IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
Gli abitanti di Talamone non toccavano le tre centinaia, il paese è squallido, e la mal’aria non invita ad abitarlo. C’erano di stazione dieci o dodici cannonieri e alcune guardie di finanza. Tutta questa gente ci guardava con tanto d’occhi, né capiva un’acca di quella strana apparizione.
Mentre salivamo su verso il castello, notai che il vecchio ufficiale d’artiglieria (castellano o torriere) s’affaticava a precederci, correndo su per l’erta. Infatti, quando giungemmo a casa sua, comparve sul pianerottolo colla moglie, una buona vecchietta, tutta arzilla e linda come una mosca, la quale, visto che ebbe Garibaldi, cominciò a far riverenze e a gridare: «Oh Dio, che onore, che onore!». E poi, stringendo al «sor generale» la mano che ei le porse, dichiarò, con voce affannosa per il gran giòlito che tutta la casa sua, nulla escluso né eccettuato, era a disposizione di sua signoria.
Dato termine alle accoglienze, Garibaldi si fece nello scrittoio del castellano, e chiamato a sé il colonnello Türr, gli ingiunse si recasse subito ad Orbetello per trattare col Giorgini, e gli consegnò le lettere che io avevo scritte al gonfaloniere Arus e a Cappelli ufficiale del genio, per pregarli a mettere un po’ di fuoco in paese e stare alle costole al Giorgini e punzecchiarlo ben bene, caso mai s’inalberasse e apparisse disposto a risponderci: no.
Stefano Türr prese le lettere e partì, accompagnato da alcuni suoi ufficiali, promettendo che farebbe non solo il possibile, ma anche l’impossibile per far sì che il Giorgini capisse la ragione e spalancasse le porte della polveriera.
Partito il Türr, Garibaldi mi chiamò e mi disse:
– Conoscete nessuno a Piombino?
– Ci dev’essere un medico Giaconi, amico mio da gran tempo, e buon liberale quanto altri...
– Bene. Scrivetegli e pregatelo in nome mio che se mai approdasse a Piombino o nelle vicinanze una tartana, carica di volontari, comandati da Andrea Sgarallino, faccia in modo che quella gente venga subito qua per la via di terra; e se il tempo stringe, pigli pure tutte le carrozze, carrettelle e barrocci che trova... Mi saprebbe male che quella gente avesse a rimanere indietro...
Scrissi la lettera, gliela lessi e la sigillai. Fu consegnata ad un volontario torinese, che acquistò un bel grado in non so qual reggimento di cavalleria.
Il torinese partì subito sopra un meschino calesse, che trovammo non lungi in un podere, e Garibaldi si chiuse nello scrittoio con Sirtori, con Bixio, con Acerbi e con altri, per dar mano all’ordinamento di quello che chiamava il suo grande esercito.
Era suonato da un pezzo il mezzogiorno ed eravamo tutti digiuni, come se avessimo a cantar messa. Fruscianti, che nella famiglia del generale potea considerarsi come il maestro di casa, venne a dirmi:
– Ehi, pensiamo un po’ a far mangiare il generale e a mangiar noi. Pensa tu, che sei in casa tua, a trovar qualche cosa.
Ci mettemmo in giro. In Talamone non c’era che un’osteria; un’osteria anonima, annunziata al rispettabile pubblico e all’inclita guarnigione dalla modesta insegna di una frasca appesa sulla porta d’ingresso. Nell’osteria c’erano due donne; mi volsi a quella, che per l’età sua, aveva aria di essere la massaia, e le chiesi:
– Buona donna, che darete da desinare al generale Garibaldi?
– Benedetto lei! – rispose l’ostessa, ravviandosi intorno al collo il fisciù – che vuol che gli dia? In questo paese ci si trova a mala pena l’olio santo...
– Niente. C’è un po’ di carne nella pignatta, per far la minestra per noi...
