Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE PRIMA Da Genova a Marsala

VIII

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VIII

 

Mentre queste cose accadevano, la polizia spiava, giorno e notte, la villa Spinola, mandando per le vicinanze un numero infinito d’esploratori, parecchi dei quali, sebbene mascherati nelle fogge più strane, venivano scoperti da noi e messi in burla con infinite risa.

E per vero, quanti fummo in quei giorni, intorno a Garibaldi, avevamo tutti un naso oltre ogni dire miracoloso per fiutare l’odor de’ birri, avuti in tasca da noi, e odiati a morte, in barba al Vangelo, che prescrive doversi tollerare con carità le persone moleste e i padroni, anche se son discoli.

Carlo Augusto Vecchi, padrone della villa, aveva messo sull’uscio d’ingresso un cartello che diceva: «Proibita l’entrata ai cani e ai preti» e s’era dimenticato di aggiungervi «ai birri». Questi però ebbero, per dono di Dio, tanta sapienza da mettersi spontaneamente nel numero de’ cani e dei preti; e mai non accadde che alcun di loro mettesse piede sulla nostra soglia e s’arrischiasse ad entrare.

Ma per quanto e’ stessero fuori, il Vecchi era spesso inquieto e non sapeva darsi pace di vederli a zonzo per le vicinanze, sospettando egli sempre che volessero farci all’improvviso qualche cattivo tiro. Infatti, una certa volta ei mi disse in chiari termini aver saputo che in Torino s’era discorso seriamente di farci cogliere caldi caldi nella villa e condurci insieme col generale in qualche fortezza e tenerci quivi rinchiusi fin che le fila della nostra trama non fossero spezzate e, più che spezzate, distrutte.

Il colonnello Vecchi non fu un credenzone, né una testa calda, ma pure sospettò sul serio che qualcosa di brutto si venisse mulinando a nostro danno dai ministri del re, impauriti o messi a punto dal governo napoletano, il quale per bocca del marchese Canofari, suo agente, non cessava d’accennarci come macchinatori pericolosi, e pronti a compiere un atto d’improntitudine inaudita.

E la nostra congiura, a dirla schietta, potea ben chiamarsi il segreto di Pulcinella, perché si lavorava all’aperto e se ne parlava per le vie e per le piazze ad alta voce, e la gente andava e veniva e faceva preparativi, non altrimenti che si trattasse d’una burla innocentissima al povero figliuolo del defunto re Bomba. Laonde il Vecchi ci raccomandava sempre che stessimo all’erta e teneva d’occhio gli esploratori e faceva che gli altri li esplorassero, e sovente nella notte, mi svegliava ed ero suo compagno nel far la ronda.

Garibaldi era informatissimo di tutto e ci confortava ad usar prudenza, e mi parve molto disposto a credere che il conte di Cavour morisse dalla voglia di levare il vino dai fiaschi col farlo allontanare da Genova con la forza nel modo stesso che, pochi mesi innanzi, lo aveva allontanato da Rimini con la furberia.

Ora, se debbo dire quello che io pensassi, dirò alla bella libera che non fui mai partecipe di quei sospetti, e credei che i birri ci si mandassero intorno, unicamente per sapere ciò che da noi si faceva, e noi si faceva, e non per altro. In ultima analisi, il conte di Cavour trattava con Garibaldi per mezzo del La Farina, né c’eran segni che le loro pratiche s’avessero a rompere e che la tregua tra quei due uomini s’avesse a mutare in aperta guerra.

 

Ma il generale ebbe sempre in gran dispetto gli arnesi della polizia; ed a questo proposito, rammenterò un fatto che non sarà discaro a conoscersi ai nostri pazientissimi lettori.

Nell’ottobre 1859, mentre Garibaldi aveva il quartier generale a Rimini, gli accadde spesso andare in carrozza a Bologna e poi tornarsene. In quelle gite rapidissime, e penose oltre ogni dire, soleva accompagnarlo il colonnello Malenchini, io e qualche altro ufficiale. La corsa, per lo più, si faceva di notte e coi cavalli della posta, e sempre senza scorta, per quanto noi dicessimo di continuo essere imprudenza somma il viaggiar soli di nottetempo, in quei luoghi dove era facile che i partigiani del papa e degli austriaci ci facessero, con un pizzico di scudi, cogliere alla sprovvista e conciare a quel biondo Dio.

Certa notte, venendo da Rimini, capitammo verso le due alla porta di Cesena, o di Faenza, se ben ricordo; la porta era chiusa o era calato il rastrello; io, seduto sul davanti, sonnecchiavo col mio revolver in mano, e gli altri, non escluso il generale, dormivano soavemente. Nel mentre s’apriva la porta o s’alzava il rastrello, due, non ricordo se carabinieri o ex gendarmi papalini, due lucernoni, insomma, grandi e grossi, s’avvicinarono alla carrozza, e dopo aver squadrato ben bene, un di loro mi chiese:

– Chi c’è in questa carrozza?

C’è un generale, – risposi.

E il lucernone:

– Chi è questo generale?

Garibaldi.

Faccia vedere le sue carte.

Lasciateli in pace, buona gente, – risposi – i generali non hanno carte da far vedere.

E loro a taroccare tutt’e due, dicendo che avevano diritto di veder le carte e intendevano di vederle.

