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Due giorni li salterò a piè pari, non volendo arrisicarmi a mettere a troppo duro cimento la pazienza di chi legge.
Que’ giorni furono spesi negli ultimi preparativi. Garibaldi parlò lungamente con gli agenti della Compagnia Rubattino, la quale gli dava in prestito due piroscafi vecchi stravecchi, che (come dissi poco sopra) s’andavano rassettando nel cantiere, così alla meglio, tanto perché fossero buoni a caricarci tutti nella rada di Genova e scaricarci in Sicilia.
Quali patti facesse il generale con la Compagnia non lo seppi; né mi curai saperlo allora, né poi; ma son fermo nel credere che i padroni dei due meschini legni non avrebbero perduto un soldo del loro avere, quand’anche la tempesta o le palle de’ cannoni borbonici li avessero spinti su qualche secca o sprofondati negli abissi.
La sera del 4 di maggio, essendo ormai sicuro che partiremmo e non ci sarebbero pentimenti, dissi al generale:
– Si contenta che vada a Genova e vi rimanga fino a domani? Ho qualche piccolo preparativo da fare per conto mio, e...
– Andate, – rispose Garibaldi, sorridendo. – Badate però che non annusino chi voi siete, e non vi conducano ammanettato in Alessandria... Abbiamo in questi paraggi più birri che alberi.
Ero vestito con un suo soprabitone ed un vecchio suo cappello a cencio; i calzoni e il corpetto me li aveva forniti l’amico Vecchi. Pigliai la strada, in compagnia di Cesare Orsini che aveva appoggiato l’alabarda nella mia piccola cameretta, e in quattro e quattr’otto fummo in città.
Tutte le lingue cantavano gloria a Garibaldi; quei medesimi che otto giorni innanzi lo avean chiamato Cincinnato da commedia, e poco men che pusillo, non avean parole per celebrarlo e per metterlo a paio con Leonida e con Timoleone.
Genova formicolava di gente; colà rividi ed abbracciai parecchi amici, e feci allegramente baldoria, pensando, tra le altre cose, che quella baldoria poteva esser l’ultima che godessi su questa terra.
Andatomene, ad ora tardissima, all’albergo, dopo aver cenato nel celebre Raschianino dove in quei giorni ebbero tavola e segreteria parecchi de’ più intimi generali, non intesi per tutta la notte se non canti lombardi e romagnoli e veneti, e non feci altro che voltarmi e rivoltarmi in qua e in là, aspettando ansiosamente la luce.
Cominciava appena a far capolino il sole, quando saltai giù dal letto, e prima delle undici ero di bel nuovo alla villa Spinola, recando meco una sacchetta di pelle, un paio di scarpe ed un libro degli Evangeli, comprato, non so per qual bizzarria del momento, nel caffè di Piazza Carlo Felice.
Garibaldi, appena mi vide, mi chiamò amorevolmente e mi disse:
– Avete fatto un po’ il discolo, eh? Ora è tempo di metter capo a partito, perché stasera entreremo in funzione.
Queste parole, che mi suonano ancora negli orecchi, mi dettero il lieto e sospirato annunzio che nella prossima sera saremmo usciti dalle tribolazioni e dal pericolo di veder dileguar le nostre speranze.
Non potei fare a meno di prorompere in una esclamazione di gioia, e fu quella una delle più grandi e sincere gioie, che io abbia provato in mia vita.
Il generale sorrise, e fattosi ad una cassa mezz’aperta, che era in uno degli angoli della stanza, trasse fuori un bel revolver americano, dicendomi:
– Questo è per voi.
Pranzammo più presto del solito, e in strettissima compagnia.
Alle frutta, il nostro caro Vecchi stappò una bottiglia e c’invitò a bere al felice e trionfal successo della spedizione. Alzammo i bicchieri, gridando: «Viva l’Italia!». Gli occhi di Garibaldi sfavillarono un sorriso, degno degli occhi d’un immortale.