– E per il generale dunque non avete nulla, proprio nulla?... Che dirà il mondo, buona donna, quando si saprà che Garibaldi ha digiunato in Talamone, peggio che se fosse nel deserto...
– Gua’ – ripigliò l’ostessa – se si vogliono adattare, posso dargli quello che si era preparato per noi; ma è pochino, pochino...
Accettai l’offerta e Fruscianti pose il visto all’accettazione. E dato ordine di apparecchiare per otto, suggerii all’ostessa di allungare il brodo a misura che eran cresciuti i frati, e di mettervi dentro qualche fetta di presciutto, e un bel cavolo, se ce l’avea, e ammannire così una buona minestra di riso.
– Poi – le dissi – vedo dei fagiuoli cotti, e voi conditeli intorno al lesso; e per coronar l’opera, fateci due frittate con le cipolle, e il diavolo non ci parrà brutto quanto pare a voi.
La donna sorrise, e si pose tosto all’opera, assicurandomi che se avesse avuto notizia del nostro arrivo il giorno innanzi, non l’avremmo trovata con le mani in mano. L’ingenuità della ostessa piacque a Fruscianti, il quale le disse:
– State pur certa che, al ritorno, vi faremo avvisata ventiquattr’ore innanzi per la posta, e voi ci farete trovar pronti i capponi.
Non era scorsa un’ora da questo dialogo che il generale sedeva a tavola, meravigliandosi di trovare un tanto lauto e gustoso pranzo in un paesello delle maremme. E nel mangiare, pigliò gran gusto a far discorrere le due donne, e ci disse parecchie volte: «Sentite come parlano bene, è una delizia a sentirle!». E ricordo ancora che si lodò molto dei maremmani, e rammentò che i maremmani nell’anno 1849, mentre i tedeschi lo cercavano a morte, gli avean salva la vita.
*
* *
Verso le due tutti i volontari sbarcarono a terra, e si cominciò a formare le compagnie, dividendo i fanti da coloro che doveano essere cavalieri, e ordinando tutto il bisognevole, per prepararci a scendere in Sicilia in buon assetto e non come un branco di scorridori.
Garibaldi ci passò in rassegna, e chiamò ad uno ad uno i comandanti delle compagnie, raccomandando loro la disciplina ed esortandoli a far capire ai loro uomini che tutta Italia aveva volto gli occhi su noi.
Un po’ più tardi tornò, da Orbetello, Stefano Türr ed aveva seco il colonnello Giorgini e il maggiore Pinelli, comandante il battaglione dei bersaglieri di presidio in quella piazza, e vari altri ufficiali.
Il Giorgini parlò a tu per tu con Garibaldi un bel pezzo, poi fu condotto tra le file dei Mille.
Il buon uomo, dopo aver veduto tutto il nostro esercito, si fece un po’ in disparte con me, e disse:
– Come? Avete l’audacia d’andare in Sicilia con tanta poca gente?...
– O se a Garibaldi la par fin troppa! – risposi.
– Male, male – soggiunse il colonnello, scuotendo il capo.
– Fra qualche giorno direte: bene! – esclamai. – Giuseppe Garibaldi sa far miracoli. Ma, a proposito, che avete voi deciso?
Il Giorgini mi rispose stringendosi nelle spalle; ed io lo confortai a farsi animo, ed a pensare che un suo rifiuto potea mandare all’aria irreparabilmente un’impresa, benedetta da tutti i veri italiani.
Egli non mi rispose né sì, né no; però conobbi che era già persuaso più che a mezzo, e finirebbe di persuadersi, innanzi che tramontasse il sole.
– Ma è proprio vero – mi diceva – che Garibaldi è d’intesa col re?... Bandi, tu che vuoi tanto bene a mio fratello, tu che sei toscano come me, bada di dirmi tutta intiera la verità... Vedi a qual passo mi si vuol condurre, in onta agli ordini che ci sono...
– Scusi tanto, colonnello – risposi – quali ordini ella ha?
