò il palazzo, e sebbene avesse offerta dal re di qualunque fra i numerosi castelli che attorniano Napoli, preferì l’albergo di Inghilterra, e vi prese stanza. Là rimproverò acerbamente Pallavicino d’aver accettato l’onore, che al Mordini non era stato offerto, dicendogli:
– Vergogna, voi, un prigioniero dello Spielberg, che credevo superiore a cotesti gingilli!
Al povero marchese la collana dell’ordine, che era stata male appuntata, cascò al suolo.
– Raccattatela! – esclamò il generale; e l’annoso patriota lombardo si chinò a ripigliar quel segno di sovrano favore.
Fu notato da noi che, dopo l’ingresso del re in Napoli, la stampa ufficiale più non fece motto di Garibaldi, e parve che coloro i quali circondavano Vittorio Emanuele si adoprassero per fas e per nefas a far dimenticare un passato che sembrava far moltissima ombra al presente. Tardava a costoro, il far dimenticare che da Marsala a Capua avean corso di vittoria in vittoria le lacere torme dei volontari, e che i due regni e la superba città di Napoli li avea messi tra le mani di Vittorio Emanuele quell’«audace avventuriero» che si chiamava Giuseppe Garibaldi.
Il nostro compito era finito, ma non ne veniva per conseguenza buona e legittima che ci si considerasse, così, dall’oggi al domani, come limoni ormai spremuti e non buoni che a gettarsi via. Noto specialmente quelle tre parole, perché è fama che fossero pronunziate da Garibaldi nell’atto dell’accomiatarsi dall’ammiraglio Persano, il quale, più affettuoso e meno altiero di molti altri, s’era recato a dirgli addio.
Vidi Garibaldi pochi momenti innanzi che partisse; era calmo e sorridente, secondo il solito, ma qualche suo detto rivelò ciò che ognun di noi sentiva in cuor suo: lasciava Napoli, contento di se stesso e di noi, ma tutt’altro che soddisfatto del modo con cui l’avean trattato coloro che erano onnipotenti presso il re, e che potevano chiamarsi i nuovi padroni.
In quell’ora memoranda, egli m’apparve più grande che mai: Garibaldi, tornato povero e privo d’ogni autorità, simile ai grandi del tempo antico, umili dopo i trionfi e contenti della propria gloria, era più nobile e più ammirando del dittatore e del capo di un esercito, in mezzo alle pompe della potenza e degli applausi della folla, devota sempre al sole che più risplende.
Lo vedemmo imbarcare e rimanemmo a contemplarlo con gli occhi pieni di lacrime: ritto sulla barca, ed agitante il fazzoletto per salutarci ancora, mentre la robusta voga dei sei marinai lo allontanava dalla spiaggia.
Alessandro Dumas scrisse sul suo giornale l’Indipendente la lista di ciò che l’antico dittatore recò seco da Napoli: furono pochi sacchetti di caffè e di zucchero, una balla di stoccafissi, una cassa di maccheroni, e poche migliaia di lire, risparmiate, senza che ei lo sapesse, da chi gli teneva i conti.
Lo stesso Dumas scrisse che di Garibaldi potea dirsi:
Donava un regno e gli mancava un pane.
Il piroscafo che lo accolse per trasportarlo in Caprera si chiamava Washington, e parve che il destino volesse affratellati que’ due nomi gloriosi.
Il Washington fu salutato dalle salve del naviglio da guerra inglese, ancorato nel golfo; ma le navi regie italiane non fecero mostra di accorgersi della partenza dell’uomo, che aveva liberato mezza l’Italia. . . . . . . . . .