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Parrà strano che dimorando così a lungo con Garibaldi e nella dimestichezza più stretta, tanto negli ultimi mesi del 1859 in Romagna, come nel seguente anno in Sicilia ed in Napoli, io non abbia raccolto dalla sua bocca alcuna narrazione delle mirabili e romanzesche avventure, che egli ebbe in gioventù. Ma purtroppo è vero che se Garibaldi fu parlatore piacevole e tale che parea dipingesse parlando, non accadeva facilmente udirlo narrare le cose sue, né più facile era che alcun di noi ardisse interrogarlo. Perciò, se qualche cosa udii per sua bocca, la udii ne’ momenti in cui, trovandosi di buonissimo umore e sentendosi disposto ad essere più comunicativo del solito con noi, gli venne voglia di riandare, non richiesto, le pagine più notevoli della sua vita, e farci dono di qualche racconto, che ci parve una leggenda. Certa notte che viaggiavo seco in carrozza da Bologna a Rimini (un viaggio di dieci ore!) ed era con noi Vincenzo Malenchini, il generale pigliò, non so come, a raccontarci qualche episodio delle sue guerre in America. Rammento che descriveva que’ luoghi, con tale una vivacità, che parea vederli, e raccontava fatti bellissimi, tacendo però quel che più tornava in suo onore, e toccando di volo le cose più gloriose per lui, che ben sapeva esser note a tutto il mondo. Adesso mi dolgo amaramente di non aver trascritto, subito il giorno dipoi, la narrazione del triduale combattimento che ebbe contro la squadra brasiliana, comandata dall’ammiraglio Brown, combattimento che il nostro eroe cominciò nelle acque del Paranà e finì in terra, con un miracolo d’audacia e di fortuna. Se rammentassi quel racconto, ne avrei fatto la pagina più importante di questo libro, perché tutti leggerebbero con tanto d’occhi e tornerebbero a leggere un episodio così stupendo, e degno più di poema che di storia.
Per quel poco che ricordo, Garibaldi era uscito dal porto di Montevideo con tre piccoli legni, e coll’incarco di risalire il Paranà fino a Corrientes, cittaduzza fedele alla repubblica Orientale, minacciata allora dal nemico, e bisognosa di soccorsi. Arrischiandosi a tale impresa, ben sapeva esser temerario l’uscire da Montevideo e il percorrere per seicento miglia il fiume tra due rive nemiche, ma sapeva altresì che cento volte temerario sarebbe stato l’arrischiarsi a tornare. Garibaldi credette sempre che con quell’incarico pericoloso volessero gli occulti nemici che avea in Montevideo, sbarazzarsi di lui e mandarlo così, come suol dirsi, in bocca al lupo. Ma come e’ fu sempre uomo capace d’affrontare mille volte la morte, piuttosto che ritirarsi da una impresa anche temeraria e peggio se potesse darsi, così fece cuore a’ suoi uomini e partì. Appena percorse poche miglia, giunto che fu sul confluente del Paranà col Rio Grande, dovette guadagnarsi il passaggio a colpi di cannone, perché in quel canale era un’isoletta posseduta dai nemici, e questi lo tribolarono assai, e gli uccisero parecchia gente.
Entrato così vittoriosamente nel gran fiume del Paranà, uno dei legni si arenò, e per tirarlo via dal secco, fu necessario caricare i suoi cannoni sopra un altro legno, che ne rimase ingombro e sovraccarico; laonde non restava libero e pronto a combattere se non un brigantino.
Mentre Garibaldi lavorava per trarre al largo la sua nave, ecco scuoprirsi la squadra nemica, forte di sette legni. Che fare? A qual partito appigliarsi? Non premeva tanto al valoroso nizzardo il salvar la vita, quanto il salvar l’onore, e mantenere intatto in quelle spiagge remote il nome italiano, e anche la riputazione di bravo e di esperto marinaio, che, a prezzo di sangue e di fatiche inaudite, avea cominciato a guadagnarsi.
Per buona sorte, le navi di Garibaldi erano più leggere e pescavano meno assai di quelle del nemico: onde egli fece sì che si accostassero per quanto fosse possibile alla riva, e si apparecchiò a combattere.
– Brown, – diceva Garibaldi – era un ammiraglio valente; sapevo bene che con un diavolo di quella fatta c’era poco, anzi punto, da scherzare. Io dissi: «Uomo per uomo; possibil mai che gli venga fatto di mangiarci in un boccone? Morremo, ma le nostre vite saranno pagate care, e il vincitore avrà poco da ridere». Avvicinate le mie tre navi, due piccole golette e un brigantino, dissi agl’italiani che erano meco: «Facciamo vedere a quella gente che gl’italiani non sono vili!». E appena vidi a tiro il nemico ordinai che si cominciasse il fuoco. Il nemico rispose con gran furia; pareva che in luogo della squadra del Brown e delle mie povere tre carcasse, combattessero due grosse flotte.