– Ordini severissimi di non lasciar commettere nessun atto d’ostilità contro i papalini...
– E che cosa importa a Garibaldi dei papalini? Noi andiamo in Sicilia, e tra il papa e il Borbone ci corre una bella differenza, per quanto s’abbia a dire che il diavolo dovrebbe portarseli tutti e due.
Mentre così parlavo col Giorgini, giunse da Orbetello il gonfaloniere Arus e il Cappelli, tenente del genio. Da loro ebbi certezza che il Giorgini cederebbe e che l’indomani ci darebbe di buon animo quanto il generale desiderava.
I Mille, rotte che furon le righe, si sparsero pel paese, con terrore infinito di tutte le femmine, le quali credettero vedere in essi tanti romani al ratto delle sabine. I poveretti, stanchi del mare e del riposo forzato, appena messo piede a terra, s’eran sentiti leoni, e giravano qua e là, e facean capolino per le case, e dicevano paroline dolci, e davano occhiate di fuoco, e arrisicarono (se non mentisce la fama) qualche pizzicotto. Oltre a ciò, scontenti per non trovare in quel paesucolo né vino, né pane, né altre robe in quell’occasione desiderabili e desiderate, brontolavano fieramente, accusando di voler nascondere il ben di Dio, come se si trattasse di croati.
Nacquero liti e tafferugli senza fine; e siccome il generale era tornato a bordo del Piemonte, così il colonnello Türr si provò a far quietare il chiasso, mandando in volta con severi ordini tutti gli ufficiali, e specialmente quelli che vestivano uniforme.
Il rimedio fu peggiore del male; e due o tre volte ci trovammo alle brutte; giacché nel numero de’ Mille, se c’era fior di gioventù e fior di gente co’ guanti, c’era ancora un buon pizzico di scorbellati, a contentare i quali sarìa stata poco santa Verdiana da Certaldo, che dava da beccare alle serpi.
A una cert’ora, veduto che gli scorbellati si ribellavano e mettevano a punto, me n’andai sul Piemonte, ed avvertii di quanto accadeva il generale.
Ed ei mi disse, guardandomi torto:
– Come? Avete le sciabole al fianco e non siete buoni a fare obbedire i miei ordini?
Salutai in silenzio, e tornai a terra, e riferii a Türr ciò che m’avea detto il generale. Stefano Türr alzò gli occhi al cielo, e radunati sette o otto ufficiali, si mise in mezzo al bailamme, ma fu lo stesso che dire al muro; anzi e’ fu peggio, perché il muro sta cheto e fermo, mentre la turba degli impronti vociava e minacciava.
Il paese era sossopra; le donne berciavano, gli uomini taroccavano; si sarebbe detto che in Talamone era entrato Ajace Talamonico... per combattere i troiani.
E che potevamo fare in sette o otto, quanti s’era? Avevamo a mandare a gambe per aria qualcuno? Ripigliai il mio canotto e tornai a bordo.
Clemente VII papa, rivedendo Benvenuto Cellini dopo un omicidio commesso, lo guardò (com’ei narra) coll’occhio del porco; ma Garibaldi, vedendomi tornare, mi guardò con gli occhi del cinghiale.
– Ancora!... – gridò, buttando via il pezzo di sigaro che aveva in bocca.
– Sì, generale, vengo ancora da voi e vengo a dirvi che se ci comandate di ammazzar qualcuno e di farci ammazzare, obbediremo; ma in caso contrario, se non venite a terra voi, non si fa nulla.
Credetti che Garibaldi volesse saltarmi addosso, ghermirmi, e buttarmi in mare.
Ma la furia che gli balenò negli occhi, fu un vero lampo. Si cinse la sciabola, saltò con me nel canotto e pigliammo subito terra.
