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Ero a bordo da pochi minuti, quando il Piemonte si mosse, e gli venne dietro il Lombardo.
Allora, Garibaldi dimandò a un ufficiale di cui non rammento il nome: Quanti siamo in tutti?
– Co’ marinai siam più di mille – rispose l’ufficiale.
– Eh! Eh! quanta gente! – esclamò il generale, con un gesto di meraviglia.
Si vede proprio che la fortuna gli aveva detto all’orecchio con voce ben chiara: «Osa, e sarò teco, perché ti voglio bene!». Per parte mia, quelle parole mi fecero meraviglia infinita, e ammirai il gran cuore di quell’uomo cui parean troppi mille uomini per un’impresa, alla quale altri avrebbe riputato indispensabile un esercito.
I primi momenti del viaggio furono penosissimi. Era tutta gente, per la massima parte non avvezza al mare, e che offriva un bellissimo esempio della curiosa commediola, che s’intitola: On milanes in mar. Que’ poveri milanesi, pavesi, bergamaschi, che formavano il grosso della spedizione, ci volle l’aiuto di Dio a metterli a posto; e quando furono a posto, cominciarono quasi tutti a patire il capogiro e poi gli stomacucci con quel che suole venir dietro. Onde pensai: che cosa accadrebbe delle misere nostre anime, se volesse il caso che dovessimo essere assaliti per mare? Chi ardirebbe sperar di cavarsela pulitamente con una turba di uomini, che qui sulle tavole della tolda parrebbero tanti pulcini nella stoppa?
E in quel momento ebbi fede nella Madonna del Buon Viaggio, e le dissi: «Vergin santa, se veramente stai su nei cieli, scorgici sani e salvi sino a terra, e quando i nostri piedi toccheranno terra, diverremo leoni». L’immagine poetica della Vergine non brillò ai miei sguardi in un raggio del sol nascente che indorava le vette dei monti, ma in vece sua mi rassicurò la lieta e serena faccia di Garibaldi, su cui si leggeva scritto un augurio infallibile di felice ventura. In quel punto, il generale ordinò a voce alta al timoniere non so qual movimento della barra; il timoniere obbedì e la prora del Piemonte volse alquanto a destra, allontanandosi velocemente dalla spiaggia del golfo, che ci sorrideva a sinistra, popolata di bianche case, aggruppate con leggiadria in mezzo a verdeggianti boschetti.
Allora, mi sovenni d’aver passato la intera notte, gironzolando su e giù per la strada, e sentii la cascaggine, e volli riposare un poco. Ma chi potea dormire in mezzo a tanta confusione?
La sala di prima classe aveva buonissimi divani, e potei sdraiarmi a tutt’agio, ma i miei vicini ragionavano a voce alta, e pareva che, invece d’aver vegliato come me, avessero dormito all’Hôtel Trombetta o nel palazzo reale. Stando dunque giù nella sala, seppi finalmente a che cosa dovesse attribuirsi il gran ritardo dei due vapori, che, aspettati fuori del porto alle nove di sera o alle dieci, non s’eran fatti vivi prima delle quattro della mattina.
Le cose erano andate così. Era convenuto col Rubattino che Bixio andrebbe a bordo ai due legni e se ne impadronirebbe, facendo l’uomo addosso ai marinai, inconsapevoli dell’accordo, che vi stavano a guardia, e li sbarcherebbe se volessero, surrogando loro altrettanti nostri volontari.
Bixio, destinato a comandare il Lombardo, e Benedetto Castiglia destinato al comando del Piemonte, furono precisi a rigor d’orologio, e alle nove in punto saltarono con un buon codazzo di gente sui due vapori e se ne fecero padroni. I marinai che dormivano, stanchi del lavoro, colti alla sprovvista, fecero di necessità virtù, e poi conosciuta la ragione di quell’assalto e lo scopo del viaggio, si dichiararono pronti con tanto di cuore a seguir Garibaldi, a costo della pelle. I vapori erano, dunque, nostri, ma in certi casi son maggiori le difficoltà improvvise di quelle prevedute; e prima che venisse fatto di dar loro l’aire e metterli fuori del porto, trascorsero sei ore buone.
Garibaldi fremeva d’impazienza, non sapendo a che cosa attribuire l’impensato ritardo; tanto più che le notti (volgendo inoltrata la primavera) eran brevi, e non gli pareva comodo, né prudente, il partire in pieno giorno, togliendo così alle autorità di Genova la scusa unica che restava loro, per asserirsi vergini d’ogni complicità con colui che di lì a pochi giorni doveva essere gratificato del titolo di filibustiere sulle note diplomatiche. Per la qual cosa, a una cert’ora, il generale non seppe più stare alle mosse, e con la sua barca andò veloce presso la bocca del porto per chiarire se qualche grave impensato ostacolo frastornasse il suo disegno.
