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PARTE TERZA Da Palermo a Capua XXII | «» |
Per noi, l’ultimo giorno dell’epopea garibaldina fu tanto triste e melanconico, quanto n’era stato lieto e pieno di entusiasmo e ricco di benedizioni e di gioia il primo giorno.
Non ci fu mistero che, appena partito da Napoli Garibaldi, i caporioni della consorteria e tutto il servitorame gallonato sentirono come sollevarsi da un gran peso il petto e credettero respirar più liberi. Era un grand’incubo per costoro quell’uomo che, alla testa di pochi scapigliati, aveva risolto un problema, creduto impossibile a risolversi Dio sa per quanti anni; quell’uomo che non accettava gradi né onori, ed altro vanto non volle, se non quello di essere il primo in Italia tra quanti corsero volenterosi al sacrifizio per amore d’Italia, senza speranza di guadagno.
Bisognava poi esser ciechi per non vedere con quali occhi guardassero noi i nuovi padroni, non appena ebbe tolto loro l’incomodo l’antico dittatore!
Ma adesso io non voglio turbare la serenità della mia modesta narrazione con certe amare considerazioni, inutili a rivangarsi, e depongo la penna augurandomi che il cortese lettore non mi saprà male che tolga commiato da lui senza turbargli l’animo con parole di colore oscuro.
Ma se c’è chi voglia leggere narrati con fedeltà gli ultimi giorni che passò in Napoli Giuseppe Garibaldi, e le molestie e le amarezze che v’ebbe in quei giorni, pigli in mano il primo volume della vita che ne scrisse Giuseppe Guerzoni, e potrà informarsi a suo agio e pregiare sempre maggiormente la modestia e la squisita bontà d’animo del nostro eroe.
Nell’anno 1861, pochi mesi dopo il solenne ingresso di Vittorio Emanuele in Napoli, il conte di Cavour, parlando col conte Enrico d’Ideville, allora segretario della legazione francese in Torino, diceva: «Garibaldi è per noi un falcone; si sguinzaglia e si fa correre alla preda, ma bisogna affrettarsi a richiamarlo, se no, diviene imprudente, pericoloso, funesto».
Sei anni dopo, Adolfo Thiers, parlando innanzi al corpo legislativo francese, coglieva a volo ed ampliava poi a suo bell’agio questa similitudine, dipingendo Garibaldi in figura di falcone e Vittorio Emanuele in figura di falconiere.
Non sarà fuor di luogo il riferire, parola per parola, ciò che disse Thiers:
Il generale Garibaldi, a pericolo della sua vita e delle vite de’ suoi, sa conquistare regni per la casa di Savoia. Se egli non ha propizia la fortuna, si biasima e si chiude in carcere. C’è in Italia una carcere speciale per questo gran personaggio; la sua carcere è l’isola di Caprera. Se egli fallisce, lo conducono a Caprera; se poi trionfa e gli riesce di far bottino, allora gli si dice: «Oibò, voi siete la rivoluzione in persona, la vostra preda non fa per voi». Ciò fa onore al patriottismo, e potrei dire, anche all’innocenza del generale Garibaldi. Garibaldi! Se osassi far qui un paragone, poco degno di queste grandi discussioni, direi che la casa di Savoia caccia col falcone adoperando per falcone il general Garibaldi.
Parrà a molti inverosimile che di Giuseppe Garibaldi parlasse in tal modo il conte di Cavour, e che Adolfo Thiers non sapesse ragionare altrimenti. Ma il conte di Cavour fu volpe e Garibaldi fu lione. All’astuto ministro di Vittorio Emanuele parve veramente di avere spinto di continuo, e fermato di botto Garibaldi, a seconda dei disegni suoi: e forse, in parte così sembrò all’universale.
Adolfo Thiers era francese e nemico dell’unità d’Italia, e nel riscatto nostro non vide altro se non il trionfo dell’ambizione ingorda della casa di Savoia, e non si può fargli carico d’aver giudicato male, giudicando da lontano e col velo della passione sugli occhi. Però, Garibaldi non fu mai, neanche involontariamente, strumento di nessuno; anzi, dobbiam dire che invece d’essere spinto dagli altri, spinse gli altri e li trascinò là dove si peritavano d’andare.
