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Garibaldi non ebbe mai, nemmeno per lontana tentazione, l’idea di mutar in Italia la forma del governo, e mal si appose davvero chiunque poté presumere il contrario. Di fatto, è certissimo che tutti i tentativi, fatti presso lui, a questo scopo, non soltanto caddero infruttuosi, ma non vennero nemmen presi in seria discussione dall’uomo, che tutto era uso sacrificare al bene della Patria.
Perciò vuol dirsi che nessun uomo in Italia ebbe occasione e virtù di mostrare all’opera tanto senno politico, quanto egli ne mostrò in varie epoche della vita; egli che da tutti gl’irrequieti e dai nemici della monarchia, vecchi e nuovi, venne invocato duce e auspice e tentato con ogni maniera di promesse e lusinghe, e messo con artifizioso paragone a riscontro del gran Washington, quasi per innamorarlo alla gloria di questo e per indurlo a sollevarsi dall’umile condizione in cui s’avea saputo ristringere, con maggior lode di modestia, che con vanto legittimo di sapienza civile e di audacia.
Avea fermo nel suo giudizio che la monarchia fosse necessaria alla salute d’Italia, né vedeva modo d’abolirla senza gran pericolo dell’unità. Oltre a ciò, egli faceva spesso a noi la domanda che oggi, non più giovani, facciamo dal canto nostro alla gioventù, sognatrice assidua e generosa: «Dove sono in Italia i repubblicani?».
Tante e tante volte l’ho udito ragionare su questo argomento, e sdegnarsi spesso con chi gli faceva in rispettosi termini, e con una infinità di preamboli e di circonlocuzioni, una specie di rimprovero del mutato parere.
E avea ragione di sdegnarsi e di asserire aver mutato i tempi e non lui; e ben si vede che per la più parte, anche gli ostinatissimi tra’ suoi seguaci, fecero omaggio alla necessità, e, messo da parte l’amore della repubblica, riconobbero la monarchia come necessaria in principio, e come tale presentemente da non potersi abolire senza danno inevitabile e grande.
La fede però che ebbe in re Vittorio e nella sua casa, fu ben lungi dall’allargarsi tanto da abbracciare gli uomini che la monarchia ebbe per consiglieri dalla pace di Villafranca in poi. Non dirò nulla della inimicizia implacabile che ebbe pel Cavour e per il Fanti; ma debbo notare che nessuna fede ebbe nel Rattazzi e in quanti andarono per la maggiore a quei tempi; meno di tutti gli spiacque il Ricasoli, benché questi lo avesse sovente contraddetto e si fosse opposto a secondarlo nei tentativi famosi, che precedettero la spedizione dei Mille.
Pertanto, egli biasimava nel Ricasoli la boria del feudatario e la cocciutaggine e la grettezza delle idee, ma pur non sapeva tenersi dal volergli un certo bene per la sua gran sincerità, massime quando la sincerità del «castellano di Brolio» era messa a riscontro colla furberia della «volpe d’Alessandria».
Del Cavour non era possibile parlargliene senza vederlo pigliar fuoco; come non c’era caso di rammentare una faccenda, dove avesse mano, anche in lontananza, il Cavour, nella qual faccenda non si avesse a supporre, a vedere, e a toccare eziandio, un nido scellerato di tradimenti e di guai. Questa sua avversione al grande uomo di Stato non seppe dissimularla e nemmeno padroneggiarla, così pro forma, durante le trattative che si fecero tra Garibaldi e Cavour per intermedio del La Farina, quando si lavorava per concertare la spedizione dei Mille; divenne poi fierissima e passò ogni limite immaginabile, dopo quell’epoca, e condusse a quella violenta scena parlamentare, che renderà memorabile per sempre la tempestosa seduta, che precedette di pochi giorni la malattia e la morte del gran ministro.
Come Garibaldi non conosceva limite nell’amore, così trasmodò spesso nell’odio, sebbene debba aversi per fermo che una gran parte del suo odio era più assai nella veemenza delle parole, che altrove. Comunque fosse, quando gli si parlava del Fanti, entrava in furia così da non parer più quell’uomo calmo e generoso e prudente che era. E per quanto cercassi parecchie volte sapere qual fosse la causa di questa sua mortal nimicizia pel Fanti, non riescii a trovarne alcuna che paresse degna d’essere stata scintilla per cotanto incendio. Ma forse gran colpa ne avevano i maligni sobillatori, che non paghi di recar legna al fuoco, fabbricavano spesso colle loro mani la materia incendiaria, o crescevano peso e forza a quanto già ne aveva di per sé, facendo con infame voluttà la parte del referendario, e riferendo a tradimento.
