Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE TERZA Da Palermo a Capua

XIX

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XIX

 

Non deve dirsi certamente piccolo benefizio della fortuna che, nella impresa delle Due Sicilie, Garibaldi avesse la buona compagnia che ebbe, di quattro luogotenenti, che uguali non trovò più mai, e che furono desiderati purtroppo in altre occasioni, quando e’ non si vide più accanto né Sirtori, né Medici, né Cosenz, né Bixio. A somma lode di questi quattro, basti dire che mentre i vecchi ufficiali dell’esercito piemontese ridevano nell’udir rammentare i generali di Garibaldi, avvenne indi a poco che que’ generali medesimi, ascritti all’esercito, ebbero in quello autorità grande, e tale da parere poco meno che maestri ai loro facili irrisori. Perché Sirtori, sebbene lo schernissero per il suo ascetismo e per gli ordini sacri che aveva addosso, fu dotto nelle cose militari e valorosissimo, e non stette per lui che la giornata di Custoza tramontasse con la cattiva ventura; né Medici ebbe nella guerra del sessantasei chi lo vincesse nella prospera fortuna, e Bixio divenne ben presto l’enfant gâté dell’esercito per la temeraria prodezza e per l’indole avventuriera e per quegli stessi modi, un po’ selvaggi, che talvolta lo rendevano incomportabile così agl’inferiori come ai compagni e più assai a chi stava sovr’esso nel comando. A lode di Cosenz diremo solo che in seguito fu investito della suprema carica di capo di stato maggiore generale.

Se l’esercito fosse stato nelle mani a questi quattro generaliimprovvisati” i quali aveano il torto massimo di non numerare sul loro “stato di servizio” né quaranta processionitrenta, e di non dovere il loro grado alla ragione meschina dell’anzianità è più che probabile che in quel giorno, non avremmo patito lo sfregio che patimmo, e che solo non patì o non comprese chi era lontano cento miglia dalle onde del Mincio e non vide coi propri occhi la scena che a me e a tanti altri strappò lacrime amarissime.

Con que’ suoi quattro luogotenenti, Garibaldi sarebbe ito di corsa in capo al mondo; e ben se ne accorse ne’ giorni infausti in cui si sentì scemo di quella valorosa compagnia, e dovette regalare le insegne generalizie a tali uomini, che per quanto onesti e patriotti d’eccellente lega, erano nati per comandar milizia sul campo, come io son nato per insegnare le matematiche a’ ragazzi, che non le vogliono capire. Così avesse avuto Garibaldi intorno a sé i quattro degni ed impareggiabili luogotenenti nella campagna del Tirolo e in quella dell’Agro romano!

Giacomo Medici fu, tra i luogotenenti dell’eroe di Caprera, quello che sovrastò agli altri per vera pratica delle cose guerresche, e seppe contemperare felicemente le virtù del volontario con quelle del soldato. Aveva seco il fiore dei lombardi, e nel suo campo si teneva così strettamente in onore la disciplina, che nessuno avrebbe mai creduto, a prim’occhio, di trovarsi in mezzo a gente, raccolta per , ai primi rumori di guerra, ed alienissima, per educazione e per istinti, dal mestiere del soldato. Avea fatto le sue prime armi in Spagna, e poi s’era scritto nella legione italiana, formata da Garibaldi nella repubblica dell’Uruguay, tanto colà come in Roma dette saggio di essere il primo e più prestante allievo di quella gloriosissima scuola. Ho già notato come Giacomo Medici fosse solo a trattar del tu il dittatore, e fosse tenuto da lui in luogo di fratello. Dirò adesso come Medici ricambiasse di affezione vivissima il suo amico e maestro, e fosse poi il più savio e il più calmo tra quanti, nei momenti più scabrosi, erano chiamati a confortarlo dei loro consigli.

Sirtori non fu meno valoroso di Medici; ma non ebbe le doti militari che questi avea ingenite, né ebbe campo di acquistare altrettanta pratica. Però fu severissimo nel fare eseguire gli ordini del dittatore e seppe mostrarsi tanto intelligente, quanto infaticabile. Sobrio come un anacoreta, puntuale fino a parer pedante, innamorato della causa italiana sino al fanatismo, sordo alle adulazioni, inaccessibile agl’impronti, costrinse anche coloro che meno gli erano benevoli, a confessare che un capo di stato maggiore di quella sorta, fu nell’esercito garibaldino una vera provvidenza.

Cosenz era allora, come fu in seguito, uomo di pochissime parole: una vera e splendida eccezione alla regola tra gli uomini del Mezzodì. Freddo, e poco meno che impassibile nell’apparenza, animoso e caldo nei momenti del pericolo, guidò la sua divisione, come avrebbe fatto il più provetto e il più addottrinato tra i generali dell’esercito regolare.

Che dirò di Nino Bixio?... Lo chiamarono il secondo dei Mille; io lo chiamerò il braccio destro di Garibaldi. Coraggioso, anzi audace oltre ogni credere, pronto a trascorrere ai partiti più disperati e temerari, parve esser unico per certe fazioni di guerra, per le quali si sarebbe detto esser nato a posta, e non trovarsi chi lo agguagliasse.

