Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE TERZA Da Palermo a Capua

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XXI

 

Notevole soprattutto mi sembra nella vita di Giuseppe Garibaldi che né le arti de’ cattivi amici né gli errori degli amici importuni e insipienti che talora ebbe intorno e neanche gli errori in cui cadde per colpa di costoro, sieno valsi a sminuire in parte alcuna la fama di cotanto uomo. Ma questo è segno che la fama sua ebbe tali e tanto solide fondamenta, che non valsero a farle oltraggio le accuse de’ nemici, neanche quelle le quali parvero in qualche parte corroborate dai falli in cui egli incorse veramente, come porta la natura umana, la quale è destino che non apparisca immune di qualche macchia, più o meno lieve, o di qualche mancamento, anco negli uomini, che più la nobilitarono colle opere egregie e colla temperanza delle passioni e col dispregio delle ricchezze e delle vanità, il cui appetito soggioga gli animi dei mediocri.

Non voglio dire che molto fu perdonato a Garibaldi in grazia della sua virtù straordinaria; bene è vero però che di qualche colpa, che in altri sarebbe parsa gravissima, a lui non fu tenuto, né si tiene tuttavia alcun carico. Ma questo non va attribuito per nulla ad una benevola e quasi cieca indulgenza, la quale lo abbia fatto immune da qualunque censura; piuttosto è vero che se qualche atto della sua vita non corrispose a puntino alla severità e alla sdegnosa ritrosia degli onori e dei guadagni ed anco delle ricompense meglio meritate e giuste, il giudizio che di quegli atti si fece, portò a veder chiaro come l’animo incorrotto di quell’uomo vi fosse stretto da necessità inesorabili e dolorosissime per lui.

Non è per anco tanto remoto il giorno in cui sparve dal mondo Giuseppe Garibaldi, che sia lecito ragionare con piena libertà e senz’ombra di ritegno di alcuni tratti della sua vita, che tanto male paiono accordarsi colla fierezza indomita e colla gentilezza incomparabile di quell’animo di eroe antico. Ma purtroppo, son palesi le cause e sono noti all’universale i tristi episodi delle amarezze che rattristarono gli ultimi suoi giorni e costrinsero l’uomo dispregiatore del danaro ed uso vivere di poco pane, ad accettare un premio agli impagabili servizi che rese alla sua patria, e a dimettere pazientemente lo sdegnoso rifiuto, che parve essere la sua gloria più ambita e più cara.

Ammiratore caldissimo di Washington, egli non avea voluto imitare il primo dittatore degli Stati Uniti nella sagace e giusta sentenza che fece di voler pari i conti colla patria col farsi aggiudicare la pensione, dovutagli a rigor di legge; ma poi, ad un tratto, accettò dalla nazione italiana un largo donativo ed una pensione per sé e per i suoi, distruggendo così in un momento la gloria che s’era procacciata di aver servito il suo Paese senza premio di lucro, né d’onori. Or chi sa quanto costasse a quell’uomo il sacrificio del suo nobile orgoglio, può di leggeri comprendere come Giuseppe Garibaldi, accettando il donativo, decretatogli negli ultimi anni di vita dal parlamento, patisse tale acerbo dolore, che mai non avrebbe immaginato patire, neanche nelle pene d’inferno che gli minacciavano i preti, come castigo delle sue imprese contro il pontefice e contro Dio.

Perciò, senza addentrarci molto in quella pagina dolente della vita del gran capitano, vuol dirsi apertamente che l’opinion pubblica non fu secolui indulgente, ma fu ingiusta, perché se è lecito chiedere ad un uomo il sacrificio della vita, non si può pretendere da quell’uomo il sacrificio dell’onore del suo nome.

Onde è vero che Giuseppe Garibaldi, per adempiere al debito che ogni uomo di cuore avrebbe adempiuto, in suo luogo, non soltanto non temette sacrificare la sua magnanima alterezza, ma pose eziandio in rischio grandissimo la sua fama; e di ciò gli va tenuto buon conto, nel misurare il gran cuore che egli ebbe. Tanto più che del donativo egregio, decretatogli dalla nazione, ei non godette parte alcuna, né poteva goderne, come quegli che era infermo per malattia insanabile ed ormai vecchio, e fu, anche negli ultimi anni della vita, dispregiatore del danaro e costante nel provvedere ai bisogni propri con spesa così tenue, che il più umile artigiano non avrebbe potuto rinfacciargli di spendere giornalmente una quota maggiore della sua.