Ebbe invece singolare simpatia per il Persano, e non ebbe antipatico il Cialdini, sebbene da questo ricevesse poi quel trattamento che tutti sanno, e che il povero Guerzoni descrisse in una pagina di fuoco, la quale non aggiunse certamente una foglia alla ghirlanda di lauro del duca di Gaeta.
Ma tornando al rifiuto, che costante oppose Garibaldi a quanti lo sollecitarono a spiegare una bandiera contro la monarchia, bisogna dire che nessuno ebbe mai tentazioni così vive e così fiere (mi sia concessa la parola) come egli ebbe. Perché non soltanto gli si pispigliava all’orecchio il nome di Washington, ma questo nome si facea suonare apertamente d’intorno a lui, collo stesso intendimento col quale a Marco Bruto, silenzioso e inerte in Roma, insidiata dalla ambizione di Cesare, si facea leggere, scritto col carbone sulle muraglie: Brute, dormis?
E un tal rifiuto è veramente il più nobile testimonio dell’animo onesto e della schiettezza di quell’uomo, al quale non mancava se non un atto della volontà per mantenere la dittatura sua in una gran parte d’Italia, e render necessaria, per abbattere quella dittatura, una guerra civile, di esito assai dubbio.
Il generale Cialdini una volta lasciò pubblicare una lettera del Garibaldi, il quale lo invitava ad unirsi seco per indurre l’esercito a cooperare coi volontari nel riaccendere sollecita la guerra contro l’Austria e contro il papa, anche con aperto spregio degli ordini del re.
Rispose il Cialdini come ragion voleva che rispondesse; ma argomentarono assai male quanti da quella lettera tolsero motivo per vantarsi d’aver trovato in Garibaldi ciò che non era nell’animo di Garibaldi, neanche ombra.
Per giudicare dirittamente di quell’uomo è mestieri averlo conosciuto tanto da vicino, quanto basta perché le apparenze fallaci non si scambino colla sostanza vera. Garibaldi vedeva le cose di questo mondo, in un aspetto che non può dirsi comune a tutti gli occhi. Avvezzo in que’ Paesi, dove eterna era a’ suoi tempi la rivoluzione, e dove si vive poco meno che in perpetua guerra, non ebbe mai una idea precisa dello Stato, né dei diritti e dei doveri dei cittadini, a petto a quello; come neanche fece mai un calcolo esatto delle necessità alle quali debbono adattarsi di buon animo i reggitori d’uno Stato, a fronte dei diritti e delle ragioni, che allegano gli altri Stati. Per lui, non correva differenza alcuna tra l’espugnare una batteria nemica e il dar di frego a una ragione, allegata da un governo amico o non amico; quelle che chiamiamo convenienze, ragioni internazionali, o che diciamo rapporti di buona vicinanza, dissidi o varietà d’interessi, non avevano, nel suo giudizio, maggior valore d’un ostacolo qualsiasi, il quale potesse superarsi con una discesa audace sulle coste altrui e con un assalto temerario; l’ultima ratio sua, anzi, l’unica ratio stava nella bontà della causa e nel valore della spada.
Ora, dopo che il felice esempio della sua arrisicatissima impresa di Sicilia gli ebbe fatto certo che talvolta fosse lecito, anzi fosse debito di chi si sentisse da tanto, il toglier la mano al governo pusillanime nella sua prudenza, e l’osare contro la volontà sua quel che pareva buono per la salute e per la gloria della patria, Giuseppe Garibaldi non dubitò un istante che, senza offesa alcuna alla maestà del capo dello Stato e senza romper fede ai plebisciti, si potesse tentare contro l’Austria e contro il papa quel che s’era tentato con tanta fortuna contro i Borboni di Napoli. Perciò scrisse al Cialdini quella lettera, alla quale il Cialdini, uomo di idee diverse, e temperato alla disciplina militare, replicò come tutti sanno.
Ma chi facesse colpa a Garibaldi di quel suo proposito, farebbe vedere di non aver conosciuto punto l’animo di quell’uomo, e di voler giudicare senza i lumi che occorrono per proferire un giudizio, scevro di passione, ma sollevato altresì dalle miserie della volgarità.
Garibaldi avrebbe rotto guerra alla Francia imperiale, colla facilità stessa con cui scriveva una lettera al Bellazzi o al Bertani per censurare la dappocaggine d’un ministro del re, o per rimbeccare al papa un tratto maligno d’una enciclica o d’una allocuzione ai «venerabili fratelli». Sdegnò contare i nemici, come non contò mai gli amici; prova ne sia il famoso motto che gli uscì di bocca in Talamone, quando nel vedere schierati i suoi Mille, esclamò tutto lieto: «Eh, eh, quanta gente!». Ma in altre cose fu prudentissimo e pieno di ritegni. Più volte fece credere che da un’ora all’altra avrebbe detto una parola che sarebbe stata il segno nefasto della guerra civile, e tre volte lasciò cader di mano la spada e tradì se stesso ai soldati della monarchia che lo trassero prigione.