Tolta che fu la mensa, cominciò la gente ad entrar nella sala, che in un baleno fu piena.
Il generale si ritrasse allora nella sua stanza, dove i familiari davano mano a fare i suoi fagotti, e dove Basso pigliò possesso della segreteria. Seguirono il generale, il Crispi, il Medici e il Bertani, che si trattennero seco lungamente in segreto colloquio.
L’ordine dell’imbarco era stato dato per le ore nove. A quell’ora, Bixio, seguito da alquanti uomini di mare, doveva impadronirsi de’ due battelli a vapore, Piemonte e Lombardo, ormeggiati in darsena, e caricati colà seicento volontari, dovea muovere oltre per ricevere a bordo il generale e il rimanente della spedizione, che lo avrebbero atteso nel golfo, dinanzi a Quarto. Le armi e le munizioni e i bagagli era stabilito si caricassero nel medesimo punto. Questo era tutto quello che si sapeva; il resto fu mantenuto religiosamente segreto, a dispetto della curiosità di moltissimi che dovettero contentarsi di fare castelli in aria, che il primo soffio di vento dovea distruggere, al pari della nebbia.
Alle otto e mezzo in punto, si spalancò finalmente la porta della stanza di studio, che era rimasta chiusa, per buon tratto, e comparve nella sala Garibaldi. Aveva indosso la solita camicia rossa, e il puncho sulle spalle. Salutati piacevolmente quanti erano nella sala, scese giù, e si fece innanzi pel lungo viale, su cui stavano schierate alcune centinaia di volontari. Al lume del crepuscolo, che fu limpidissimo in quella sera, si vide il bello e maschio volto dell’eroe, animato da un insolito brio; si sarebbe detto che Garibaldi aveva già un piede in Palermo ed un altro in Napoli.
Ad un tratto, Garibaldi si volse a Vecchi che gli veniva dietro di due o tre passi, e recava in mano una stupenda carabina, regalo di non so qual signore, italiano o forestiero.
– Vecchi, – disse – date a me quella carabina; voglio escir dalla villa col corpo del delitto.
*
* *
Usciti che fummo sulla via maestra, trovammo un visibilio di gente a piedi e in carrozza; ben potea dirsi che da Quarto a Genova fosse una processione non interrotta di uomini e donne. Era una folla avida di vederci, di salutarci, e di augurare in nome d’Italia la vittoria al magnanimo nostro condottiero; erano babbi, mamme, fratelli, sorelle, figliuoli, che venivano a dire addio ai loro cari... Da ogni parte, baci, singhiozzi, saluti, mazzi di fiori, strette di mano, e uno sventolar di fazzoletti, e un agitar di cappelli. Quando mi ricordo quella sera e quell’ora, sento gonfiarmisi il cuore, e piango sulla perduta gioventù, e piango sulla tomba dell’uomo che i sogni più belli della gioventù mia se li ha portati con sé!
Io veggo ancora quella nobile figura ritta, in atteggiamento scultoreo, là sulla punta dello scoglio, sotto il quale lo aspettavano i remiganti coi remi in aria. La brezza della sera agitava le pieghe del suo puncho; e col cappello in mano stava guardando attonito la gente che gli facea corona, e che era muta al par di lui. Garibaldi e quanti gli stavano attorno, sentirono in quel momento quanto fosse grande la poesia del silenzio.
E chi interruppe quel solenne silenzio fu un vecchio: un vecchio siciliano, che il giorno innanzi era venuto alla villa Spinola, conducendo quattro figliuoli. Quel vecchio, fattosi innanzi, agitò per aria il cappello, e con voce forte gridò:
– Generale, ieri vi detti i miei quattro figliuoli; oggi vi do l’augurio della vittoria. Io vi dico in nome di Dio che libererete la Sicilia!
Queste parole furono seguite da un fremito unanime della folla, che ebbe immagine di una sfida a morte, lanciata dalle rive della generosa Liguria contro ai tiranni di otto milioni di italiani.