Un articolo del Times diceva nel 1880:
I compatrioti di Machiavelli e di Cavour, accorti politici, come sono, e anche in mezzo al fermento nazionale, hanno sempre ritenuto che Garibaldi sia uomo da non misurare alla stregua cui si misurano gli uomini ordinari. Senza dissimulare le sue debolezze, senza disconoscere le sue stravaganze in certi argomenti nei quali era incapace di guidare e di condurre, essi riconoscono la sua semplicità, la sua disinteressata fedeltà alla causa del suo Paese e della libertà, il suo inarrivabile ascendente e la sua influenza sugli uomini, la sua irresistibile forza nell’azione quando erano da farsi cose per le quali si richiedeva un temperamento come il suo.
Ora, io credo potere asserire che se Garibaldi avesse potuto mantenere ed aver seco l’esercito napoletano, e se le popolazioni del regno gli si fossero mostrate tanto propense ai fatti, quanto prodighe furono di parola e d’evviva e di feste, non sarebbe bastata la scaltrezza del conte di Cavour, a trattenerlo sul Volturno, come non bastò a fermarlo allo stretto di Messina.
Il conte di Cavour non spinse Garibaldi da Genova a Marsala, né lo seppe fermare quando gli piacque buono fermarlo. Garibaldi non fu fermato sul Volturno se non dal suo meraviglioso buon senso, e dall’amore che ebbe grandissimo per la Patria e che in lui prevalse a qualunque altro sentimento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Voglio chiudere il mio racconto col narrare un caso alquanto nuovo che molti ignorano e che al certo non parve degno di essere rammentato nelle storie, ma che può aver luogo benissimo in queste pagine, tanto perché si veda qual fosse il vento che spirava per i volontari, ormai tenuti per gente inutile e molesta; e come qualcun di loro s’accorgesse d’esser avuto in uggia e non cercasse di dissimularlo.
Coloro che mi tennero dietro da Genova in poi, avran veduto tra quelli che ci raggiunsero a Talamone per accompagnarsi a noi in quel romanzesco viaggio, il maggiore Stefano Siccoli, monco d’una gamba, perduta nel Perù combattendo tra’ liberali di quel Paese per l’affrancamento degli schiavi, nella memorabile guerra civile, che afflisse nell’anno 1857 quel povero Paese. Il Siccoli, lasciato Garibaldi a Talamone, contro sua volontà, per tener d’occhio lo Zambianchi e per aiutarlo alla meglio, era venuto in Sicilia dopo la battaglia di Milazzo, e poi aveva seguito il dittatore a Napoli.
Ora avvenne che partito il dittatore, fu ordinata una gran rivista nel Campo di Marte, e a quella rivista si volle che, ad ingrossare l’esercito, accorresse la guardia nazionale. Il generale Sirtori, al quale Garibaldi aveva lasciato il comando dei volontari, chiese al generale Della Rocca se gradirebbe il re che i volontari si schierassero essi pure nel Campo di Marte, parendogli essere quella una buona occasione perché il re li vedesse e non sembrasse averli a sdegno, come fino allora era parso.
Fu risposto che volentierissimo sua maestà avrebbe veduto i soldati di Garibaldi, ma che trattandosi di una parata solenne e riflettendo che i volontari, affaticati e logori da una lunga campagna, non erano in decente assetto e non potevano far figura in mezzo all’esercito e alla guardia nazionale, era meglio che restassero in pace nei loro alloggiamenti.
Fu soggiunto però che se a qualche ufficiale superiore fosse piaciuto venire alla festa, venisse pure e pigliasse luogo nel seguito del re.
Questo invito, fatto così per ripiego e col tono con cui suol rispondersi alle cortesie d’un ospite molesto, non piacque punto agli ufficiali de’ volontari, i quali, una voce dicentes, risolvettero di fare orecchio da mercante, e di lasciar tranquillo il re col suo esercito e colla guardia nazionale, bellissima e lustrissima, ed avida dei trionfi della piazza d’arme.