L’ira mai non poté in lui più dell’amor di patria; sentiva vivissimo il desiderio della gloria, ma non accadde mai che l’ambizione lo facesse cieco.
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Tra le vittorie che rammentava con singolare compiacenza, gratissima gli fu quella del 30 d’aprile 1849, quando «vide le spalle ai francesi». Odiosa eragli sopra tutto la jattanza francese, ma odioso più de’ francesi fu a lui l’imperatore. Anzi, la cagion prima della sua malevolenza pei francesi, fu il vederli tollerare per sì gran tempo la tirannide imperiale. Era questa una colpa, a suo giudizio, imperdonabile; tanto è vero, che appena abolito il governo napoleonico, corse volonteroso ad offrire alla Francia «quel che di lui rimaneva».
Narrano che Giovanni dalle Bande Nere, vicino a morte, non sapesse darsi pace che fossero al mondo i poltroni. Così, Garibaldi non perdonava agli uomini la viltà, né ai popoli la sommissione ai governi cattivi. Bene lo onorarono del titolo di «cavaliere errante della libertà» perché se avesse avuto dalla natura il dono d’una vita lunghissima e d’una perpetua gioventù, avrebbe corso il mondo in cerca di tiranni da combattere e di schiavi da liberare.
Sognava la terra, popolata di uomini laboriosi ed onesti, pe’ quali non fosse d’uopo di preti, né di gendarmi; derideva i diplomatici, avea in dispetto i legulei, e non capì mai come non bastasse a governare un popolo la potestà paterna del sindaco, ma ci volessero eziandio i prefetti e i questori.
Sentiva Dio, e credeva in una forza benefica e in una provvida sapienza che reggessero l’universo, ma non comprese la necessità d’una religione.
Ebbe in pregio fra tutte le arti l’agricoltura; gli fu piacevole la nostra musica vecchia, e predilesse tra’ poeti il Tasso e Ugo Foscolo, come altre volte notai per rispondere ai malevoli che dipinsero quest’uomo straordinario in figura d’un rozzo marinaio e d’uno scorridore brutale, nemico d’ogni gentilezza e infesto agli uomini e a Dio.
Pochi uomini ebbero, come egli ebbe, ammiratori ed amici entusiasti, e nemici implacabili e cattivi. Per lunghi anni, un odio feroce divulgò essere quest’uomo poco dissimile ad una belva; in Francia specialmente l’ebbero in conto d’un masnadiero ebbro di sangue e di vino, d’un pirata scelleratissimo, d’un profanatore di conventi di monache, d’un ladro d’anime e di beni. Spesso io vidi venir tremanti dinanzi a lui prigionieri svizzeri e tedeschi, e napoletani pur anche, i quali credevano non avere a comparire in presenza di questo gran diavolo se non per essere scannati o scaraventati vivi nelle fiamme; e li vidi indi a poco pentirsene, innamorati dello sguardo più che umano e della voce soave di costui, e li udii dire che partivano persuasi d’aver parlato con uno di quegli eroi, che solo hanno corpo ne’ poemi e nei romanzi, con un uomo che non si potea conoscere, senza rimanerne invaghiti a tal segno, che sarebbe parso un dono del cielo il morir per lui e vicino a lui.
Non è favola quel che spesso raccontai, de’ feriti, che vedendo comparire Garibaldi, quietavano le grida ed i gemiti e intonavano un inno; de’ pusilli, che vedendolo da lungi, sbucavano da’ nascondigli, e correvano, colle fiamme della vergogna sul viso, a farsi uccidere tra i combattenti più animosi. Non raccontai per mania di scrivere cose stupende e poco meno che incredibili, come la presenza di tanto uomo bastasse a ristorar le sorti d’una battaglia, e a condurre, quasi per incanto, la vittoria là dove il terrore del nemico soverchiante cominciava a rendere inutili le armi e a far dimenticare agli scorati l’obbrobrio della fuga.
La Provvidenza non poteva fare dono più nobile né più utile agli italiani, che quello di mandar loro così vivo specchio di virtù proprio ne’ giorni, in cui era loro necessario più che mai l’avere dinanzi agli occhi un modello, mirando il quale, sapessero ritemprarsi e rendersi degni delle sorti migliori, che ebbero.