Adesso, io piglierei volentieri in prestito da un poeta classico un paragone, per dirvi, o lettori amici, come rimasero e come allibirono tutti i signori impronti, quando Garibaldi comparve improvviso in mezzo a loro, e con voce tonante disse quel che non vo’ ripetere, e poi gridò: «A bordo tutti!».
In un batter d’occhio, il paese fu deserto; le barche parean poche per tanta gente, e vogavano come razzi.
Verso sera non c’era in Talamone l’ombra d’un garibaldino, eccezion fatta di quei pochissimi che dal generale ebbero la facoltà espressa di rimanervi.
Io dormii saporitamente nel castello, e pagai due lire a un cannoniere la sua branda, che mi parve più dolce (salvando la compagnia) del letto d’un pascià.
*
* *
La mattina seguente, Garibaldi visitò per tempissimo il castello di Talamone, dove erano alquante vecchie artiglierie, e di queste ne scelse due, una delle quali era un cannone di ferro, e l’altra una bella colubrina di bronzo lunga lunga, fusa, come si leggeva in una iscrizione incisa sulla culatta, da Cosimo Cenni fiorentino, nell’anno del Signore mille e seicento tanti.
Dopo qualche ora, giunse da Orbetello un ufficiale d’artiglieria, recandoci due pezzi da campagna e non so quanti cassoni di cartucce, ed una certa dose di polvere. Tutta questa roba venne subito repartita sui due vapori, e parve a tutti che ce la mandasse la Provvidenza. Ma Garibaldi non credette di avere ancor nelle mani il fatto suo, perché dopo avere ordinato ai commissari che procacciassero viveri ed utensili per cucinare a bordo, ed altre cose che gli parvero indispensabili, mi chiamò e mi disse:
– Andate subito a Orbetello e vedete se il colonnello Giorgini ha da darci qualche altra roba. Ditegli che siamo corti a capsule fulminanti, che ci occorre qualche marmitta, e non ci sarebbe discaro qualche fucile, magari vecchio, che abbia per caso nei magazzini. Ditegli poi tante cose in mio nome, e confortatelo a non vacillare nella fede. Badate bene di non pernottare in Orbetello, perché può darsi che io parta nella serata.
Uscii per procurarmi un calesse, e mentre scendevo le scale, incontrai lo Zambianchi, armato fino ai denti, con un gran fucile a due canne ad armacollo, pugnale e pistole, e il solito berretto rosso in capo.
Chi l’avesse incontrato in un bosco, si sarebbe fatto il segno della croce, e avrebbe cercato di farsi piccin piccino, per appiattarsi in un cespuglio. Gli domandai come e perché non fosse ancora in viaggio per Perugia, e mi rispose:
– Lascia fare a me; abbiamo cambiato il piano di guerra, ma entrerò in campagna stasera. Tu che hai voluto fare il furbo, sarai a patire il mal di mare, e il vecchio Zambianchi schioppetterà intanto i papalini... Però io ti voglio bene, giacché devi essere un buon ragazzo! Dammi retta, vien con me, sei ancora in tempo. Adesso lo dico al generale, e sarai mio luogotenente.
– No, no ti ringrazio tanto – dissi trattenendolo – trovati pure un altro luogotenente e lasciami essere tamburino, ma a fianco del gran vecchio.
Zambianchi volle seguitare a battere, ma io gli augurai il buon giorno e il buon anno, e tirai di lungo.
Un signor Adami, che per caso passava in calesse per la piazza, mi prese gentilmente seco e mi offerse di condurmi in Orbetello, e in quattro e quattr’otto mi ci condusse.
Andai subito dal colonnello Giorgini, e mi parve trovarlo sulle spine. Mi detti a confortarlo, dicendogli:
– Caro colonnello, una volta che si è giocata una carta, non ci si pensa più; lei ha fatto quel che doveva fare un buon patriota, e nessuno le può dar carico di aver bucato, in un’occasione tanto straordinaria, i regolamenti. Se poi le piacesse di farla tutta tonda, e togliersi da ogni impiccio, dia retta a me, venga via con noi, e fra tre giorni sarà generale.