Il solo Stefano Siccoli, uomo sempre di sua testa, e pigliatore di partiti nuovi, fu di parer contrario, e disse che andrebbe alla parata, e voleva che altri ci andasse, tanto per non far vedere al popolo di Napoli che l’esercito regolare e l’esercito dei volontari si guardavano come soglion guardarsi la suocera e la nuora. A nessuno piacque il suo partito, ed egli risolvette andarvi solo; e nel dì della rivista, si pose indosso la sua camicia rossa più nuova, e montò a cavallo, su certa sella, fatta a posta per tenerlo in equilibrio con una unica gamba, e si imbrancò bravamente nel seguito del re, che bellissimo era, e numeroso e pieno di pezzi grossi.
Tutto andò bene nell’andata da palazzo al campo, né ci fu chi dicesse una parola brusca o desse uno sguardo torto al maggiore garibaldino, in tempo della parata, ma nel ritorno non fu così.
Era giunto il re a metà di via Toledo e procedeva di passo in mezzo a una folla sterminata, che parea volerselo divorar vivo dal gran bene, quando Stefano Siccoli, scorgendo tra gli ufficiali della casa reale certi suoi amici, spinse alquanto il cavallo e si mescolò tra loro, e se ne venne in giù, senza sospettare nemmeno per ombra di aver commesso un sacrilegio e di meritare sul capo le tremende folgori dell’olimpo. Era tanto superbo della sua camicia rossa, che gli sarebbe parso di vagellare, se qualcuno gli avesse detto che quella camicia non era degna di far compagnia alle dorate divise della regia casa. Poi, e’ sapea che gli ufficiali de’ volontari erano stati invitati a far parte del corteo, e non potea aspettarsi che un servitore in livrea dovesse dirgli: «Scostati, ché m’offendi gli occhi».
Pure ciò che il povero Siccoli non sospettava, accadde proprio nel bel mezzo della via Toledo, dove il capo dei palafrenieri gli si avvicinò con piglio ardito e senza nemmeno dargli il buon dì, esclamando a voce alta:
– Signor maggiore, lei non fa parte della casa reale, faccia grazia di andarsene indietro.
Queste parole furono udite dalla folla, e la folla strabiliò, ma le udirono anche gli ufficiali del seguito, e sul volto a taluni di questi parve al Siccoli di aver colto un sorriso di compiacenza ed anche un ghigno beffardo.
Onde e’ rispose:
– Sarà come voi dite, ma io non venni qua senz’invito e sono ufficiale come tutti gli altri e non piglio lezioni dai servitori.
E il servitore a lui:
– Sta bene. Ora io dico che se lei non obbedisce colle buone, troverò altri mezzi per farlo obbedire.
Il nostro Siccoli era tra l’uscio e il muro. Una delle due: o chinar la testa ed andarsene colla coda tra le gambe o far capire al palafreniere che gli ufficiali di Garibaldi non meritavano il trattamento che suol darsi a’ cani per le chiese. Ed egli, senza far lunga consulta con se stesso, afferrato un grosso scudiscio che teneva appeso a destra della sella, là dove non aveva la gamba per lavorar di sprone, lo menò per due volte sul viso al palafreniere.
Il palafreniere tutto pien di sangue che gli pioveva giù dal naso cominciò a gridar come un’aquila; e, sospinto il cavallo, si appressò ad un maggiore dei carabinieri, accennandogli il Siccoli, e invocando da lui giustizia e vendetta. Ma il Siccoli, che ormai avea perduto il lume degli occhi, e capiva bene che per cavarsela con onore, era il caso di dover giocare di tutti, salì col cavallo sul marciapiede, e colla mano sull’elsa della sciabola, aspettò fieramente che alcuno gli si avvicinasse per fargli violenza.
Per buona sorte, nessuno gli si fe’ dinanzi; però il re si volse, e, saputo il caso, lo sbirciò con occhi adirati, e lo stesso fecero Cialdini e Lamarmora e quanti altri eran seco.