Queste considerazioni ho voluto scrivere, non per bisogno di difesa che abbia la memoria del nostro eroe, ma sì per far vedere come la virtù di tanto uomo non abbia patito sfregio alcuno da un atto, che qualche suo nemico acerbo gli rimproverò, ma che il giudizio della gente imparziale ha valutato per quel che veramente fu, ascrivendolo a colpa della fortuna nemica, anzi che a qualche traviamento d’un animo, che durò incorrotto fino all’ultimo soffio di vita.

L’uomo, che non volle essere ricco e potente mentre verde ancora gli correva l’età, e mentre lo desiderava ossequente e benevolo l’imperatore dei francesi, e mentre lo invitavano con larghe promesse e con offerte di autorità grandissima gli Stati Uniti d’America, non poté cedere agli allettamenti del denaro, quando vecchio e rifinito non attendeva se non la morte, che venisse a toglierlo dalle sue pene.

 

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Verrà giorno, in cui qualche penna arguta piglierà a scrivere di Garibaldi e delle donne che gli piacquero; e sarà questo tema, piacevole e largo quanto mai, e tale da attrarre con meravigliosa efficacia i curiosi. Questo tema sarà svolto Dio sa mai con quanta ricchezza di fantasia e con quanta stranezza di giudizi e con quanto lusso di aneddoti, veri o sognati, essendo certo oggimai che Giuseppe Garibaldi fu cortesissimo colle donne, e gli piacquero le donne oltre misura, per quanto non solesse attribuire alle donne altro valore al di di quello che esse hanno per il comune degli uomini.

Le donne, invece, ebbero una ammirazione grandissima per lui, e questa ammirazione si mutò sovente in tenerezza. L’uomo leggendario, da’ capelli ondeggianti, dal portamento fiero e pittoresco, valoroso in terra, audace, imperterrito in mare, l’uomo dallo sguardo ammaliatore, dalla voce dolcemente sonora, dalla parola gentile, parve fatto apposta per incantare le donne. Le quali, in ogni luogo vollero, massime se eran belle e graziose, essere notate da lui, e non lasciarono occasione, per la quale avessero agio di farsi vive ai suoi sguardi e di mostrarsi ammiratrici sue e smaniose di asserirgli il gran bene che si sentivano disposte a volergli.

Trovandomi a vivere in gran dimestichezza con Garibaldi, osservai spesso come egli usasse una maniera soavissima nel trattar colle donne, e avesse cara oltremodo la metà più gentile dell’uman genere; né di ciò mi prese meraviglia, essendo ormai venuto in proverbio, da che mondo è mondo, che gli uomini più aspri e più feroci in guerra, son quelli appunto, che maggior gentilezza hanno per le donne e son da queste ammirati e benvoluti e desiderati al disopra degli altri.

Dovunque apparisse Garibaldi, ivi correvano in frotta le donne, così in Lombardia come nelle Romagne, e in Sicilia ed a Napoli; sotto gli occhi di quell’uomo, le donne usurpavano agli uomini il coraggio e spesso si facevano animose e terribili; felice si riputava colei che avesse potuto gittare sulla carrozza del generale un mazzolin di fiori ed esser veduta da lui e ringraziata con un sorriso; felicissima quella, che riuscisse ad aver da lui una stretta di mano, o meglio ancora a baciarlo, facendosi strada tra la folla, che si accalcava entusiasta intorno al vincitore di Varese e di Como e al dittatore delle Due Sicilie.

Garibaldi non amò di vero e poetico amore che la sua Anita, la quale parve esser nata per accompagnarsi con l’invitto condottiero e divider seco i pericoli e le glorie sul campo. L’amore che ebbe per costei viva, divenne un culto per la povera morta. Io credo che non stringesse mai al seno una donna, senza sognare in quell’amplesso la eroica e sventurata sua prima compagna.