Queste parole di Garibaldi ho tenute a mente; ma purtroppo non ricordo la descrizione che fece, di quella battaglia che durò tre giorni e due notti.
Garibaldi non ebbe in que’ tre giorni e in quelle due notti un minuto di requie; si aspettava da un momento all’altro che il nemico gli fosse sopra colle lance, e si teneva pronto a fargli vedere che a bordo delle tre piccole navi c’era il padron di casa.
Tanti furono i colpi di cannone che sparò Garibaldi per rispondere alle fiancate, che gli mandava l’ammiraglio Brown, che la mattina del terzo giorno le munizioni erano quasi in fondo. Restava ancora qualche po’ di polvere nei barili, ma i proiettili eran finiti. Come fare? Garibaldi fece mettere insieme quanti pezzi di ferro, quanti chiodi vecchi, quanti anelli di catene poté raccorre, e mescolandovi sassi, fece delle cartucce a mitraglia e ne caricò i cannoni, e così ebbe agio di farsi vivo per tutta la giornata e tenere indietro il nemico. Il quale, immaginando quanto rischioso fosse l’andare ad assalire «quelle belve nel covo» si manteneva sempre in buona distanza, e fu pago di bruciar polvere e lanciar palle a mitraglia, senza rischiarsi a tentare l’abbordaggio.
Udendo Garibaldi raccontare quella storia, rammentavo Benvenuto Cellini, quando narra la difesa del torrione di Castel Sant’Angelo contro gli imperiali, dov’egli fu mastro delle artiglierie e fu poco meno della Provvidenza. Benvenuto scrisse come sapeva; Garibaldi narrava col linguaggio schietto e pittoresco d’un uomo di guerra, che usa le parole, come gli vengono sulla bocca, senz’ombra di artifizio e senza aggiungere alla naturale terribilità del momento una pennellata che potesse parer soverchia a noi, che guardavamo cogli occhi della mente quel suo bel quadro.
Venne finalmente la sera, e alla sera successe la notte.
– Non avevo che poca polvere e pochi grappoli di mitraglia, – soggiunse Garibaldi – ed era certo che, sorgendo il giorno, l’ammiraglio Brown, dopo avermi costretto a sparare gli ultimi colpi, mi si sarebbe fatto addosso con tutta la sua gente. Ma, per Dio santo! quando venne il giorno, Brown non vide che le mie navi in fiamme, e vide me che da un’altura, dove m’ero ridotto coi miei uomini, lo aspettavo di piè fermo coi pezzi in batteria.
L’ammiraglio Brown non ebbe neanche la tentazione di sbarcare per assalir quel pugno di prodi, poco meno che inermi, scarsi di vettovaglie, e lontani quasi dugento miglia da Montevideo.
Garibaldi, veduto il Brown volgere altrove le sue prore, si pose in cammino per luoghi inospiti e pieni di nemici, e con una marcia faticosa e lunga, raggiunse gli avanzi dell’esercito orientale battuto dai brasiliani ad Arroyo Grande.
L’ammiraglio Brown, di nemico che era, divenne grande ammiratore ed amico dell’audace italiano, e non andò molto che lasciati gli stipendi dei brasiliani, si recò a far visita al suo avversario in Montevideo, per dichiarargli la sua stima e il suo affetto.
In quella notte, veduto Garibaldi in vena di raccontare, mi arrischiai a fargli qualche domanda; ma Vincenzo Malenchini, pestandomi il piede, mi fe’ cenno che tacessi. E alla prima fermata per cambiare i cavalli, mi disse:
– Se’ tu pazzo? Non riprovarti ad interrogarlo, perché avrai da lui la risposta che non cerchi.
Gli avevo dimandato qualche notizia della sua Anita, ma fu lo stesso che parlare al muro. Perciò, se volli sapere qualche cosa intorno a quella mirabile donna e intorno al modo, come l’avea conosciuta e fatta sua, dovetti volgermi, a suo tempo, al colonnello Poggi ed altri, che aveano militato nella legione di Garibaldi, e seppi da questi quanto bramavo sapere.
Garibaldi non ha mai narrato a nessuno come conoscesse Anita e la facesse sua. La innamorò co’ suoi begli occhi azzurri, colla sua voce, dolcemente sonora, colla fama delle sue imprese; o, innamorato di lei, la tolse seco in groppa a un cavallo indomito, e la portò via fuggendo, come il lione, che invola la sua preda e la trasporta di corsa tra le rupi che cingono, nel deserto, il suo nascondiglio?
Certo è che Anita fu vista da lui, bella e leggiadra viragine, in mezzo alle compagne, che sotto il monte della Barra, attendevano cantando alle opere domestiche. La vide probabilmente accanto a una fontana, e adorò la Nereide, e sentì di non poter vivere, né combattere, né acquistar gloria, senz’aver presso di sé quella donna, che era parsa ai suoi occhi una apparizione celeste.