Il peccatore proseguì allora la sua via, standosene sempre tra gli ufficiali della casa reale, e quindi se ne andò al suo alloggio, tranquillamente, e fu lieto e contento per tutto quel giorno e per quella notte. Ma la mattina dipoi, il generale Ricotti, comandante la piazza di Napoli, lo chiuse nel castello dell’Uovo, e quivi rimase doloroso e solo per due lunghi mesi, meditando sul risico che si corre nel volere avvicinarsi soverchio al sole e nel rispondere colle mani alle impertinenze dei servitori indiscreti.
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Opera molto lunga fu il licenziamento dell’esercito dei volontari, che per la più parte, restarono oziosi negli alloggiamenti per due eterni mesi, mentre tuttavia si combatteva sul Garigliano e sotto i baluardi di Gaeta.
Ultimi a posare le armi furono i due battaglioni comandati da Griziotti, uno de’ quali era il mio.
Que’ due battaglioni erano formati, come ho già detto, di gente di sangue caldo e difficile a tenersi in briglia più de’ cavalli indomiti. Ora, mentre tutti gli altri volontari posavano, man mano le armi, senza dar segno di scontentezza, i nostri si ostinavano nel non volerle rendere, giurando che solo un ordine di Garibaldi avrebbe saputo persuaderli a ceder senza scrupolo e senza sospetto le armi, che Garibaldi aveva loro consegnate.
Né a Griziotti, né a me, né agli altri ufficiali del reggimento venne fatto indovinare o scuoprire chi mai avesse messo certe pulci pel capo ai nostri volontari, e indarno adoprammo per parecchi giorni, persuasioni ed anche preghiere, per indurli a seguir l’esempio dei loro compagni e a consegnare di buon animo le armi, divenute oggimai inutili, da che Capua s’era resa e Garibaldi se n’era ito a Caprera lasciando all’esercito regolare la cura di terminar la guerra sotto le mura di Gaeta.
In que’ giorni era in Aversa il reggimento dei lancieri di Novara, e due o tre volte tra volontari e lancieri corsero parole ed anche busse e si fu lì lì per venire alle mani, perché i lancieri davano la berta ai volontari, e questi rendevano la berta a misura di carbone.
Certa notte, fummo desti il colonnello ed io da un gran trambusto e dovemmo correre cogli ufficiali dei lancieri alla comune caserma, e fu proprio misericordia di Dio se qualche grosso scangéo non nacque. Finalmente, venendo da Napoli ordini severissimi del Sirtori che ci intimavano di dar termine a quella musica, sotto pena di veder correre a Caserta qualche reggimento di truppa regolare e veder tolte le armi ai nostri diavoli per forza, raddoppiammo le persuasioni e le preghiere, ed un bel giorno ci riescì di convincerli e le armi furono lasciate.
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Qui finisce il mio racconto, per la buona ragione che null’altro avrei da raccontare.
Dirò soltanto che mi imbarcai in Napoli col mio battaglione la sera del 22 di dicembre, sopra un bel piroscafo che avea nome Principe Umberto. Il capitano Dodero lo comandava in viaggio a dispetto del cattivo tempo che faceva e di quel peggiore che minacciava, e insiem con noi escì dal porto un altro piroscafo che si chiamò Ercole. Sull’Ercole salirono parecchi volontari e il colonnello X, che recava a Genova le carte dell’Intendenza dell’esercito meridionale.
Escimmo dal porto, sobbalzati dalle onde furiose e ben tosto si fe’ notte. Col venir della notte la burrasca crebbe a dismisura, e non andò molto che diventò tempesta; sicché giunti che fummo all’altezza di Gaeta il capitano Dodero ebbe di catti di volger la prua e ricondurci in Napoli, dove tornammo sul far del giorno, più morti che vivi.
L’Ercole non ricomparve dinanzi a Napoli, né lo accolse Genova nel suo porto; nessuno ha mai saputo in quai paraggi inghiottissero le onde la sventurata nave e la gente sventuratissima che v’era sopra.
La tempesta durò furiosa per tutto il giorno dipoi, ma nel terzo giorno posò, e noi tornammo ad imbarcarci sul Principe Umberto, che ci condusse sani e salvi a Livorno la sera della vigilia di Natale. . . . . . . . . . . . . . .
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