Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE PRIMA Da Genova a Marsala

VI

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VI

 

Suonato che fu mezzogiorno, ripigliai la mia sciabola, e dato un bacio a Vecchi e ringraziatolo della buona ospitalità, scesi nella stanza del generale e gli dissi:

Generale, se non ha ordini da darmi, vado via...

– Ve ne andate?

Resterei con tutta l’anima se...

Andate, andate, – soggiunse Garibaldi. – Presto ci rivedremo, non vi perdete d’animo... Per ora non c’è da far nulla, ma il tempo verrà... Peccato! Bella spedizione!

Ci guardammo in silenzio per qualche minuto.

Dove andate? – ripigliò il generale.

– Ad Alessandria... agli arresti di rigore e forse in fortezza...

Povero Bandi! Eh... non c’è che fare... Ma... dite, in caso che avessi nuovamente bisogno di voi?

– Eccole il mio indirizzo. Per carità, se mai cambiasse proposito, non mi dimentichi. Mi faccia fare un telegramma che dica sta bene, e sia firmato col primo nome che le casca giù dalla penna, e romperò gli arresti, e salterò mura e fossi per tornar qui da lei.

– Non partirei senza di voi; – disse, guardandomi con aria affettuosa, il generale – ma è difficile che vi richiami qui, poiché ho già dato ordine che facciano i miei bauli, e conto di partir domani per Caprera. Ma... a proposito, – soggiunse, mettendo la mano sul sacchetto dei napoleoni, che era sempre sulla scrivania – avete bisogno di danaro?

– No, grazierisposi, per quanto sapessi di non avere in tasca che pochissimi soldi, quanti appena bastavano per tornarmene in Alessandria.

Partii tutto scoraggiato e triste, e presi, scarpa scarpa, la via di Genova, dove giunsi in un baleno. Appena entrato in città, notai gruppi di gente che parlava e gesticolava vivacemente, e non andò molto che m’imbattei in qualche amico, dal quale seppi che il rifiuto improvviso di Garibaldi veniva censurato con indicibile asprezza, massime da’ mazziniani, che ne dicevano corna.

A que’ tempi, tra Garibaldi e Mazzini ci era ancora un po’ di ruggine; si erano lasciati tutt’altro che in buoni termini a Roma, e non s’erano più veduti di poi. I seguaci dell’uno e dell’altro esageravano i dissapori de’ loro capi, e non serbavano misure nel censurare. Così mentre Garibaldi tassava spesso Mazzini di voler troppo tirata la corda e di aver sull’anima il sacrifizio inutile di molta gente, e solea dire: «Costui vorrebbe esser anco papa», i seguaci di Mazzini dicevano del nostro Garibaldi ira di Dio.

In quel giorno, recatomi nell’ufficio del giornale L’Unità Italiana, trovai gente che se avesse avuto Garibaldi tra le mani, lo avrebbe baciato codenti. Non fu parola amara, non fu insolenza che al bravuomo si risparmiasse. Si diceva che aveva venduto l’anima alla monarchia, che gli anni lo avevano rimbambito. Taluno disse ancora: «E chi è mai codesto Garibaldi? Che cos’è quest’idolo? Quali cose ha mai fatto costui, perché dobbiamo venerarlo in ginocchioni?... S’egli non ha l’animo di mettersi in quest’impresa, lasci fare a chi fa, perché noi abbiam gente capace di far molto meglio di quel che non farebbe lui». E qui si celebravano i nomi di diversi loro famosi capitani, i quali, messi al punto, avrebbero fatto vedere in candela che la fama di Garibaldi era scroccata a buon mercato.

Rammento poi che un vecchio idrofobo, del quale non ho mai saputo il nome, capitando mentre parlavo con Quadrio, si arrischiò a dire: «Garibaldi ha paura!».

A questa parola saltai su tutto inviperito, e gridai:

Vecchio, che dici tu? Avresti mai detto che potesse aver paura Giovanni dalle Bande Nere? Tagliati la lingua e fa l’atto di contrizione.

Ed egli a me:

Ragazzo, voi non capite niente; voi giudicate come giudica il volgo, e siete innamorato matto della gran nomèa di un uomo, che, in fondo, non costa nulla. Non vedete? Per dar retta al suo re, ci pianta bravamente in asso, e chi s’è visto, s’è visto. Ma a suo marcio dispetto, la spedizione si farà: la faremo noi per conto nostro, e ringrazieremo la sorte, che ci ha tolto di tra i piedi quell’uomo, che a voi sembra un dio.

Strinsi la mano a Quadrio, irritato anch’esso ma non irragionevole, e partii.

 

*

* *

 

Giunsi in Alessandria che era notte buia. Entrato in casa, trovai la mia ordinanza, che era livornese, ed avea nome Oreste Cartoni.