Anita doveva esser sua e fu sua. Una nave leggera, conosciuta col nome d’Itaparika, condusse via a volo, coll’aiuto del buon vento, pel placido mare la donna che dovea combattere cogl’italiani sotto le mura di Roma contro i repubblicani francesi, e morir poi derelitta, nella pineta di Ravenna, fuggendo gli austriaci scellerati, che minacciavano il bastone ed il piombo alle membra della generosa americana.
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Avevo udito dire come Garibaldi patisse in America anco la tortura; ma gli amici mi ammonirono che mai non gli parlassi della sua tortura. E mi dissero ancora che mai non cedessi alla tentazione di chiedergli se fosse vero che, avendo fatto prigione uno sgherro di Rosas, che non ebbe ritegno di schiaffeggiarlo, mentre pendeva legato alla fune, egli ruppe in pianto e gridò ai compagni: «Non fatemi veder quell’uomo, non voglio vederlo!».
Quel vile sgherro, che tutt’altr’uomo di Garibaldi, avrebbe fatto appiccare per la gola a un’antenna della sua nave, fu tosto sciolto e messo in libertà, perché il valoroso italiano avea paura di vederlo... avea paura che, vedendolo, gli venisse meno il generoso proposito che avea fatto, di punire quel vigliacco scellerato col perdono!
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Qualche parola ci disse circa la spedizione di Savoia, alla quale prese parte il Mazzini, divorato da una febbre ardente e mezzo morto dalla fatica; la quale spedizione era comandata dal Ramorino, che poi espiò colla morte la sconfitta amarissima di Novara. Ma anche in questo punto fu avarissimo di parole.
Della battaglia di Novara parlava con dolore infinito e poco meno che con dispetto. Quell’amara pillola non gli andava giù.
Ragionando così di volo della difesa di Roma, molte accuse faceva al Mazzini e moltissime al Roselli accusandoli ambedue che, digiuni com’erano d’ogni scienza e di ogni pratica in ordine alle cose della guerra, avessero avuto la presunzione di far da maestri a chi era ormai infarinato in quell’arte. Gli cuoceva sommamente di non aver suonati in regola i francesi, quando nel giorno trentesimo d’aprile, si provarono ad entrare in Roma cogli schioppi in spalla; e di non aver fatto prigioniero il Borbone, fuggiasco a Velletri. Rammentava spesso, con affettuoso compianto, Manara e Mameli e Masina e Mellara, e aveva calde parole d’ammirazione per Giacomo Medici del Vascello, e pel bravo Moro, che ebbe compagno fedele e che rimase morto presso la porta di San Pancrazio, in quella notte memoranda, che descrisse così felicemente nelle sue storie il Farini. Discorrendo della resistenza che, nella sua celebre ritirata, trovò in Val di Chiana, e specialmente a Chiusi e ad Arezzo, mi disse:
– Conoscevate il gonfaloniere d’Arezzo?
– Sì, generale. A que’ tempi, fu gonfaloniere d’Arezzo il poeta Guadagnoli.
E chiedendomi qual poeta fosse il Guadagnoli, gli recitai qualche strofa delle poesie giocose del mio vecchio maestro.
– Pare impossibile, – diss’egli ridendo – come un uomo che scriveva cotesti versi, fosse poi tanto cattivo con me!
Delle ferite che ebbe Garibaldi ho già detto qualche parola ne’ capitoli, che precedettero a questo; ma egli fu veramente di quegli uomini che avean caro il nascondere le ferite, anzi che farsene belli. Nonostante, egli avea fede che le ferite fossero «i baci della bella» e gli pareva che la gloria non avesse altre carezze per i suoi prediletti.
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Parranno forse lunghe queste particolarità che ho raccolte, raccomandandomi alla buona mia memoria, ma i lettori mi perdoneranno, sapendomi grado del buono intendimento che ebbi di non tralasciare nulla, che potesse contribuire a mettere maggiormente in luce l’animo di quest’uomo, che grande parve a noi che lo vedemmo da vicino, e grandissimo parrà a coloro che lo vedranno in lontananza, quando i tempi nostri si chiameranno antichi.
Che se qualcuno dimanderà, per avventura, come mai, narrando così lungamente di quest’uomo, abbia trovato sempre virtù da magnificare e non mai il più piccolo mancamento da mettere a suo carico, risponderò che si perdoni a’ poveri miei occhi, se non seppero fissarsi nel sole con tal fermezza e con tal acume, da poterne scernere le macchie, che gli astronomi sapienti videro e descrissero ad una ad una. Io non ho preteso scrivere una storia, ma soltanto ho voluto notare, giorno per giorno, ciò che vidi ed udii nel tempo che, per mia somma fortuna, stetti vicino a quella grande figura, e meritai da tanto e sì straordinario uomo la paterna affezione, che è vanto unico della mia vita, oscurissima del resto, e trascorsa mettendo a tortura l’ingegno per guadagnare il pane quotidiano con quella penna, che la ventura mia m’ha posto tra le mani, in luogo della vanga o della marra.