Un minuto dopo, Garibaldi era sceso in una delle tante barche, che eran presso alla spiaggia, e io gli fui accanto con un salto. Cominciavano i marinai a vogare, quando ei gridò che sostassero e, fattomisi all’orecchio, mi disse:
– Scendete, fate rompere il filo del telegrafo poco sopra la villa; quegli uomini che vedete là, sulla strada, vi attendono e sanno che debbono obbedirvi. Conto su voi e vi aspetto.
Balzai sulla spiaggia, e le barche pigliarono il largo.
Trovai sulla strada quattro uomini muniti di scuri e di seghe. Uno di costoro era Ignazio Occhipinti, da Palermo; l’altro era il genovese Carbone, poi capitano di linea; gli altri due non li rammento. Mi vennero tosto incontro e dissero:
– Si debbono rompere i fili del telegrafo, appena si vedano uscir dal porto i due vapori, e non prima.
– Va bene, – risposi. – Stiamo attenti, e guardiamo, per Dio Santo, che non ci accada di rimanere in terra; è vero che Garibaldi ha promesso di aspettarci, ma possono nascere tanti casi!
– Ma è giusta, – osservò uno dei quattro. – Io propongo che uno di noi stia sempre di guardia sulla barca, che è lì ad aspettarci, e giuri di bruciare il cervello ai due barcaiuoli, se mai tentassero di pigliare il largo...
– Egregiamente, – dissi; e così fu fatto.
Mentre parlavamo così, gli ultimi curiosi erano scomparsi dietro la prossima voltata della strada, e non restavano vicino a noi se non due reali carabinieri.
Occhipinti mi sussurrò all’orecchio:
– Quei carabinieri pare che avanzino qualche cosa da noi...
– Vedrai che non avanzano nulla, – soggiunsi; e vestito com’ero della mia brava uniforme, mossi alla loro volta.
I carabinieri mi salutarono rispettosamente, e veduto che mi ero fermato a guardarli, se ne andarono come se nulla fosse.
Passò un’ora, ne passarono due, e invano i nostri occhi cercavano due punti neri che uscissero dal porto, come fantasmi nel seno della notte.
– Che cosa significa – pensavo – questo volere rotto il filo del telegrafo? Ha paura, forse, il generale che qualcuno accenni a Napoli la nostra partenza?
Veramente il nostro imbarco s’era fatto coram populo, e il console napoletano non lo poteva ignorare, e il governo nostro non avrebbe potuto vietargli di mandar telegrammi a Napoli, senza incappare in quella taccia di aperta complicità, che il conte di Cavour aveva ragione di volere evitata studiosamente.
Più tardi seppi che il filo del telegrafo venne rotto anche dalla parte di ponente, cioè qualche miglio al di là di San Pier di Arena, temendo Garibaldi che la partenza non fosse segnalata a Napoleone, dal quale s’aspettava ogni peggior malanno.
La luna che sorse sul tardi su pel ciel sereno, ci svelò ad un tratto tutte le barche dove erano i nostri nel mezzo del golfo, e che parevano tanti punti neri in mezzo alle onde che scintillavano tremolando.
Erano già suonate le due dopo mezzanotte, e nessun legno usciva dal porto. Al contrario, un grosso legno a vapore vi era entrato poco tempo innanzi, venendo da ponente.
Un’idea strana mi balenò alla mente: potrebbe mai darsi che sia qualche legno della marina regia, che abbia l’ordine d’impedirci la partenza?
Una mezz’ora dopo, due o tre giovani giunsero da Genova e, conosciuto chi fossimo e quel che facessimo lì, ci dissero:
– Un vapore da guerra francese è giunto, s’è messo dinanzi alla bocca del porto, e ha fatto sapere a Bixio che guai se si muove!
La cosa non era nemmeno verosimile, ma in quel momento l’ebbi per vera e mi sentii gelare.
