Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE TERZA Da Palermo a Capua

XVII

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XVII

 

Trovandomi così sovente presso il dittatore, non mi saziavo di studiare quella meravigliosa figura, che, viva e vegeta, era divenuta leggendaria in Italia e fuor d’Italia, ed offriva argomento ai romanzi e ai poemi, come ai racconti popolari, ne’ quali spesso la sua virtù solea magnificarsi poco meno che con gli attributi del soprannaturale. E piacendomi oltremodo quel poterlo vedere e considerare a tutto mio agio “in farsetto” ovvero, come più comunemente si direbbe, “in veste da camera”, facevo conto di stare al paio coi fortunati che videro da vicino Giovanni de’ Medici e Francesco Ferrucci e cotali altri uomini del cui nome e della cui gloria son piene oggi le cronache e le leggende. Così, rammentando il proverbio, secondo il quale «non si grande uomo al mondo per il suo cameriere» mettevo ogni mia cura nello studiare Garibaldi nella intimità della casa per paragonare quest’uomo straordinario, veduto e ammirato dalla gente sul suo cavallo da battaglia e in mezzo alle schiere che seguitavano con infallibili auspici di vittoria nell’animo, l’eroe sempre vittorioso, e l’uomo, che, posate le armi, e deposte le insegne del comando, si rivelava nelle sue vere e semplici sembianze agli occhi dei familiari.

Giuseppe Garibaldi era, in quell’epoca, più vicino a’ sessant’anni che ai cinquanta. Chi l’ebbe conosciuto in America nei primi tempi dell’avventurosa carriera, mi diceva spesso che gli anni non avevano mutato notevolmente la sua indole, sempre calma ne’ maggiori pericoli e disposta alla benevolenza, e temperata nella prospera fortuna, come equanime nell’avversa.

Parecchi uomini avranno avuto in dono dalla natura l’impeto e il coraggio e l’animo sprezzatore della morte, che rifulsero in costui; ma rare volte credo si sien veduti uomini di guerra, sereni e padroni del proprio animo come egli fu; del quale si può dire senza timore di dir troppo, che la grandezza del pericolo e la difficoltà straordinaria d’una impresa rendevano più che mai limpido e calmo il suo occhio e più cauto e più perspicace il suo giudizio. Ed invero, la prontezza delle risoluzioni e la fulminea rapidità nel pigliar partiti furono una delle doti più notevoli di quel gran condottiero, il quale, ne’ momenti in cui la fortuna parve volgergli le spalle, non smarrì giammai, non dico l’animo, ma neanche quella chiarezza del vedere, per cui è dato il trovare per un buon partito, mentre al giudizio de’ volgari e de’ meno favoriti dalle benigne stelle sembra non esser possibile altro partito all’infuori di quello di abbandonarsi a chiusocchi alla sorte e di cedere alla sventura che incalza.

In un’altra pagina di questo racconto narrai come talvolta accadesse a me e ad altri di interrogarci a vicenda per vedere se qualcuno di noi fosse buono ad immaginare qual disegno avesse formato Garibaldi per affrontare il nemico soverchiante o per sfuggirgli con suo vantaggio di tra le mani.

Ora però soggiungo che qualche volta dicemmo ancora: «O che farà mai quest’uomo, se mai ciò che ha divisato fare, gli vien fatto a rovescio?». E accadendo poi veramente che le cose volgessero contrarie al suo proposito, noi tremavamo incerti e aspettavamo colle spine nel cuore quel che egli avrebbe immaginato e ordinato per togliersi dalle strette e per ristorare la fortuna sua; ma avevamo cominciato appena a dubitare, che un lampo dell’ingegno di quell’uomo avea trovato il bandolo della matassa e ristorato, in un attimo, le sorti dell’impresa, che a noi parevano disperate.

Perciò ripeto avergli spesso udito dire che le cose meno pensate son quelle appunto che fanno capo a più felice esito; tanto e’ si sentiva sicuro di se stesso, e tanto era vero che il fischio delle palle e il suono delle trombe e l’imminenza del pericolo, e quant’altro suol turbare ad altri la ragione per soverchio eccitamento dell’animo, non operavano in lui diverso effetto da quello di rasserenargli gli occhi e la virtù.