Fu detto che anche a lui, mentre stava a farsi cullare dalle onde dinanzi a Quarto era stato riferito che un legno da guerra francese, giunto allora, intendeva di opporsi alla partenza dei due vapori; ma non posso dire se si bevette quella fiaba.
Sapute queste cose, la prima pagina del mio libro di bordo era piena da cima in fondo e non ci restava tanto bianco, da poterci scrivere un saluto a Genova. Ma vedendo sparire a poco a poco da’ miei occhi la superba regina, le dissi col cuore un addio, e non osai dirle ti rivedrò!
*
* *
Quando tornai sul ponte, il cielo si era fatto nuvolo e pioviscolava. Il Piemonte correva come poteva; il Lombardo era già indietro di qualche miglio.
Dimandai dove fosse Garibaldi; mi risposero: dorme. Egli aveva stabilito il suo quartier generale in una cabina sul ponte, e il suo refettorio nella sala di seconda classe. Verso le tre, escì fuori, salì sulla passerella, dette i suoi ordini, fece rallentar la corsa del Piemonte, perché il Lombardo ci potesse raggiungere, e poi calò giù pel desinare. Gli fummo commensali Cenni, Montanari, Fruscianti, Gusmaroli, Castiglia, io, e non so chi altri. Sirtori, e Türr, travagliatissimi dal mal di mare, non si mossero dalle loro cucce.
Venuta la sera, il tempo si fece sempre più cupo, e lo scirocco rinforzò. Era uno scirocco caldo, che mozzava il respiro. Non erano le nove, e tutti que’ poveri volontari, non avvezzi al mare, dormivano o penavano sotto coperta. Volli scendere anch’io, ma il caldo e il puzzo mi respinsero e tornai veloce a rivedere le poche stelle che luccicavano pel rotto delle nubi. Garibaldi era ito a dormire; io mi stesi dinanzi all’uscio della sua cabina, e un cameriere di bordo, còrso di nascita, che ebbe nome Desiderato Pietri, mi coperse caritatevolmente con una gran coperta di lana.
Rammento il nome di questo Pietri, che, a mia insaputa, era venuto via, insalutato hospite, dal reggimento mio stesso, e non avendomi trovato in Genova, s’era acconciato sul Piemonte come marinaio, e si era scelto l’ufficio di cameriere, perché in seguito dovrò parlar di lui.
La pioggia continuò a venir giù fine fine; era quella pioggia, che (come si usa dire in Toscana) canzona il contadino. La mia coperta pesava parecchie libbre, il mio berretto era zuppo. A una cert’ora, balzai in piedi, e fattomi a poppa, chiesi a Rossi, che vegliava al timone:
– Che ore sono?
– Dove siamo?
– Abbiam perduto di vista il fanale di Livorno; sarem tra poco nel canal di Piombino.
Dopo qualche altra parola, tornai verso la cabina del generale. Il generale uscì fuori e mi disse:
– Oh! siete qui?
– Non mi riesce dormire, generale; passeggio.
Si mise a passeggiare con me, e, di quando in quando, si fermava a guardar la bussola, che splendeva illuminata presso il timone, e volea vedere il Lombardo.
– Avete sigari?
– Buonissimi! – soggiunse, e ne prese uno, lo ruppe in mezzo e l’accese. Poi, dopo un breve silenzio, tornò a dire: – Siete pratico delle maremme toscane?
– Chi mi parla della maremma – risposi – mi parla de’ miei luoghi; luoghi poco ameni, ma sempre miei, per quanto non ci possieda una zolla. Nacqui a Gavorrano, presso Follonica, e conosco la spiaggia, palmo a palmo.
– Lo sapete? – disse Garibaldi, fermandosi di botto. – Lo sapete che abbiamo a bordo qualche migliaio di fucili, ma non abbiamo una cartuccia?
– Come! non abbiamo cartucce?
– Ve ne fate meraviglia? – soggiunse il generale. – Le munizioni erano affidate ai contrabbandieri, e questi, venali nell’anima, han corso dietro al loro meglio.
– Come? Hanno consegnato le vostre munizioni alla polizia?
– No, caro; han piantato in mezzo al mare le barche delle munizioni, per fare un contrabbando che prometta loro guadagni più lauti.
– Assassini!
– Assassini fin che volete; ma il mondo è andato sempre così. Ora è inutile che si rimpianga ciò che non si può disfare. Capirete bene che le munizioni ci sono necessarie più del pane, e bisogna procurarcele ad ogni costo. Pigliereste voi l’impegno di andare a Siena e far quivi le provviste che si vogliono? Vi aspetterei a Piombino...