Intanto, i primi chiarori del crepuscolo mattutino s’andavano diffondendo ad oriente, e la strada cominciava a popolarsi. Molte donne passavano coi cesti sul capo, recandosi a Genova a vendere i carciofi e le primizie della stagione.
La fame si faceva sentire: ci mettemmo a mangiar carciofi, così com’erano, senza pane e senza sale, e tanti ne mangiammo, che Ignazio Occhipinti non mi rivide mai, senza mettersi a gridare: «O Bandi, ti rammenti i carciofi?».
Dovevano essere le tre e mezzo o giù di lì, quando una voce gridò: «Eccoli!». Guardai verso il porto e vidi i due nostri vapori che uscivano. Era tempo di mettersi all’opera. Un palo di telegrafo era a due passi da noi, e un grosso filo lo assicurava, traversando la strada, a una rupe che vien giù quasi a picco. Mentre i miei uomini mettevano mano alla sega, ecco due guardie di pubblica sicurezza, che parvero scaturire dall’inferno, farcisi incontro gridando. Carbone agguantò subito il suo revolver e schiacciò un moccolo genovese; ma io lo tenni, e dissi:
«Non vi movete,» e andai incontro ai molesti visitatori.
– Che cosa volete? – domandai.
Le guardie vedendo un ufficiale dell’esercito, si guardarono in faccia e non sapean che dire. Poi, una di esse mi rispose:
– Signor tenente noi facciamo il nostro dovere...
– E noi facciamo il nostro, – soggiunsi.
– Vogliono rompere il telegrafo, eh?
– Pensate ai fatti vostri, – gridai impazientito – e andatevene col buon giorno.
Le guardie non sapean risolversi. Intanto, i miei quattro compagni, meno “politici” di me, cominciarono a gridare come indemoniati. E per vero, non c’era tempo da perdere.
– Ohe! – dissi alle guardie – noi dobbiamo adempiere un ordine del generale Garibaldi; con le buone, andate via, e se le buone non vi piacciono, guardate che siam cinque contro due, e con un fischio noi possiamo esser cento.
Le guardie si consultarono fra loro con qualche parola, che non intesi, e fecero un bellissimo front’indietro.
Ci ponemmo subito al lavoro. Il palo, segato a mezzo braccio da terra, dondolava; ma era impossibile che lo tirassimo giù per agguantare i fili e per romperli, giacché un maledetto filo traversale lo assicurava, come ho già detto, alla rupe che era parete alla strada. Per buona sorte, uno dei quattro, svelto come un gatto, s’inerpicò con la piccozza in mano sulla rupe e troncò il maledetto filo. Allora, tirando forte quella specie di canapo troncato, rovesciammo giù il palo, e con brevi colpi rompemmo sopra un sasso i cinque o sei fili del telegrafo, che si schiantarono sibilando a gran furia, come corde di un immenso chitarrone. L’urto fu così violento, che tre di noi andarono a gambe all’aria. Ci rialzammo ridendo, e corremmo alla nostra barca, e chiappati i remi, vogammo al largo, contenti come pasque.
I due vapori eran fermi, e finivano di caricare i volontari e i bagagli. Le barche si assiepavano in gran numero sotto i loro fianchi; era un trambusto indicibile. Appena fummo vicini al Piemonte, la scala fu improvvisamente tirata su, e una voce gridò: «Non monti più nessuno!».
In mezzo a quel gran baccano, chiamai tre o quattro volte Garibaldi, che stava dritto sulla passerella, in mezzo a un gruppo di gente, ma egli non mi udì. Per fortuna, qualcuno che mi riconobbe, calò una cima, ed io l’acchiappai, e col più gran miracolo di agilità che mai abbia fatto in mia vita, riescii a rampicar tanto in su, che amiche mani poterono agguantarmi e mettermi a bordo, senz’altro danno che qualche sbucciatura alle mani.