Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE PRIMA Da Genova a Marsala

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La serata passò tristissima per tutti. Garibaldi era molto pensieroso, e non proferiva che qualche parola tronca, di quando in quando, per accennare al gran rincrescimento che aveva, di dover dire addio alla sua bella impresa.

La cena parve un funerale. A tre ore di notte, eravamo tutti nelle nostre camere. La villa era silenziosa, e le civette stridevano sinistramente al bel chiaro della luna.

Avevo un diavolo per capello, e non trovai posa per tutta la notte. Appena fatto giorno, scesi giù nell’anticamera. Il generale era già alzato, e lo sentivo camminare su e giù a passi misurati, per la stanza.

Verso le sette venne gente da Genova, e da lei ebbi notizia di quello che accadeva in città.

I volontari, assembrati sulla piazza d’arme, che attendevano il segnale dell’imbarco, intesero con dolorosa meraviglia l’ordine di tornarsene con Dio; è impossibile a descriversi il rammarico di quei poveri figliuoli, che avevano trascorso la notte cantando allegre canzoni, e s’eran fatto sicuro un glorioso viaggio all’isola de’ vespri, abbellito da tutta la poesia, che danza pel capo alla gioventù. Alcuni s’avviarono a casa, colle lacrime agli occhi e senza far parola; altri (e furono i più) si posero a gridare come indemoniati, dicendo essere una viltà il piantare, in quel modo, banco e burattini, e giurando che se un capo qualunque si fosse fatto innanzi per condurli via, l’avrebbero seguito non in Sicilia soltanto, ma anche all’inferno. Fu un diavoleto, che sulle prime minacciava voler finire in una scena assai brutta, perché alcuni, i quali per la loro età e per la loro esperienza, dovevano aver giudizio da vendere, soffiavano a più non posso in quegli esacerbati spiriti, non risparmiando a Garibaldi accuse e rimproveri a iosa.

A una cert’ora, comparvero alla villa dieci o dodici giovinotti. Li guidava un bel ragazzo di diciassette anni o poco più, biondo e ricciuto, ma con due occhi che parean fiamme.

– Che cercate? – dissi loro.

Cerchiamo Giuseppe Garibaldi, – rispose il caporione.

Garibaldi non vuol veder nessuno, – soggiunsi.

– Bisogna che ci riceva, dobbiamo parlargli; – gridarono a coro – siamo

una deputazione...

– Una deputazione?... E che volete da lui?

– Vogliamo, – ripigliò a dire il bel ragazzo – vogliamo dirgli che si risolva a partire, e che se non vuole venir con noi, ci dia i mezzi che ha raccolti; e partiremo senza di lui.

Mi parvero tutti matti. Chi era mai al mondo, che potesse tenere un linguaggio simile ad un uomo di quella fatta?

Cercai distorglieli dal loro proposito; ma fu lo stesso che dire al muro. I signori deputati cominciarono a gridare, e uno di loro mi disse:

– Voi, signor soldato, siete forse uno di quelli, che ha piacere di non partire?

Sentii che il sangue mi saliva alla testa. Una parola di più, e la tregua di Dio e di Garibaldi si rompeva nella villa Spinola.

Per buona sorte, venne Vecchi, e informatosi di quel che si trattava, mi disse:

– Ci vuol poco a contentarli, va dal generale e digli ciò che vogliono. Vedrai che ti dirà di farli entrare.

Questo consiglio mi parve buono, e dissi al generale:

– Abbiamo giù alla porta una deputazione di volontari, che vuol parlarle.

– Che cosa vogliono?

– Vogliono... cioè, dicono che se non avete voglia di andare in Sicilia con loro, andranno senza di voi. Però pretendono che diate loro i danari e le armi che raccoglieste, perché dicono che non è roba vostra.

Io non dimenticherò gli occhi terribili che fece il futuro vincitore di Palermo nell’udire quelle mie parole; e per poco non mi morsi la lingua.