Oreste, m’hanno cercato?

– Se l’han cercato! Dicono che lo daranno come disertore.

– Non dire ad anima viva ch’io son qui. Domani vedremo quel che va fatto. Adesso andiamo a letto, perché sono stanco morto.

Dormii come un tasso. Svegliandomi, pensai al bell’imbroglio nel quale sarei andato a mettermi, se mai mi chiudevano in fortezza, e se mentre fossi chiuso, Garibaldi mutasse proposito e partisse. Ad entrare in gabbia, pensai, c’è sempre tempo. E così mi chiusi in casa, e mandai a chiamare qualche amico, al quale feci esatta la confessione del mio caso. Mi fu risposto che stessi chiuso ed aspettassi, perché i giornali di quella mattina annunciavano tutt’altro che svanita irremissibilmente la spedizione di Sicilia. Stetti in casa tutto quel giorno, tenendo sempre il buon Oreste in guardia, per vedere se capitasse qualche fattorino del telegrafo; ma per quel giorno non si vide nulla. Il seguente aspettai in pace sino a una cert’ora, poi, non vedendo niente di nuovo, dissi al soldato:

Oreste, va fuori, e comprami qualche giornale di Genova.

Il soldato si vestì e scese, ma in capo a tre minuti tornò con un foglio in mano. Oh gioia! era un dispaccio telegrafico!...

L’apersi e lessi: «Sta bene. Francesco Nullo».

Cominciai a vestirmi in fretta e furia, poi, spiegai un fazzoletto e vi posi dentro una camicia, qualche paio di calze, e qualche altra briccica; era questo il mio bagaglio. Malbrough s’en allait en guerre con un fardello che non pesava tre libbre e non costava quattro lire.

Il soldato vedendomi fare quei preparativi, cominciò a piangere.

– Che hai, che piangi?

– Voglio venire anch’io...

Dove?

Dove va lei.

– No, figliuolo, è impossibile...

– E perché è impossibile?...

– Perché Garibaldi ha proibito che si piglino i soldati; e poi... e poi... non voglio aver sull’anima nessuno...

Il poveretto seguitò a raccomandarsi, ed io duro sempre come un sasso. Finalmente, quand’ebbi terminato i miei preparativi, dissi:

– Ecco, mio buon Oreste, ti lascio erede universale. Ecco qui tuniche, calzoni, spalline d’argento, kepy, e tutto il resto della batteria; quando leggerai sulla gazzetta che siam partiti da Genova, vendi tutto e fa un brindisi a me, che tanto ti volli bene.

Il soldato si mise il fazzoletto agli occhi. Io corsi dalla padrona di casa e le chiesi che ora fosse, perché l’orologio che doveva esser mio, non era ancor fabbricato.

– Le quattro vicine, – rispose la buona donna.

Tornai in camera ed apersi il libriccino dell’orario delle ferrovie. Non c’era un minuto da perdere. Corsi alla stazione, col mio soldato dietro, e chiesi un biglietto di seconda classe per Genova. Ahimè! Nel fare il riscontro di cassa, m’accorsi che mi mancavano, a far la somma necessaria, quarantasette soldi. Dove trovare quarantasette soldi?...

Oreste, hai tu danari?

– Ecco, – disse il soldato, togliendosi dalle tasche due o tre palanche.

Maledizione! – esclamai, e volsi gli occhi in giro.

Quella guardata volse tosto la maledizione in benedizione, perché i miei occhi scorsero una brigatella d’ufficiali che desinavano nel caffè della stazione. Fra quegli ufficiali c’era, per buona sorte, Achille Cantoni da Forlì, amicissimo mio all’Università di Siena, quello stesso che poi cadde gloriosamente a Mentana, e nel cui nome intitolò Garibaldi un suo libro.

Achille, – gli dissidammi cinque franchi.

– Che parti? – rispose, aprendo il portamonete.

– Sì vado via con Garibaldi; vieni anche tu.

Cantoni stette sopra pensiero un momento, ma non si seppe risolvere a darmi retta. L’idea d’esser dato disertore gli mettea ribrezzo.

Si alzò da tavola, m’accompagnò al treno, e mi disse addio con un bacio.

Quando il treno partì, il mio povero Oreste Cartoni piangeva dirottamente.

Non passarono molti giorni, che mi pentii forte di non averlo condotto meco; perché quando caddi ferito a Calatafimi, il picciotto che avevo preso per ordinanza, mi piantò come un cane morto e andossene a far bottino, ed ebbe il fresco cuore di tornare a vedermi dopo quattro giorni, portandomi in dono all’ospedale un bel mazzo di sparagi selvatici.

 

 


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