Cominciarono ad alzare il registro, e io alzai più di loro.

Ad un tratto il generale si desta, e dice:

– Che cosa c’è?

Veda, – risposi – ci sono due gendarmi che vogliono ad ogni costo vedere le sue carte.

– Che carte e non carte! – gridò il generale con voce terribile. – Andate al diavolo, maledetti birri! Sempre birri! Sempre birri!

In quel punto, il postiglione fece schioccar la frusta, e i due lucernoni fuggirono con non minor paura di quella che ebbe lo schiavo cimbro, quando si udì chiedere: «E tu dunque, o sciagurato, ardimento hai d’ammazzar Caio Mario?».

Ma torniamo al nostro racconto.

La mattina del primo di maggio, del mese che Giacomo Leopardi chiamò odoroso, mentre ravviavo i miei cenci, il generale mi fe’ chiamare. Scesi in due salti, e lo trovai a discorrere con un tale, che per m’ebbe l’aria d’un contrabbandiere o d’un mercante di cavalli.

Lo sconosciuto era alto e grosso della persona, aveva occhi di falco, e vivaci tinte sul viso e lunga e grigia la barba; parlava con calore e con accento romagnolo assai chiaro, e teneva per mano una bellissima bambina di sette anni, che seppi di poi aver nome Minerva.

La bambina rubava i baci; il babbo, con quel suo abito di velluto dal color marrone, con quella papalina rossa che aveva in testa, e più con quel suo gran parlare, mi invogliava di saper chi fosse, ma non m’innamorava.

– Ecco, – disse Garibaldi – ecco l’uomo al quale consegnerete i vostri recapiti, ed al quale darete tutte le informazioni che potrete dare. Ho affidato a lui l’incarico che ricusaste voi.

Dette tali parole, Garibaldi si volse a discorrere con Medici, che in quel punto entrava nella stanza, ed io rimasi presso la finestra, insieme allo sconosciuto. Il quale mi disse:

– A voi giovinotto.

– Son pronto, – risposi, togliendomi di tasca il portafogli. – Ecco i recapiti

che ho in Siena, in Foiano, in Chiusi, in Cesena, e poi a Pescara e a Castiglione del Lago, ed ecco i contrassegni. L’incarico che t’hanno dato è molto peso, ed è bene che tu sii più grosso di me. T’auguro buona fortuna...

Va , va , – interruppe il gigantesentirai raccontar di me cose che ti faranno venir l’acquolina alla bocca e ti faranno pentire di non esser venuto con me. Dammi retta, andiamo insieme. Hai un non so che nel viso, che sento di volerti bene...

Grazie, – risposi – ma è inutile che tu mi tenti, perché non lascerei Garibaldi nemmeno per un imperatore. Del resto, ti dico con mio gran dispiacere che troverai un osso duro da rodere...

– Un osso duro? Ma tu non sai chi sono?

– Lo saprei volentieri.

– Hai sentito mai rammentare Zambianchi?

– Come! Sei tu il colonnello Zambianchi? Quello che a Roma fucilava i preti per divertimento?

Sangue della Madonna! Son io. Avrai sentito eh, quel che ha scritto di me quel “boia” di Farini?

– L’ho letto purtroppo; ma torniamo a noi. Io debbo darti diverse lettere: per Giorgio Neri e Giuseppe Baldini in Siena, per Alessandro Caporali in Cesena, per Carlo Sozzi ed Ascanio Dei in Chiusi, per il “gobboBassi a Piegaro, eccetera. Aspettami in giardino con questa tua bellissima bambina, e vengo a raggiungerti con le lettere.

Va bene!

– E partirai stasera... domattina?...

– Non lo so.

– Ti danno armi, danari?...

– Non s’è parlato ancora di nulla; ma non t’occupare di questo; quando entra un par mio nel ballo, si balla sempre anche se mancano i suonatori.

Queste furono, su per giù, le parole che corsero, in quel giorno, tra me e lo Zambianchi. Ho voluto parlare di quell’incontro e di quel colloquio per far vedere e toccare con mano che ben prima di veder lo Zambianchi alla villa, Garibaldi aveva formato il concetto di una spedizione di volontari nell’Umbria, e che non gli venne in testa per a Talamone per levarsi di torno un uomo che non gli piaceva e per aprire una valvola al torbido elemento mazziniano, cui parve duro il dover risicare la pelle sotto l’ombra della bandiera reale, e dover surrogare al motto: «Dio e Popolo,» l’altro motto garibaldesco: «Italia e Vittorio Emanuele».

Molto, e anche troppo, s’è discusso e s’è ciarlato per mettere in sodo lo scopo, che con quella spedizione s’era prefisso il generale.

Lo scopo che egli ebbe fu questo: di dare un po’ di lana da torcere anche al Papa, mentre ei ne recava moltissima al Re di Napoli. Voleva vedere se, mentre ei farebbe fuoco e fiamme nell’isola di Sicilia, qualche scintilla destasse un po’ d’incendio in terraferma; e volea tenere occupato un tantino il Papa, perché non mandasse i suoi svizzeri e i suoi bavari a soccorso del re Francesco, nominato, come sappiamo, gonfaloniere di Santa Madre Chiesa ad esempio del Valentino.

 

 


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