Il colonnello mi dette del pazzo; e siccome era per lui ora d’andare a tavola, m’invitò a fargli compagnia.
– Grazie tante – risposi – oggi non ho tempo di desinare. Io venni qui per recarle un’ambasciata, e son debitore d’una risposta prontissima.
E in poche parole ripetei ciò che il generale mi aveva detto.
Il buon uomo sbuffò un tantino, e si mise a passeggiare su e giù per la stanza: poi, fermandosi di botto, ripigliò:
– Bandi, parliamoci chiaro; ho fatto oggi una cosa che non farei mai più, nemmen campando dugento anni; ora si vuole ch’io rincari la dose al peccato e cresca il peso a’ miei guai; è vero che il generale m’è stato cortese di tanto di ricevuta; ma come l’intenderà il ministro della guerra, che dirà il barone Ricasoli? E se l’impresa andasse male?
– Tocca a lei – soggiunsi – il far sì che vada bene somministrandoci a sufficienza i mezzi che ci sono disponibili.
Queste ed altre ragioni persuasero agevolmente il colonnello, il quale concluse che mi avrebbe fatto condurre subito nei magazzini, con facoltà di scegliere quel che volevo, a patto però che io lo assicurassi nuovamente che Garibaldi non avrebbe fatto alcun tentativo contro lo stato romano.
Lo assicurai con giuramento, e Dio m’avrà perdonato lo spergiuro.
Mentre questo accadeva, giunse il gonfaloniere Arus e giunse il tenente del genio, ed essi finirono di togliere dall’animo del colonnello ogni incertezza, se pure gliene rimanea. Sicché dopo poco, un aiutante di piazza mi conduceva ne’ magazzini, e io facevo caricare su’ barrocci un’infinità di schioppacci vecchi, sciabole rugginose, trombe, marmitte ed altre ferravecchie: roba tutta che, in que’ momenti, fu per noi preziosa quanto la manna degli ebrei. Mancavano le capsule, e il Giorgini non ne aveva. Allora, fattomi animo, andai diritto dal maggiore dei bersaglieri, e in nome di Garibaldi, gli chiesi mi regalasse quante più capsule poteva. Il maggiore si fece un po’ pregare, ma poi mi dette alquante migliaia di capsule, e mi incaricò di salutar tanto il generale, e di pregarlo che se mai qualche bersagliere andasse a bordo de’ due vapori, coll’idea di svignarsela, lo facesse scendere senza misericordia.
Promisi tutto, e me ne andai con Dio, recando meco gl’inestimabili tesori, e per soprappiù un cestino di frutta secche, che sapevo essere graditissime al generale.
Salutati Arus e il Cappelli, e l’arcidiacono Bellucci e i fratelli Raveggi, ed altri molti che conoscevo in Orbetello, montai sopra un trespolo, e via.
Quando fui presso a Talamone un paio di miglia, incontrai una sessantina di volontari, armati in piena regola, che marciavano a righe aperte. Riconobbi subito Guerzoni e Cesare Orsini, che andavano tra’ primi; ma chi più mi dette nell’occhio fu il bellissimo Zambianchi, che in figura di capitan generale, procedeva pettoruto nel mezzo della via, a metà della colonna.
Fermai il mio trespolo, e Zambianchi si fermò anch’egli, gridando:
– Per l’ultima volta te lo dico: vieni con me...
– Addio bello! – risposi. – Buona fortuna!...
– Te ne pentirai! – soggiunse Zambianchi, sollevando la mano, e tirò di lungo.
Ripigliai di buon trotto la strada. Quando giunsi a Talamone, era notte, e il tempo cominciava a farsi buzzo. I due vapori non erano più al solito posto, ma s’eran tirati alquanto al largo. Mentre aspettavo una barca che mi portasse a bordo, ecco accostarmisi un pover’uomo, tutto cenci, e smunto come il Battista nel deserto, che mi dice:
– Sor uffiziale, mi dia qualcosa per su’ carità.