Venuto al mondo coglistinti innati del condottiero, innamorato delle imprese rischiose e quasi temerarie, nelle quali vuole esser libera e ciecamente obbedita la volontà di chi seppe concepirle e di chi unico si sente buono di trarle a compimento, ebbe sempre fede sconfinata in se stesso e nella sua fortuna, e così accadde che fosse difficile a chieder consigli e sdegnoso d’averne quando non li chiedeva.

Amò la libertà e le si consacrò cavaliere; ma asserì necessaria nei giorni dei pericoli e delle prove penose l’obbedienza alla volontà d’un solo. Fu chi disse averlo innamorato la dittatura colla quale aveva veduto governare le piccole repubbliche dell’America e del Mezzodì; ma credo invece che egli avesse, per dirla così alla buona, la dittatura nel sangue, e che dell’efficacia e della opportunità dell’impero dittatorio si facesse persuaso sempre più per la condizione singolarissima delle imprese e che ebbe a governare, nelle quali, appunto nella prontezza e nell’unità dell’azione e nella fede cieca e nell’amore ad un uomo era riposto il maggior segreto della vittoria.

Quello che non di rado nocque a Giuseppe Garibaldi fu il credere onesti tutti gli uomini, e il riputarli egualmente devoti alla patria e scevri d’ogni cupidità; onde accadde spesso che udendo accusare o dipingere sospetto il tale o il tal altro che, con astuzia sopraffine, s’era fatto addentro nella sua benevolenza, si adeguava contro quelle che gli parevano «cattive lingue» e cresceva, anzi che sminuire, l’affezione sua per chi n’era accusato indegno. E in questo argomento egli ebbe a patire frequentissimi disinganni, i quali però non gli insegnarono mai né a pentirsi della troppa sua buona fede, né a farsi miglior conoscitore della gente furba e d’animo ignobile.

Prova ne sia che talvolta scelse ministri delle sue beneficenze e della sua generosità uomini che lo tradirono nella più svergognata guisa, intascando finanche l’obolo che egli mandava ai feriti per gli ospedali. Ma in quella vece egli fu infallibile ed ebbe intuito meraviglioso nel misurare il coraggio della gente, prima di averla veduta alla prova, bastando a lui il fissar negli occhi un uomo o lo scambiar seco lui qualche parola per indovinare se in quell’uomo covasse un coniglio o un leone. In generale ebbe a sdegno i parolai non soltanto, ma anche i parlatori un po’ abbondanti, e gli piacquero i taciturni. E mentre tenne in pregio chiunque non avesse lingua se non per la necessità, fu inesorabile verso quanti non ebbero la virtù d’intenderlo sempre a volo. Guai a chi lo obbligasse a ripetere un ordine, o interpretasse tutt’altro che per lo stretto verso una sua parola, un suo cenno!

Ma nel trattare familiarmente, avea più del babbo che del dittatore e del soldato. Bastava averlo veduto sorridere, aver veduto quanto fosse buono, paziente, frugale, compassionevole, e come facilmente s’affezionasse a chiunque mostrò di volergli bene!

Così come amava i taciturni, fu scarso di parole, tranne quando s’accalorava nel discutere del più o del meno (il che rarissimo accadeva), o quando pigliava a raccontare qualche tratto della sua vita, che piacevole gli tornasse alla mente. E in questo proposito, spesse volte ho rammaricato di non aver fatto tesoro delle belle e vivaci narrazioni che fece talvolta delle sue vicende in America, le quali darebbero materia ad un libro, gradito oltre ogni dire.

Odiò soprattutti i prepotenti e i superbi, mentre carissimo ebbe negli uomini il sentimento della dignità, anche un po’ soverchio. Fra tutti i popoli stranieri gli piacquero gli americani del Nord e gli inglesi. Sul conto degli americani, parecchie volte lo udii dire che spingevano tant’oltre il disprezzo d’ogni autorità, da aver veduto qualche volta i marinai, che avean finito la loro capitolazione a bordo, ricusarsi di portare a terra il loro capitano, e costringerlo ad afferrare i remi e vogare da per sé.

Non ebbe idea del pregio della moneta, né sapea farsi capace del pregio che le si dava comunemente. Perdonò di buon grado a quanti credeva l’avessero offeso; ma fu spietato per quanti avean messo mano nella cessione di Nizza, sua patria, alla Francia. E quante volte gli accadde parlare della sua patria, tolta all’Italia e ceduta all’impero francese, non seppe tener le lacrime.