Sulla triste e grottesca istoria della donna comense, che ingannò con tanto codarda protervia l’uomo che men d’ogni altro meritava essere ingannato da una donna, s’è tirato un velo, che nessuno ardirebbe sollevare, senza fare oltraggio alla pietà, che si deve alle donne anco colpevoli, e senza fare sfregio alla memoria di colui, che per un tratto di simpatia romanzesca s’invaghì dell’amazzone leggiadra, che cavalcava elegante i cavalli focosi e fumava «sigari con la paglia».

L’altra donna che chiamò sua, dovette la fortuna di possedere il nome di tanto uomo al caso che la mise sola accanto a lui nella selvaggia isoletta, e la fece sua unica e pietosa aiutatrice negli strazi che faceva di quel corpo omai affranto la inesorabile artrite.

Notevole è però che Garibaldi, il quale non avea idea giusta del valore delle monete, né del valore delle leggi, né della entità di certe norme e di certi usi sociali, rispettatissimi da altri, non dava alla dimestichezza d’una donna e neanche al matrimonio l’importanza che la generalità degli uomini suol dare a quella od a questo.

Tal giudizio non è parto della mia testa, ma ho udito ripeterlo mille volte da uomini, che conobbero Garibaldi assai più da vicino e per più lunga e intima familiarità, che io non avessi seco; uomini che lo avean seguito in America ed erano stati insieme con lui ne’ viaggi che fece nella China e avean dimorato tanti anni sotto il medesimo tetto nella solitaria Caprera. E tanto basti per diminuire la meraviglia che suol fare a parecchi il sentire come quest’uomo andasse tanto facile nell’affezionarsi ad una donna e nel permettere a questa di considerarsi come sua moglie o di darle in realtà il nome e i diritti di moglie.

Ma su questo argomento non occorre dire altro, e chiuderò il mio capitolo col far sapere al lettore che Giuseppe Garibaldi ebbe grande amore pei figliuoli e fu pronto ad ogni sacrifizio per il loro bene. Fra tutti però ebbe carissimo Menotti, primogenito suo, natogli da Anita, il quale nelle sembianze e nel valore e nella calma meravigliosa nei pericoli, tanto da vicino lo somigliava.

De’ cattivi amici, che spesso ebbe intorno non parlerò, non essendo venuto per anche il tempo in cui si possa liberamente scrivere una storia vera ed esatta di Giuseppe Garibaldi e delle sue cose. Ma è ormai palese, che amici non buoni tentarono spesso l’animo suo generoso, cogli stimoli dell’ambizione e della vanagloria, e fu tutto merito della buona e sincera sua indole e del suo retto giudizio, se gli venne fatto di cacciar via le tentazioni e di ritrarsi dei cattivi passi, quando già aveva alzato il piede per tentare il passo ultimo ed irrevocabile. Onde fu scritto con ragione che quest’uomo meraviglioso disse sovente cose che non andavan dette, ma non fece mai o quasi mai, cose che non andassero fatte, se pur non si vuole attribuire a sua gran colpa l’aver battezzato ragazzi, e predicato soverchio dalle finestre, e scritto a migliaia lettere, che non formeranno davvero un mirabile epistolario, dato e non concesso che a qualche raccoglitore di cattivo gusto o a qualche poco lodevole speculatore piacesse comporne un volume.

In conclusione, chi vuol conoscere la virtù di Giuseppe Garibaldi e farsi un’idea di quel che valse e di quello che sarebbe stato capace di fare al di di quel che fece, se la fortuna gli avesse aperto innanzi un campo più vasto e gli fosse stata più larga di occasioni propizie, contempli la figura di quest’uomo in mezzo alle sue guerriglie, e la contempli sul suo cavallo da battaglia, con la persona avvolta nel pittoresco mantello, e la mano sull’elsa della spada e l’occhio intento a misurare il nemico, e le labbra pronte a ripetere la parola, che tanto piacque alle orecchie della gioventù italiana:

«Avanti, figliuoli!».

 

 


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