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Arrivai in Genova, con una gran pena nel cuore. Alla stazione di Busalla, un impiegato della ferrovia avea detto a voce alta: «Stasera parte Garibaldi».
– Parte stasera! – ripetei tra me e me. – Bella sarebbe, per Dio! che non giungessi in tempo, – pensavo – sarebbe bella, e non canzono!
E nella smania che mi prese, avrei voluto dire al macchinista: frusta i cavalli, e ti manderò in regalo un pezzo di Sicilia!
Quelle poche miglia mi parvero lunghe cento volte tanto, e invidiavo le ali agli uccelli.
Finalmente arrivammo. Non era per anco ben fermo il treno, e io apersi lo sportello e saltai giù col mio bianco fagottino in mano, infischiandomi delle guardie che gridavano a più non posso.
Volevo andarmene diritto alla villa Spinola, ma una voce mi diceva: e se Garibaldi fosse già nel porto o fosse in qualche punto della spiaggia lontan di là, o fosse magari a bordo? Andai di corsa in piazza Carlo Felice, e là in fondo, mi feci alla bottega d’un barbiere romano che si chiamava Mantinenti, uomo conosciutissimo dai familiari di Garibaldi e quivi domandai:
– Quando parte?
– Non si sa...
– Ma è sempre alla villa?
– Sissignore.
Mi volevo permettere il lusso d’una vettura di piazza, ma il prezzo che mi chiesero mi disanimò. Era proprio il caso di dire: quando non ce n’è, quare conturbas me? Rammentando allora di essere ufficiale di fanteria, e che il buon fantaccino dee marciare allegramente, pigliai con lieto animo la strada, e in un baleno giunsi alla villa. Avvicinandomi alla porta per suonare il campanello, udii un concento di voci festose, misto alle gioconde note del pianoforte. Suonai, mi fu aperto e salii su. Garibaldi era seduto a mensa con il figlio Menotti, col Vecchi, con Fruscianti, con Nullo e due altri che non rammento; una signora, che era la governante del padron di casa, era seduta al pianoforte e suonava l’inno di Mameli. La sala era tutta adorna di festoni di lauro, la mensa era piena di fiori, e vi si vedeva nel mezzo un bel trofeo, sormontato da una bomba, tutta arrugginita, su cui si leggeva scritto: «Un bacio della Francia all’Italia!».
La mia comparsa fu salutata con un grido dagli amici, e quell’ottimo uomo del generale mi fe’ cenno d’avvicinarmi a lui e porgendomi un bicchiere colmo di vino d’Orvieto, mi disse:
– Bevete anche voi alla buona fortuna d’Italia. Undici anni or sono, vedemmo in questo giorno, sotto le mura di Roma, le spalle dei francesi.
Era la sera del 30 d’aprile. Mi detti dell’asino settanta volte: avevo dimenticato esser cara e memorabile quella data al glorioso difensore della città eterna ed espiai, come potevo, la mia smemorataggine rallegrandomi con lui che la santa ispirazione del rimuoversi dal suo rifiuto, gli fosse venuta in un giorno così bene auspicato e solenne.
Cantammo un bel pezzo, e cantò anche il generale, che parea lietissimo della sua risoluzione, e già annusava da lungi la battaglia, come il buon cavallo del libro biblico di Giobbe.
Per quella sera non si parlò di nulla, né mi arrischiai a dimandare un ètte in presenza del generale. Però, quando egli ci ebbe mandati a letto, mi strinsi a tu per tu col Vecchi, e da lui seppi per filo e per segno come fossero corse le faccende.
Nella mattina di quello stesso giorno, Francesco Crispi e Nino Bixio eran venuti tutti allegri e trionfanti alla villa, recando a Garibaldi certe lettere e certi dispacci, in cui si diceva come i siciliani avessero rialzato il gallo, e la rivolta andasse rapidamente pigliando piede nelle loro maggiori città. Si annunziava, in specie (tenga bene a mente il lettore), che Marsala fosse già in potere degli insorti, e si aggiungeva che Rosolino Pilo era a capo poco meno che d’un esercito.
Il buon Vecchi, ripetendomi siffatte cose, non seppe nascondere che in quelle buone notizie, a parer suo, ci covava gatta; infatti, anche altri, e non pochi, fin d’allora credettero che il Crispi inventasse di sua testa, rubando la licenza a’ pittori e ai poeti, ma se ciò è vero, gli si deve oggi la lode d’aver mostrato e messo in sodo che una bugia sapiente può condurre in paradiso più presto e meglio assai d’una sconclusionata verità.
Garibaldi, udendo quelle felici novelle, aveva meditato alquanto, poi s’era alzato vivacemente dalla sua sedia, esclamando con voce sonora e piena di gioia: «Preparate tutto, andremo in Sicilia!».
Queste memorabili parole erano volate di bocca in bocca, e il telegrafo le recò di volo nelle città di Lombardia, dove Benedetto Cairoli, Giacomo Griziotti, Bassini, Nuvolari, Missori, Majocchi ed altri, dettero tosto mano a raggranellare di bel nuovo i volontari ed a raccoglierli in numero maggiore. Intanto, per cura di Bixio, si erano riannodate le pratiche coll’agente del Rubattino, G. B. Fauché che si dichiarò pronto, questa volta a fornire due piroscafi, e non uno solo, come s’era pattuito da prima, purché gli si desse tempo di restaurarli nel cantiere, chiedendo a tale uopo quattro giorni o cinque.
Le cose andavano, come si vede, a vele gonfie. Anche questo secondo indugio fu, come suol dirsi, tanto cacio sui maccheroni, come quello che ci dette agio d’aspettare parecchia gente, la quale essendo un po’ lontana, non avrebbe potuto arrivar in tempo, se la partenza fosse stata repentina, a seconda de’ voti dei più impazienti.
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La mattina seguente, le prime parole che il generale ci disse, furon queste:
– Partiremo, partiremo; io ho gran speranza di far del bene, per quanto molti de’ miei amici abbian cercato di distogliermi da questa impresa, figurandomela come una pazzia.
In tutta quella giornata, e’ non ebbe un minuto di requie; le visite si succedettero alle visite, i dispacci ai dispacci, le ambasciate alle ambasciate. Bixio, Bertani, Crispi e un capitano di mare, grosso grosso, ragionarono segretamente con lui per qualche ora.
Diverse volte, che il generale mi chiamò per qualche servigio nella sua stanza, udii rammentare tutt’altro che in suono di benevolenza il nome del conte di Cavour; e debbo confessare che sino all’ultimo egli persisté nell’idea che Cavour avrebbe volentieri mandato a rotoli la nostra impresa, e avrebbe pagato una metà buona del suo sangue per saperci tutti in bocca al lupo.
– Che volete? Da tutte le parti mi si vorrebbero mettere impacci fra i piedi. Io mi son fatto «un eroe di pazienza» e son calato agli accordi perfino col conte di Cavour. Quest’uomo, lo sapete, ha venduto la mia patria. Povera Nizza! Ebbene? Nonostante ciò, tratto con lui da buon amico e gli chiedo un migliaio di fucili per andare a farci ammazzare allegramente. Mi pare di non chieder molto a costui, eh?
Di Vittorio Emanuele parlava con molto affetto, e nutriva per lui una stima profonda. Parlandone in quegli stessi giorni soleva dire:
– Dal re non desidero se non due cose sole: che ci lasci libere le mani, e che non porga ascolto ai cattivi consiglieri, che vorrebbero fare della nostra Italia una prefettura francese.