– Come! Chiedi la carità a me, che ho già fatto testamento e mi son fatto ungere...?
– Che vuole? Le febbri m’hanno strutto, e non si trova da lavorare. Creda in Dio che ho fame, e non ho un picciolo in tasca. Son venuto da Orbetello stamani, e non ho trovato da sdigiunarmi.
Rammentai in quel punto la scena dell’Elixir d’Amore dove il sergente dice a Nemorino, matto per amore e per non aver denaro:
«Se denari non hai, fatti soldato»
– Allora, caro mio, morire per morire, l’è meglio morir da bravo con noi, che crepar di fame. Almeno ti metteranno in musica. Ha’ tu paura delle palle?
Il maremmano fe’ cenno che no.
– Allora – soggiunsi – monta meco su questa barca, e da ora in poi sarai soldato di Garibaldi.
– Viva Garibaldi, sempre! – esclamò il disgraziato, non più disgraziato, e mi seguì.
Si chiamava Becarelli, ed era bracciante.
Vogammo verso il Piemonte. Tutti i lumi erano spenti; e regnava a bordo un silenzio così profondo, che si sarebbe sentita la tromba d’una zanzara.
La sentinella mi riconobbe e fu abbassata la scala. Appena fui salito mi venne intorno Fruscianti, dicendomi:
– Se non hai gran bisogno di vedere il generale, non andare a disturbarlo. S’è chiuso in cabina e non vuol veder nessuno. Da che lo conosco, e sono ormai tanti anni, non l’ho mai veduto così nero com’è stasera. Figurati che aspetta che tornino i commissari di guerra per farli buttare in mare. L’ha detto ed è capace di farlo; con lui non si scherza.
Non avevo mai veduto Garibaldi con la mosca al naso, né avevo gran voglia di vederlo; pure era ben necessario ch’io gli rendessi conto della mia ambasceria, e lo avvertissi che le robe consegnatemi dal Giorgini sarebbero giunte di buon mattino. Per la qual cosa mi parve il caso di dover fare di necessità virtú; e ordinato alla mia recluta che mi seguisse col fagotto delle capsule, presi in braccio il cestino delle frutta secche, e picchiai pian piano all’uscio della cabina.
– Chi è?
Apersi risolutamente e mi feci vedere, rispondendo:
La parola signore stia a dimostrare la gran paura che avevo in corpo nel presentarmi per la prima volta non a Garibaldi sorridente e benevolo, ma a Garibaldi in burrasca.
– Che cosa volete da me? – soggiunse l’iracondo, guardandomi tutto accigliato.
– Volevo dirle, signor generale, che sono stato ad Orbetello, e che il Giorgini mi ha dato schioppi, sciabole, trombe, marmitte, e anche un po’ di polvere: roba tutta che venne caricata su due o tre barrocci, e sarà qui innanzi giorno. Le capsule non le aveva, ma le ho chieste al maggiore dei bersaglieri che m’ha dato queste poche... Dice il maggiore che...
– Che cosa ha da dirmi il maggiore?... – interruppe in tono sempre più burbero il generale, i cui occhi mettean faville.
– Si raccomanda che non gli si portino via i bersaglieri... Il colonnello poi...
– Anche il colonnello! – gridò Garibaldi picchiando colla mano aperta sul tavolino. – Finitela, per Dio!
Cominciai a sentir freddo: deposi ai piè del tavolino il paniere delle frutta, e balbettai tremando:
– Comanda nulla da me?...
Mi rispose con un gesto d’impazienza, che voleva dire: vattene; ond’io salutai inchinandomi, e fui sollecito a saltar fuori.