Una volta che Napoleone III ardì farlo tentare con promesse d’uno stato magnifico in Nizza e d’una splendida carica a corte, cacciò via il tentatore con alte grida, e non vorrei dire che risparmiasse quel che dette Cristo ai profanatori del tempio. Ebbe in dispregio i preti, ma la gentilezza dell’animo non sofferse che dalla bocca sua escisse una parola, meno che cortese, quante volte accadde che fosse un prete in sua presenza.

Il perché, i preti, che l’aveano udito paragonare al diavolo, uscirono dalla sua conversazione benedicendolo e colmandolo di ammirazione, e protestando essere stati tratti in inganno da chi avea dipinto per un tizzone d’inferno e per un feroce fanatico l’uomo più benevolo e savio, il cavaliere più cortese.

Non ebbe cultura profonda; ma il naturale ingegno e l’uso del viaggiare e qualche lettura buona l’avean reso tale da conversare piacevolmente e tutt’altro che con suo discredito colla gente più saputa e più schiva.

Tale fu l’uomo che conobbi e che sarà mia gloria suprema l’aver conosciuto, e l’aver guadagnato la sua benevolenza, poco meno che paterna. Non trasmoda davvero nella lode chi dice aver trovato riscontro alla magnanimità di tanto uomo negli eroi descritti da Plutarco; perché ei fu veramente degno de’ tempi eroici di Grecia e di Roma, ed uscì da quello stampo, dal quale uscirono Filopemene e Arato e Trasibulo e Bruto e Catone e Sertorio; il quale ultimo vuolsi gli fosse maestro in quella maniera di guerreggiare, nella quale apparve, a’ tempi nostri, meglio unico che raro.

Meravigliosissimo è per altro nella lunga vita e nelle lunghe avventure del nostro gran patriotta, lo spettacolo d’un uomo, che in mezzo a pericoli tanti e tanti disagi, seppe mantener ferma la disciplina tra i seguaci che ebbe; gente, per lo più, nuova al mestiere delle armi, e digiuna di ogni istruzione soldatesca, e d’animo e di costumi irrequieti e tutt’altro che adatti al regime durissimo che egli era solito prescrivere. Perché non solo tenere in freno la gente, ma averla affezionata e devota sino alla morte egli seppe, senza mai trascorrere ad alcuno di que’ violenti atti, cui trascorsero così di sovente Giovanni de’ Medici e il Ferruccio, come feci notare in altra parte del racconto. Che anzi, per quanto sia proverbio che più saldo è negli uomini il rispetto che incute la paura, che non quello che genera l’amore, egli conobbe in grado altissimo il segreto di cattivarsi e tenersi soggetti gli uomini con la benevolenza e con quell’ossequio che ispirano la virtù e l’aspetto d’una imperturbabile sicurezza dell’animo. Dinanzi a lui, quasi soggiogati dalla maestà e dalla dolcezza ineffabile dello sguardo, si piegarono a disciplina dura e a fatiche assidue e smisurate uomini incalliti nella professione del ribelle e giovani baldanzosi e sfrenati, che dalle officine e dalle piazze accorsero a formare quelle legioni dei Cacciatori delle Alpi, che nella nostra storia militare odierna gareggiano colle Bande Nere.

Dalla sua bocca, i volontari italiani udirono volentieri promettersi marce faticose, veglie, combattimenti senza riposo, e fame e sete e quant’altro c’è di più aspro nella guerra, e trovarono mantenute puntualmente le promesse, senza muovere un lamento. Nessuno potrebbe dire d’aver mai veduto Giuseppe Garibaldi costringere i suoi soldati all’obbedienza colla minaccia, non che colla forza; nessuno ha mai udito la voce di quell’uomo suonar terribile, all’infuori dei momenti in cui parve emular la tromba nell’incitare all’assalto. La fama universale di giustizia e d’onestà e di bontà che formava aureola intorno a quella testa di lione, il lampo di quegli occhi, il suono di quella parola, sempre calma e solenne bastavano a rendere sommessi i protervi, docili gli irrequieti, coraggiosi i pusilli. Era in quell’uomo, così sereno, così semplice nella espressione, nel costume e nell’abito, un non so che di maestoso e di simpatico e d’incantevole ad un tempo, che, udendolo, si tremava dinanzi ad esso e ci si sentiva trascinati a volergli bene, e a correre giulivi alla morte, dinanzi ai suoi sguardi, come se bello avesse ad essere e divino il cadere, guardati ed ammirati da lui.

 

 


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