Riottoso a fronte di chiunque e indomabile, tremava come una foglia dinanzi al dittatore, che solea trattarlo come un figliuol prediletto, ma bisognoso di freno e di continue reprimende e di fiere minacce. Certi suoi tratti di ferocia fecero sì che il nemico sel figurasse uomo facinoroso e ribelle a qualunque senso di gentilezza e di umanità, mentre, preso a tu per tu, fuori de’ momenti dell’umor nero, era l’uomo più trattabile e più ragionevole di questo mondo. Bixio sfidava la morte, e parea che la morte lo sdegnasse. Era la scolta vigile del campo, lo scorridore infaticabile, il custode rabbioso della disciplina. Chi disobbediva a Bixio, potea credersi un uomo morto; perché Bixio era capace di sparare il revolver o di vibrar la sciabola contro chiunque avesse osato contraddirlo in una cosa anco minima; e quando non avea pronte le armi era tale da farsi ragione (come vedemmo) colle mani e codenti.

Oltre questi quattro, Garibaldi ebbe coadiuvatori valentissimi l’ungherese Türr, il Sacchi da Pavia, il polacco Milbitz, il Simonetta da Milano e l’ungherese Eber divenuto d’un tratto, da corrispondente del Daily News, comandante di brigata. Lascio da parte parecchi altri, degni anche essi di menzione, non consentendomi la brevità del racconto divagazioni più larghe, di quelle che mi son prese, e che dubito forse non abbiano ad esser riuscite moleste al lettore.

Tutta questa gente valorosa, che il Garibaldi avea d’intorno, lo seguì con fermo e schietto proposito di adoperarsi secolui a compiere la liberazione e l’unificazione della patria, senza pregiudizio alcuno di partito o di setta.

Intesa così ad unico e santo scopo, fu sorda inesorabilmente alle tentazioni, che numerose e vivissime le furon fatte, e non ebbe lingua se non per confortare il suo capo a proseguire senz’ambagi il bene intrapreso cammino, per compiere coll’aiuto del popolo ciò che la monarchia aveva condotto a metà con l’opera dell’esercito.

E questo fu il più grande, il più nobile esempio di disciplina che potesse aspettarsi dai volontari italiani, i quali seppero avere tanto senno e tanta virtù, da comprendere come non fosse possibile far l’Italia senza disfare le sette.

Ho voluto trattenermi alquanto sui luogotenenti di Garibaldi, e dare qualche cenno degli speciali loro meriti, acciò sia chiaro come i rapidi e meravigliosi successi che egli ebbe nell’impresa delle Due Sicilie, non debbano attribuirsi per intiero alla fortuna, ma s’abbiano invece a inferire in gran parte alla virtù sua straordinaria e alla virtù de’ compagni, che seppe scegliersi, o che la buona sua stella gli guidò incontro, in quei supremi momenti. Ben fu palese, indi a poco, che la virtù di Garibaldi era sempre viva, ma che non avea più seco gli uomini, che parvero esser le sue braccia. Nessuno de’ quattro fu con lui, dopo la presa di Capua; nella guerra del Tirolo, o non curò di chiamarli, o il governo non ebbe voglia di toglierli all’esercito per mandarli coi volontari. Certo è bensì, in ogni modo, che la campagna del Tirolo avrebbe recato altri frutti, se Garibaldi avesse avuto seco i valentuomini, che comandavano in Sicilia e a Napoli le sue divisioni.

Quali relazioni corressero tra Garibaldi e i suoi antichi luogotenenti, negli anni che seguirono il sessanta, non saprei dirlo con precisione; però ricordo averlo udito qualche volta lagnarsi di Bixio, che lo avesse poco meno che dimenticato, e non risparmiare qualche motto un po’ amaro al Medici, che si piaceva del titolo di Marchese del Vascello. Forse si deve credere che Bixio non si tenesse dal dirgli chiaro il parer suo all’epoca d’Aspromonte ed all’epoca di Mentana; e forse gli spiacquero le parole prudenti in quella bocca che, in altri tempi, non s’apriva se non per magnificare le idee più arrisicate e anco matte. Ma si sa per certo che negli ultimi anni ebbe frequenti ed affettuosi colloqui col Medici, e che questi fu spesso intermediario tra l’antico dittatore ed il re. Sirtori ebbe a patire amarezze infinite, dopo la battaglia di Custoza, dove fu valorosissimo sopra tutti, ma censurò con asprezza gli errori dei capi; il parlamento però tolse a vendicarlo e lo vendicò; ma il vecchio capo dello stato maggiore dell’esercito meridionale godette per poco tempo la giustizia, che con esempio, meglio unico che raro, gli procacciò il Paese, in barba ai perversi malevoli.

Bixio, divenuto caldo nell’affezione alla monarchia, per quanto era stato violento nel vituperarla in altri tempi, s’invaghì di tornarsene alla vita del marinaio e di arricchire commerciando, e finì senza gloria, nel trasportare sul suo naviglio le soldatesche olandesi, che andavano a domare i ribelli nel paese degli Ascianti.

Garibaldi non ebbe una parola per lui, ma non l’ebbe neanche per Medici, come non l’aveva avuta per Sirtori. E questo suo silenzio, inesplicabile a tutti, addolorò quanti rammentavano i bei giorni di Sicilia e di Napoli.

Come già dissi, Cosenz, più fortunato fra tutti, occupò, dipoi nell’esercito italiano, la carica suprema di capo di stato maggior generale, che nell’esercito germanico fu creata per Moltke, vittorioso dei danesi, degli austriaci e dei francesi.

 

 


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