– No, generale, no; a Siena non troveremo lì per lì le munizioni che ci occorrono; e poi, ci sarebbe il rischio che non rivedeste più né il messo, né l’ambasciatore. In Toscana comandano i moderati, ed è viceré il Ricasoli.
Passeggiammo per qualche tempo in silenzio.
– Andremo all’isola d’Elba – ripigliò Garibaldi – a Portoferrario, a Longone...
– No, generale, no – dissi. – A Portoferraio ci sono a iosa le munizioni, ma c’è un comandante piemontese, e la piazza è forte. Basta che il comandante faccia alzare un ponte levatoio, e noi restiamo come quelli... Dite d’andare a Longone!... E che volete trovare a Longone?... Troveremo forse tanta polvere, quanta basti per andare a caccia alle passere...
Garibaldi non fece verbo; ma giunto che fu, nel passeggiare, vicino alla prua, mi disse:
– Aspettatemi; ora vengo.
Guardai dove andasse. Andò difilato in cima alla prua e s’incamminò sul buttafuori, e messi i piedi sulle corde, fece quel che avrebbe fatto, se fosse stato... nella stanza più comoda d’un palazzo. Guardavo e tremavo: – Che sarebbe mai – pensavo – se a quest’uomo mancasse un piede, e tombolasse giù e il vomere della prua gli passasse sopra?...
– Generale! – gridai. – Generale! Mi fa pena a vedervi.
– Lasciatemi fare – rispose. – Sono avvezzo, non c’è pericolo.
Non ebbi cuore d’aggiungere parola, ma non ebbi pace finché non lo vidi tornato sul cassero.
– Che direste, – riprese – se andassimo a Talamone? Là c’è un bel golfo, e ci dev’essere un forte...
– Sicuro – dissi – e c’è vicino Orbetello, dove troveremo armi e munizioni a bizzeffe.
– Conoscete nessuno in Orbetello?
– Eh, generale, ci conosco tanta gente... C’è Arus, il gonfaloniere, che fu buon liberale anche ai tempi del granduca, c’è Agostino Cappelli, detto il Barbaro, ufficiale del genio, ci sono i Raveggi, e c’è il prete Bellucci, che per prete non è fatto male...
– Ma c’è una guarnigione in Orbetello, e la città dev’essere fortificata...
– A proposito! – esclamai. – Chi comanda in Orbetello è il Giorgini, fratello di un nostro professore, che fu sempre liberalissimo; è un uomo per bene, e gli leveremo anche la camicia di dosso...
Garibaldi passeggiò alquanto senza far motto, poi tornò a dirmi:
– Non sarebbe male il trovare, oltre le munizioni, qualche po’ di carbone. Sapete voi che ci siano depositi di carbone sulla costa?
– Sì, sì, se ben mi rammento, ce ne dev’esser uno a Santo Stefano, a poche miglia da Talamone... Là c’era un deposito di carbon fossile per fornire il Giglio, il vapore da guerra di Leopoldo II, e questo deposito ci dev’essere ancora.
– Va bene – disse il generale.
E fatto chiamare il capitano Castiglia, parlò alquanto con lui, e quindi si chiuse nuovamente nella sua cabina.
Ripigliai la mia coperta e tornai a sdraiarmi e potei dormire un paio d’ore.
Mi destai che albeggiava. La terra appariva vicina, e già si distingueva ad occhio nudo il promontorio su cui sorge la ròcca di Talamone. Garibaldi mi chiamò nella cabina, e disse:
– Stanotte mi avete rammentato i nomi di certe brave persone che si trovano in Orbetello. Scrivete adesso qualche lettera e io la darò a Türr che andrà per primo a conferire col colonnello Giorgini.
Mentre io scrivevo dentro la sua cabina, egli escì, e poco dopo lo sentii gridare col portavoce, comunicando a Bixio sul Lombardo non so quali ordini.
Tornato in cabina, Garibaldi si fece porgere la tunica da generale dell’esercito sardo e il berretto, e cominciò a vestirsi, dicendomi:
– Oggi questi abiti possono far comodo: voi andate in giro e dite a tutti quanti hanno indosso la divisa dell’esercito, che vengano qua, vicino a me.
Obbedii, e trovai cinque o sei compagni, vestiti come voleva lui, glieli condussi.
Intanto, ci venivamo avvicinando a Talamone, e una lancia con la sua brava bandiera a poppa ci muoveva incontro. Guardai col cannocchiale e vidi che erano dentro due uomini in uniforme.
– Ecco la lancia della sanità – dissi.
– Bene – rispose il generale. – Quando farò fermare, e quando la scala sarà abbattuta, scendete voi e fatevi sentire parlar toscano, e fate che gli ufficiali che sono nella barca montino a bordo e vengano qui da me.