*
* *
Ritrovai Fruscianti, il quale mi disse che il malumore di Garibaldi era cagionato dal ritardo de’ commissari a portargli a bordo le vettovaglie, ritardo che gli impediva di mettersi in viaggio nella serata, come avea fisso. I commissari avean cercato di scusarsi, ed egli non aveva voluto sentir ragioni; anzi pigliando per pretesti le loro scuse, era salito in gran furia, e avea giurato che i due negligenti, se non facessero il dover loro innanzi giorno, capitombolerebbero in mare.
Seppi poi dallo stesso, che nelle ore della mia lontananza da Talamone erano accadute cose grosse, per causa di certi screpanti mazziniani, che avean tentato metter male fra i volontari, dicendo che Garibaldi collo spiegar bandiera regia, avea mancato ai suoi patti e si preparava a venderci tutti alla monarchia, insieme ai siciliani. Gli screpanti suddetti ne facevano un caso di coscienza, e avrebbero sacrificato volentieri, alla questione d’un cencio, la bella impresa nostra; ma con Garibaldi c’era poco da mordere, e i loro denti non morsero. Tutto il gran chiasso era finito con due o tre parole dure del generale e con la partenza dei tre o quattro puritani, che, vista la mala parata, se ne andarono chiotti chiotti, e portarono, non so dove, i loro santissimi sdegni, lasciandoci quieti e tranquilli coll’amor d’Italia nel cuore e colla croce sabauda spiegata sulle nostre teste.
Saputo quanto volli sapere, pensai alla fame della mia recluta e le posi innanzi alle bramose canne due o tre gallette e una borraccia piena di rum, allungato coll’acqua. E mentre mangiava, gli dissi:
– Ecco la sacchetta colla mia poca roba, mettila ad armacollo; eccoti questo bel pugnale, infilzatelo nella cintura. Ricordati poi che non devi perdermi mai d’occhio e devi intendermi senza ch’io parli ed obbedirmi senz’aprir bocca. E se mai tu mi ti mostri poltrone, sappi che invece d’andare in musica, andrai ai pesci.
Ora, siccome ho fatto cenno d’un mio pugnale, debbo dire che quel pugnale, vera lama di Toledo, e inguainato in una guaina di velluto rosso, me lo regalò, nel partire, il mio carissimo Vecchi, che possedeva molte armi antiche, e che vuotò il suo museo per regalare a tutti i più intimi un ricordo. Noto questo fatto, perché sta a paio con un altro fatto. Quando Vecchi m’ebbe regalato il pugnale, gli dissi:
– Amico, voglio un altro favore da te; piglia questa mia lettera e fa che giunga, appena saremo partiti, nelle mani del re.
– Come! – esclamò il Vecchi, meravigliando – tu hai scritto al re!...
– Gli ho scritto – risposi – non per altro che per dirgli che lasciando così come l’ho lasciato, il mio reggimento, non ho inteso far torto al dovere del galantuomo che giurò fede alla sua bandiera. Non permetta egli dunque che mi si dichiari disertore e mi si condanni come tale, perché la bandiera dai tre colori, che lasciai in Alessandria, sventola ancora sul mio capo e non l’abbandonerò che morendo.
L’amico non trovò cattiva la mia idea; pigliò la lettera, e promise che verrebbe mandata al suo destino. Ed egli mantenne la promessa, e il re mi volle bene e firmò la mia dimissione nel giorno 15 maggio; nel giorno stesso in cui caddi ferito sul campo di Calatafimi, cioè nel giorno in cui Garibaldi aveva divulgato per la prima volta il suo felice motto: «Italia e Vittorio Emanuele».
Ma non solo quella lettera scrissi; ché un’altra ne mandai al generale Stefanelli, comandante la divisione alla quale io appartenevo, ed egli deve averla ricevuta non più tardi del dì 7 di maggio.
Noto infine che nella spedizione dei Mille fummo cinque ufficiali, venuti via senza aver in tasca la dimissione; e un de’ cinque, che ebbe nome De Amicis, ed era nativo di Como, morì, tra’ primi, per una palla di carabina, che gli ruppe la fronte.