– Ho io paura? – esclamò egli, diventando rosso in viso, come la bragia; ma in un tratto si ricompose, e con voce pacata soggiunse: – Fateli entrare.

Entrarono. Io tremavo come una foglia. Non sarei entrato nei panni di quei signori deputati neppure per tutto l’oro del mondo.

Il generale era ritto, e colle braccia conserte al seno. Rispose con un cenno di capo ai loro saluti, e si diè a guardarli ad uno ad uno. Durò quel silenzio per due o tre minuti, che mi parvero un secolo.

Alla fine, il più giovane sciolse la lingua, che era lingua genovese, e cominciò a perorare. Quand’egli ebbe finito, perorò un altro, e poi un altro; quindi cominciarono a discorrere tutti insieme, rincarando sempre la dose, con una franchezza, e con un’audacia che mi fece trasecolare.

Quando ebbero discorso e gridato ben bene, come Dio volle, tacquero.

Successe un nuovo silenzio, che fu brevissimo, ma durante il quale, gli occhi di Garibaldi parlarono più di cento lingue.

E quand’egli si fu risolto ad aprir bocca, ed ebbe cominciato a far sentire quella sua voce, il cui suono innamorava, i poveri ambasciatori cominciarono a diventar pallidi, poi rossi rossi, e quindi bianchi come la carta da scrivere, e i loro occhi si empirono di lacrime.

Garibaldi non rimase neppure egli a ciglia asciutte, e accomiatandoli con un gesto affettuoso, si volse rapidamente e andò ad appoggiarsi al davanzale della finestra.

Pagherei oggi non so che cosa per rammentar le parole precise che disse in quell’occasione il generale; ma siccome il tempo me le ha cancellate dalla memoria, e non me ne resta se non un’eco confusa, così taglio corto e non m’arrischio di far discorrere un eroe colle povere parole mie.

 

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Mentre questo accadeva alla villa Spinola, dentro Genova si faceva il diavolo a quattro, ed alcuni, tra cui La Masa, Carini e Bixio, tennero consiglio per decidere che cosa fosse da farsi, dopo l’inesorabile risoluzione presa da Garibaldi, il quale, avuto sentore della cosa, mandò a dire che si facesse pure innanzi chi si sentiva capace d’aver più cuore di lui, ed egli rimetterebbe nelle sue mani armi e danari.

Non mancarono capi scarichi, i quali si protestassero pronti a pigliare il comando della spedizione, millantando che sarebbero partiti anche sopra una nave a vela e con due o trecento animosi, che avessero il fegato di seguirli. Per buona sorte loro e delle cose nostre, il dissenso di alcuni de’ più assennati tra i fuorusciti siciliani rese impossibile la temeraria follia, e così avvenne che, ridotti gli animi a più seri propositi, fu deciso temporeggiare, non essendo a disperarsi ancora che Garibaldi si muovesse a cambiare risoluzione.

In questo giovò assai l’autorità di Francesco Crispi, il quale, sopravanzando tutti gli altri per ingegno e per astuzia, ben seppe travedere come nell’animo del generoso nizzardo tenzonassero aspramente il sì ed il no, e fosse agevole il cambiare in assenso quel rifiuto, che le menti volgari reputavano immutabile. Ciò che da Garibaldi non avevano ottenuto le preghiere e i sarcasmi, poteva indubitatamente ottenerlo il più sottil bagliore di speranza che gli filtrasse nell’anima, temperando il nobile scrupolo che s’era fatto di non rendersi autore o complice d’una impresa disperata e fatale. Questo intravide il Crispi ed a questo si adoperava, aggiungendoglisi compagno Nino Bixio, che, dopo sbolliti i primi suoi impeti, abbracciò (come fu sempre suo solito) il partito più savio; laonde si può asserire con tutta coscienza, che l’Italia dovette a questi due uomini il miracolo d’indurre Garibaldi a mutar proponimento.

 

 


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