Mi posi vicino alla scala e aspettai.
Poco dopo, la voce del capitano Castiglia gridò al macchinista:
– Arrêtez.
Tosto la scala s’abbassò, e la barca venne a fermarsi a piè della scala.
C’erano dentro un ufficiale di sanità e un tenente dell’artiglieria da costa; due poveri vecchi, impresciuttiti e logori, che, sommando i rispettivi lunari, poteano mettere insieme gli anni di Matusalemme, e dissi:
Si scopersero il capo, e mi porsero la mano. Sentii che tremavano come foglie e ripresi:
– Vedano, son due legni italiani, su cui sventola la bandiera di sua maestà il re Vittorio Emanuele. A bordo c’è un luogotenente generale che mi ha dato ordine di farli salir su.
I due vecchi alzaron gli occhi e videro la bandiera, che s’era issata in quel punto; ma nel veder la bandiera, videro anche il ponte pieno di camicie rosse.
– Ohimè! – disse l’ufficiale di sanità – quelle uniformi rosse...
– Sono abiti da viaggio – risposi. – Del resto, guardino quest’uniforme mia, e quella di quei signori che stanno su in cima alla scala... Vengano, non abbiano paura, il signor generale li aspetta.
Così dicendo, li presi, ad uno alla volta, per la mano, e li trassi sulla scala, ma più morti che vivi.
Appena posero piede sul ponte e videro tutta quella rossa grazia di Dio che c’era, mi guardarono in faccia stralunati, quasi per dimandarmi se fossero caduti in mano dei corsari, e per dirmi: «Ti ringraziamo, bel ciacchero!».
Non seppi tenermi dal ridere, e feci loro strada fino alla cabina del generale, e ne apersi la porta, dicendo:
– Ecco, generale, il comandante del porto e il comandante della fortezza di Talamone, che vengono a ricevere i suoi ordini.
Garibaldi li salutò con infinito garbo e, data loro familiarmente la mano, disse loro:
– Io sono Giuseppe Garibaldi, generale come sapete, che debbo compiere una “missione” che molto sta a cuore al Re, ma che dev’esser condotta a termine senza che si sappia che egli vi prestò mano. Perciò, non posso presentarvi alcun ordine scritto, ma vi dico, e potete crederlo, che qualunque cosa facciate per aiutare la mia impresa, sarà utile alla Patria e sarà volta al servizio del Re.
I due galantuomini si guardarono in faccia l’un l’altro, e si provarono a balbettare qualche parola, ma la voce fece loro cilecca, e rimasero a bocca aperta.
Allora, il generale mi fe’ segno che chiudessi l’uscio della cabina. Obbedii e li lasciai soli.
In quel mentre, da un gruppo di volontari, che s’accalcava a pochi passi di lì, udii chiamarmi da una voce conosciuta. Mi avvicinai, e mi disse:
– A che giuoco si giuoca, per Dio? Che cosa significano queste bandiere con lo scudo di Savoia in mezzo?
Il compagno che m’interrogava era un lombardo del quale non ricordo il nome.
– Che vuo’ tu che sappia? – risposi. – Le ha fatte issare il generale, e su quel che fa lui, non ci si sputa.
– Al solito! – saltò su il lombardo. – Dobbiamo sempre esser pecore e lasciarci condurre come le pecore?... Per Dio non va bene; no, no, no!
Qualcuno degli astanti dette ragione al lombardo, ma i più si tacquero, notando chiaro col loro silenzio che quelle due povere bandiere non eran tali da metter fuoco ai loro scrupoli.
Allora io dissi:
– Fratello, non è questo il momento di occuparsi dei cenci e della politica cenciosa; noi andiamo a batterci per l’Italia, e la bandiera che a Garibaldi piace dev’essere la nostra. Chi è mai a bordo di questi due legni, che abbia diritto di fargli il sopracciò? Per conto mio, gli vado dietro ad occhi chiusi.
Il dispettoso seguitò con maggior foga che mai ad arringare le turbe, ed io gli volsi le spalle e me ne tornai alla cabina del generale. Dieci minuti dopo, l’uscio della cabina s’aperse, e i due comandanti di Talamone escivan fuori rossi in viso come gamberi cotti, e con gli occhi pieni di lacrime.
Ambedue mi presero per mano e mi dissero:
– Oh che uomo, che uomo!... Oh che onore per noi!... Glielo dica anche lei, caro tenente, glielo dica che faremo tutto quel che vuole, e che tutto quanto è in Talamone, la consideri come roba sua!
Garibaldi escì anch’egli dalla cabina, scese nella lancia della sanità, e andammo a terra tutti insieme.